Speciale Banca Romana
Ogni tanto, mentre si è immersi nell'attualità, può essere opportuno
ed istruttivo andarsi a rileggere qualche pagina di Storia.
In Italia dopo l'unità , a differenza degli altri paesi, non c'era un
solo istituto d'emissione ( a quell'epoca la Banca d'Italia non
esisteva, e vedremo qui quali vicende ne determinarono la
costituzione) ma ben sei: la Banca nazionale, la Banca nazionale
toscana, la Banca toscana di credito, la Banca romana, il Banco di
Napoli e il Banco di Sicilia. Il neo Stato unitario assegnava un
limite alle loro emissioni, e ciò era di competenza del Ministro del
Tesoro. Peccato che fin dall'inizio non riuscì mai a farlo
rispettare. Solleticate dagli operatori economici, per uscire dalla
stagnazione, le sei banche stampavano biglietti oltre la misura
consentita e ciò provocava inflazione e disordine.
Il Ministro dell'epoca, Minghetti, aveva pensato ad un unificazione
degli istituti di emissione, ma non aveva la forza politica per
imporla; allora ripiegò su un progetto di legge che creava fra essi
un consorzio per regolarne l'attività. Il progetto subì attacchi
violenti, da parte della Destra sostenitrice dell'assoluta libertà
bancaria, ma ebbe consensi dalla Sinistra moderata, che riuscì a far
passare la legge a maggioranza. Essa regolò per venti anni (siamo
nel 1873) il sistema bancario italiano, ma non lo mise al riparo da
guasti destinati a provocare una delle crisi più sconvolgenti che
l'Italia abbia mai attraversato.
Negli anni 80, governo Depretis, fu abolito il corso forzoso;
precisamente nell'83 , e ciò nella solita atmosfera di sgomento e di
paura che accompagna tutte le novità. I benpensanti erano convinti
che gli italiani avrebbero fatto ressa allo sportello delle banche
per cambiare i biglietti in moneta di metallo e tesaurizzarle
sottraendole alla circolazione. Fino a quel momento il cosiddetto
aggio, cioè la differenza di valore della lira-oro con la lira-carta
era stato di circa il 10% (dunque nelle contrattazioni private una
moneta d'oro da cento lire ne valeva centodieci di carta)proprio
perché non c'era la convertibilità. Il semplice annuncio del decreto
di convertibilità e quindi l'abolizione del corso forzoso, ridusse
questa differenza a meno dell'1%. E contrariamente alle attese, i
biglietti cambiati ammontarono solo a 250 milioni, cifra
considerevole, ma pur sempre una modesta quota del totale della
circolazione monetaria. GL'ITALIANI SI ERANO ABITUATI ALLA
CIRCOLAZIONE CARTACEA. Questo provocò diverse sostanziose
conseguenze. Anzitutto, con l'oro accumulato nelle sue casse per far
fronte alle richieste del risparmiatore nel caso in cui questi avesse
voluto effettivamente convertire i suoi biglietti di banca, lo Stato
lanciò un prestito che gli fruttò 650 milioni. Ma oltre a questo, la
prova di forza e di stabilità fornita dalla lira, ne rialzò la
quotazione in tutte le Borse del mondo attirando in Italia circa un
mezzo miliardo di capitali stranieri. Poteva essere la grande
occasione del decollo. Ma purtroppo mancò il principale strumento:
le Banche. Eppure ce ne erano tante, perché dopo l'unità quasi tutti
i vecchi Stati avevano voluto conservare le loro, il che provocava un
grave disordine finanziario. Non solo. Ma i loro criteri di gestione
erano i meno adatti a svolgere compiti imprenditoriali. Le più forti
come consistenza di fondi, erano la Cassa depositi e prestiti, le
varie Casse di Risparmio e le banche popolari. Erano queste che
rastrellavano due buoni terzi del risparmio nazionale, ch'era un
risparmio di piccola gente di provincia e di campagna, ignara del
mondo moderno, timorosa delle novità, e attaccata alla sicurezza. Si
mirava ad investimenti di modesto utile ma di tutta sicurezza, come i
mutui alle province e ai comuni per le opere pubbliche, cartelle di
credito fondiario o titoli del debito pubblico. Alle banche ordinarie
andava invece il risparmio dei ceti più intraprendenti e attivi che,
avendo maggiori disponibilità, tenevano meno alla sicurezza, ma più
agli utili, e li volevano tali da compensare il rischio. Queste
ultime erano inoltre, e in parte sono tuttora, affette dal vizio
congenito dell'usura. Gli alti interessi ch'esse esigevano rendevano
proibitivi i finanziamenti a scopo industriale che richiedono tassi
modesti e lunghe scadenze. Perciò all'imprenditore esse avevano
preferito lo speculatore di cui erano divenute le grandi complici.
Pur avendo a disposizione tutto quel circolante ne approfittarono
per inflazionare il credito a vantaggio soprattutto della
speculazione edilizia, nella cui clamorosa bancarotta dovevano
restare di lì a pochi anni coinvolte. Per trovare l'ossigeno
necessario alle loro iniziative, gli imprenditori italiani dovranno
aspettare l'arrivo delle banche ebraiche tedesche, cioè della Banca
Commerciale a Milano di Joel e Toeplitz, e del Credito Italiano a
Genova di Goldsmith. Crispi infatti nel 94 dopo che si toccò l'acme
della crisi, con il Credito Mobiliare e la Generale sprofondati nel
baratro, chiese aiuto al suo grande amico Bismarck. Questi persuase
alcuni riluttanti finanzieri tedeschi a intervenire : Toeplitz, Joel,
Golsmith erano dei finanzieri ebrei di grande esperienza
internazionale, per i quali la Banca non doveva limitarsi ad
operazioni di credito ordinario, ma farsi promotrice di una vasta
mobilitazione di capitali per fornire il propellente all'industria.
In Italia il capitale c'era, il risparmio nazionale ammontava a
cinque miliardi, ma la fetta più grossa era congelata dalla paura, e
il resto alimentava solo il giuoco d'azzardo della speculazione.
Andiamo quindi a vedere l'episodio più clamoroso di quell'epoca, lo
scandalo della Banca Romana,che aveva alimentato la paura dei
risparmiatori, soprattutto nei suoi risvolti politici così come li
ha raccontati Indro Montanelli nella sua Storia d'Italia.
Per ricostruirlo, occorre fare qualche passo indietro. Il
trasferimento della Capitale da Firenze a Roma, vi aveva provocato
una vera e propria febbre edilizia. I romani si erano gettati sulla
speculazione delle aree fabbricabili, i cui prezzi in poco tempo
erano saliti alle stelle. Come sempre i piani regolatori in Italia,
anche quello varato per porre un argine alla frenesia romana, rimase
sulla carta. In vista di un espansione urbana che poi non ci fu,
almeno nella misura in cui si pensava, Roma fu tutta un cantiere. E
per alimentarlo gl'impresari attinsero a man bassa al credito delle
Banche. Come sopra ricordato, gli istituti di emissione , che avevano
facoltà di stampare e mettere in circolazione carta moneta , erano
sei. I governi che si erano succeduti avevano tentato di attribuire
questo diritto in esclusiva alla banca d'Italia, che allora si
chiamava banca nazionale. Ma non c'erano mai riusciti per la
resistenza delle altre cinque, fra cui quella Romana, autorizzata a
emettere biglietti per 45 milioni. Quando il grande boom edilizio
finì nella solita voragine di fallimenti, la banca Romana si trovò
seppellita sotto una valanga di crediti inesigibili e corse voce che
fosse prossima a fallire.
Il Ministro dell'Industria e Commercio, Miceli, prese l'iniziativa di
un inchiesta che affidò a due solerti funzionari, Alvisi e Biagini.
Costoro appurarono che la banca non solo aveva messo in circolazione
25 milioni (oltre il 50%) in più di quanto consentito, ma ne aveva
perfino stampati clandestinamente altri 9 (stiamo parlando di
parecchie decine di miliardi di oggi). Responsabile di questa
colossale truffa era il direttore , un certo Tanlongo, che quando si
vide colto con le mani nel sacco, non se ne allarmò. Troppa gente era
interessata a mettere tutto a tacere: grandi imprenditori, uomini
politici, giornalisti. Ebbe ragione. Adducendo a pretesto le gravi
conseguenze che la pubblicazione del rapporto avrebbe potuto avere
nel mondo della finanza, Crispi, capo del governo, ne ordinò
l'insabbiamento. A Tanlongo fu proposta 3 anni dopo dal nuovo capo di
governo, Giolitti, la nomina a senatore. Senonchè proprio in quel
momento moriva uno dei due inquirenti , Alvisi, che, turbato nella
sua coscienza dal silenzio che gli avevano imposto, aveva affidato
l'originale del suo rapporto a un giovane amico, Leo Wollemborg. Il
quale, a sua volta incerto sul da farsi, passò il documento a Maffeo
Pantaleoni che ne parlò con Pareto (entrambi noti economisti) e altri
amici, alcuni favorevoli, altri contrari alla denuncia del caso in
parlamento. Ma ormai le voci circolavano e Giolitti, rendendosi conto
che non poteva evitare la tempesta, cercò di prevenirla predisponendo
contro la Banca Romana un inchiesta amministrativa che evitasse
quella parlamentare.In un atmosfera di grande tensione Napoleone
Colaianni,il focoso socialista siciliano, lesse alla camera le
conclusioni dell'inchiesta Alvisi-Biagini. Ne seguì l'indagine
amministrativa voluta da Giolitti, affidata al senatore Fanali,
condotta a tambur battente e senza riguardi per nessuno. Furono
accertati fatti e circostanze ancora più gravi di quelle emerse
prima: oltre alla circolazione abusiva, risultava un vuoto di cassa
di 20 milioni E UNA FALSIFICAZIONE DI BILANCI che durava da oltre
venti anni. Tanlongo fu arrestato. Quando i carabinieri si
presentarono a casa del deputato De Zerbi, accusato di avere
intascato mezzo milione per aver insabbiato un progetto di riforma
che danneggiava la Banca romana, lo trovarono morto e non si è mai
saputo se per infarto o suicidio. Subito dopo un direttore del banco
di Napoli fu sorpreso mentre tentava, travestito da prete, di
espatriare con due milioni e mezzo sottratti al suo istituto. E quasi
contemporaneamente veniva assassinato in treno il marchese
Notarbartolo che aveva poco prima denunciato certi abusi al banco di
Sicilia, di cui era stato direttore (Gravemente indiziato del delitto
era il deputato Palizzolo, notissimo patrono della mafia, che infatti
fu condannato a 30 anni, ma la Cassazione annullò la sentenza e
ordinò un nuovo processo che si concluse con una vergognosa
assoluzione).
Questi episodi non avevano nulla a che fare con quello della Banca
Romana. Ma la loro concomitanza fece alzare la tensione , per cui una
semplice inchiesta amministrativa non poteva più bastare. Quando
Giolitti si recò alla Camera per illustrarne i risultati, Colaianni
aveva già avanzato la richiesta di un inchiesta parlamentare. Per
farla in breve, Giolitti dovette far fronte a un autentico tornado,
ma ne approfittò per varare il progetto di legge, che prevedeva la
fusione di 4 delle 6 principali banche (restano escluse Napoli e
Sicilia) in una sola, autorizzata in esclusiva alla emissione di
biglietti. Era l'atto di costituzione della Banca d'Italia.
Nel frattempo lo scandalo della banca romana aveva provocato un tale
sconquasso che alla fine del 93 due importanti istituti finanziari,
il Credito Mobiliare e la banca Generale, chiusero gli sportelli
alimentando il panico che già dilagava. Cadde Giolitti e salì al
governo Crispi, con una coalizione di "unione sacra" viste le
difficoltà anche sociali che esistevano. Al Ministero del tesoro e
elle finanze andò Sonnino, figlio di un israelita livornese, che
riuscì a raddrizzare la situazione, anche con misure impopolari come
l'aumento delle imposte sui generi di prima necessità, ma soprattutto
restaurando il buon ordine amministrativo e riorganizzando il debito
pubblico per ridare stabilità alla moneta. La sua più brillante
operazione fu quella che portò alla già citata fondazione della Banca
Commerciale, a seguito della quale l'industrializzazione ebbe un
decisivo avvìo. I capitali fuggiti tornarono, la lira riprese quota e
per la prima volta dopo sette anni migliorò la bilancia commerciale.
Ma l'affare della banca Romana non era stato ancora digerito
dall'opinione pubblica. Anzi, proprio in quell'estate del 94 era
stato rilanciato dal processo contro Tanlongo, che si era concluso
con una scandalosa assoluzione perché i giudici avevano accolto le
tesi della difesa, secondo cui alcuni documenti rinvenuti in casa
dell'imputato al momento del suo arresto erano stati sottratti per
coprire le responsabilità di importanti personaggi. Questi ultimi non
potevano che essere quelli al potere in quei giorni: cioè Giolitti.
Il quale passò alla controffensiva affermando che i famosi documenti
effettivamente c'erano : due lettere di Tanlongo dalle quali
risultava che non c'era stata sottrazione di documenti; ma vi erano
allegate un centinaio di altre lettere indirizzate a Tanlongo da
Donna Lina Crispi che, anche se non facevano nuova luce sulla Banca
Romana, ne gettavano una poco edificante sulla moglie del capo del
governo, che portò a nuove elezioni, in cui Crispi riuscì a vincere
di nuovo, e a trarlo dai guai furono gli avvenimenti africani.
Sull'Amba Alagi un battaglione italiano era stato sopraffatto dagli
abissini. L'emergenza fornì a Crispi il pretesto per rilanciare, in
nome della Patria in pericolo, l'unione sacra di tre anni prima. Ma
c'è da chiedersi se la risoluta azione coloniale in cui si impegnò
non gli fosse ispirata anche dal desiderio di distrarre l'attenzione
del paese dallo scandalo in cui si era trovato coinvolto e di
riguadagnare in Africa il prestigio perso in Italia. Invece della
rivincita, però, ci trovò la sconfitta definitiva.