4/24/2006

IL RE E' NUDO (dic. 2003)

IL RE è NUDO

di Michele Spallino

Indice:
Ringraziamenti
Introduzione
Parte prima: Crisi strutturale
1- Risparmio e sviluppo
2- La sfida
3- Vulnerabilità
4- Instabilità
5- Micro contro macro
6- Partita epocale
Parte seconda: l’Eco del Passato
7- Elliott e la Storia
8- Impero Romano
9- Iperinflazione
Parte terza: per una critica del Fed-pensiero
10- L’Inflazione odierna
11- Bolla immobiliare
12- Greenspan e i mutui
13- Altre chicche di Alan
14- Io, Greenspan
15- Bernanke
16- McTeer
17- Metafora
Parte quarta: Anatomia della Superbolla
18- Il Grande esperimento
19- Derivati e Finanza strutturata
20- Parabola
21- Debiti e nuvole
22- Deficit Gemelli
23- Dollòro
Parte quinta: Crimini e misfatti
24- Distruzione di capitale, produttività e conti edonici
25- Kindleberger
26- Borse e PIL
27- Profitti
28- Modello Fed e fattore Q
29- Bilanci USA
30- 1929
31- Fisiologia delle bolle e Soros
32- Psicoborsa
33- L’Orso
Parte sesta: considerazioni geopolitiche
Epilogo

Grafici
Bibliografia.




Ringraziamenti

Per i loro scritti che tanto mi hanno aiutato nel mettere a fuoco l’intreccio di problematiche affrontate in questo libro :

William Bonner, presidente di Agora Publishing
Maurizio Camerano, consulente aziendale
John Mauldin, presidente di Millenium Wave
Doug Noland, economista della Prudential
Stephan Roach, economista di Morgan Stanley
Kurt Riechbacher, economista indipendente
Alan Ruskin, direttore di 4cast ltd.
Richard Russell, analista indipendente
Fonte preziosa di dati ed analisi è stata inoltre
European Currency Analysis (ECR research ltd.).
I grafici sono attinti dalla Federal Reserve Bank of Sant Luis.


L’autore (1955), consulente ed operatore finanziario, ha vinto il 1° Premio Philips 1976, con “Una proposta per la riforma dell’impresa”; è stato responsabile di Ufficio Studi e di Area finanza presso aziende di credito; ha scritto “I consumi privati dal 1951 al 1980” ed. ESI 1985 , diversi saggi in riviste di economia e finanza, ed articoli su vari quotidiani.










Introduzione
“La semplice esposizione del corso degli eventi, sia pure su scala mondiale, di rado giova a comprendere meglio le forze in gioco nel mondo di oggi: se non abbiamo al tempo stesso , cognizione dei cambiamenti strutturali di fondo. Ciò che anzitutto ci occorre è una prospettiva nuova, e nuovi termini di riferimento. Sono questi che il presente lavoro tenterà di fornire”
(Geoffrey Barraclough, 1964)

La Storia umana è piena di fasi di espansione e contrazione.
Grandi civiltà e grandi città sono sorte, arrivate all’apogeo e poi sono
sparite, spesso lasciando poche tracce. Le cause potevano essere le
più svariate, dalle epidemie alla mancanza dell’acqua o di
terra coltivabile. La città o la civiltà diventavano così vincenti che la loro popolazione cresceva senza limiti e alla fine esauriva le proprie risorse. In quasi ogni situazione, troviamo che la determinante ultima è stata il venir meno della capacità di generare risparmio, ed infatti in sua assenza le civiltà e le nazioni non riescono neanche a decollare, vedasi lo stesso mondo sottosviluppato a noi contemporaneo.
La Storia pone quindi alcune domande:
può l’economia americana senza risparmi continuare a svilupparsi ? può il suo debito estero crescere senza limiti? può finanziare una espansione della sua superiorità militare?
In questo lavoro, cui sforzo primario sarà mettere anche i non “esperti” in condizione di capire, si cercherà di rispondere, ripercorrendo il modo in cui le cose hanno funzionato durante la Storia, comprendendo l’essenza dei meccanismi dell’economia e della finanza, e sottoponendo ad analisi critica la “dottrina” della banca centrale americana su cui si reggono le attuali illusioni.
Si inquadrerà la caduta del risparmio americano nel più ampio contesto delle modifiche strutturali in corso nel globo; si proseguirà con le grandi lezioni del passato, e con l’analisi di alcuni discorsi particolarmente rivelatori tenuti di recente da esponenti della Federal Reserve; si passerà poi all’anatomia della Superbolla finanziaria venutasi a determinare; si analizzeranno le tante trappole che circondano Wall street; si finirà con qualche notazione geopolitica.
In questo percorso si cercherà di dimostrare:
come gli Stati Uniti d’America siano nella fase iniziale di decadenza a causa della perdita di capacità nel generare risparmio, finora compensata –moderno conte Dracula – dal risucchio dei risparmi altrui;
come questa compensazione sia destinata inevitabilmente ad esaurirsi perché fallirà il “grande esperimento” in corso ad opera della Federal Reserve: voler trasformare- moderna alchimista – i debiti in ricchezza, drogando l’economia reale attraverso un processo di liquefazione finanziaria senza precedenti.
Inoltre proprio in questo momento in cui non se lo possono permettere, gli USA stanno cercando di estendere il loro raggio di azione militare. A tal proposito va ricordato quanto documentava negli anni 80 Paul Kennedy in “Ascesa e declino delle grandi potenze” mostrando i ripetuti esempi di imperi globali che alla fine sono sempre caduti: dalla dinastia cinese dei Ming, alla Spagna , a Napoleone, all’Impero britannico, per non parlare dell’ Impero romano.
Infine la Società nella Storia ha prosperato solo quando morale ed economia, pur con tutti i limiti politici, sono riuscite ad andare nella medesima direzione (dall’antica Roma, all’etica calvinista base del successo nel capitalismo). Oggi morale ed economia stanno divergendo sempre più: i campanelli d’allarme squillano a vari livelli.
Indurre le persone a credere che in Borsa si guadagni sempre e comunque, è un azzardo morale . Indurre la gente a spendere più di quanto guadagni, anche. Invece di insegnare le virtù del risparmio, si preferisce illudere : i debiti dei privati, delle imprese e della nazione nei confronti dell’estero, non contano.
L’etica calvinista viene sostituita dall’etica del tardo impero; si torna alla corte di Versailles fra mollezze ed agi, convinti che la Bastiglia non verrà mai presa.
Per quanto tempo la maggioranza continuerà a credere che il Re sia vestito, senza rendersi conto che il Re invece è nudo? Forse per molto, perché il potere degli interessi in gioco è tanto; perchè ai piani alti si guarda al prossimo trimestre, non ai prossimi dieci anni; perché ai piani bassi l’ignoranza e la voglia di casinò sono sempre più diffuse. Ma prima o poi arriverà la resa dei conti e tanto più ci si sarà spinti nell’azzardo, tanto più salato sarà il conto finale da pagare.








Parte prima: Crisi strutturale


1- Risparmio e sviluppo
Durante il medioevo il progresso economico subì
una pesante involuzione. Il commercio attraverso l’Europa, così come
le infrastrutture e la crescita economica, crollarono rispetto
all’epoca dei Romani.
Perché, date le conoscenze acquisite, l’Europa
medioevale non migliorò rispetto al commercio dell’epoca romana?
Una ragione primaria era la mancanza di capitale e una mancanza di
volontà nell’intraprendere. La classe dominante (re, duchi,
cavalieri, baroni) prendeva quello che poteva dai contadini
sudditi, lasciando loro il minimo per la sopravvivenza. In pochi
posti costruiva ponti o strade, e non si impegnava mai in
investimenti duraturi, come invece avevano fatto i romani. Ciò che
non era usato per guerre, crociate, o per il mantenimento delle
corti, era consumato in acquisti di cose lussuriose, dando feste, e
spendendo in altri modi più vari per essere stimati e impressionare i
sudditi e gli altri della classe signorile. Il consumo era la regola
del giorno tra la classe dominante.L’aspettativa di vita era di 30 anni,a 40 un uomo era considerato vecchio, i bambini non risultano menzionati nella letteratura
dell’epoca; carestìe, alluvioni, guerre, malattie e altro
contribuirono a creare un mondo di grande incertezza. In questo
clima, perché preoccuparsi di altro che non fosse l’immediato futuro?
Ora, pur riconoscendo che vi era una grande sfiducia e che la voglia
di lavorare oltre la sussistenza era stata congelata dalla società e
dalla Chiesa dell’epoca, l’assenza di risparmio fu
la causa fondamentale; senza risparmio non potevano esserci
investimenti capaci di assicurare flussi di reddito futuri, e dunque
crescita economica come dimostra anche l’osservazione delle società tribali.

William Defoe, con il suo impareggiabile Robinson Crusuoe scritto nel
diciottesimo secolo, ha rappresentato l’etica protestante del
risparmio e del consumo morigerato che sta alla base dell’eccezionale
sviluppo capitalistico moderno: chi non ricorda come il suo naufrago
comincia ad accumulare tutto ciò che può nell’isola deserta, e
quando trova la possibilità di iniziare a coltivare dei chicchi di
grano se ne guarda bene dal mangiarsi subito il raccolto; bensì lo
risparmia e lo ricoltiva, e solo dopo averne accumulato a sufficienza
inizia – sempre morigeratamente –a consumarlo; alla fine la sua
piantagione sarà in grado di sfamare molte persone .


Oggi, anche se vi è certamente un clima economico e sociale diverso
da quello medioevale, gli USA, hanno creato una società dove il
consumo sfrenato è la regola di vita. Gli americani vivono come dei
Re finchè possono, perché come ha spiegato magnificamente Erich Fromm
dal punto di vista del “carattere sociale” , l’oralità insita nell’atto del consumo li fa sentire vivi: consumo dunque sono , e sono quello che consumo, perciò voglio
consumare sempre di più e sempre meglio. Tutto ciò è
negli interessi dell’apparato industriale, che per produrre ha
bisogno di chi consumi i suoi prodotti,ed in un sistema politico plutocratico, quale quello attuale, prevalgono tali interessi.
Ma – esattamente come nel
medioevo- anche oggi ciò che viene consumato non può essere
investito. Se il seme viene mangiato, non ci sarà mai la pianta.
Comprando una macchina nuova, una casa più grande, un nuovo vestito o
iscrivendosi al club del golf, mangiando in modo sempre più ricercato
o bevendo vini pregiati, non si migliora la propria salute; questi
consumi sono parte della qualità della vita e hanno il loro posto,
ma alla fine risulteranno fonti di maggiore incertezza, sia a livello
personale che nazionale, se vengono effettuati a scapito del
risparmio o, ancora peggio, indebitandosi oltremisura. Infatti è
sempre e solo una questione di msura: il debito non è un male in sé,
lo diviene sopra un certo limite al di sotto del quale può essere positivo;
idem per il consumo e dunque per il
risparmio: se per assurdo si risparmiasse solo e sempre, senza mai
consumare, avremmo stagnazione. Ma non c’è dubbio che
nella giusta misura, il risparmio, e dunque l’accumulazione di
capitale, aiuta invece a creare un futuro più certo. Come per quelli
che vissero mille anni fa, non risparmiare conduce a grandi
difficoltà: gli USA hanno superato il limite dei
debiti e dei consumi.Sono l’eccesso fatto nazione. Riescono a proseguire perché importano il risparmio del resto del mondo, che a sua volta si gode le molliche che arrivano da questi eccessi. Peccato, poi sarà costretto a pagare anche il conto.

Con l’inizio del terzo millennio d.C., per la prima volta in più di 50 anni dalla fine della seconda guerra
mondiale, il mondo è stato nelle grinfie di un rallentamento economico
globale sincronizzato.
Questa situazione ha un precedente nella storia del secolo scorso: la Grande
Depressione degli anni 30. Il più evidente fattore, comune ad
entrambi i periodi, è il ruolo dominante dell’economia USA nell’espansione
che li ha preceduti così come nella susseguente contrazione.
Ma esiste una cospicua differenza tra i due casi di predominio
economico globale americano: negli anni 20 gli USA facevano credito
al resto del mondo, agendo come prestatore di ultima istanza, mentre
negli anni 90 è stato il resto del mondo a fare credito agli USA,
divenuti per contro il consumatore di ultima istanza con un eccesso
di consumi senza precedenti. I due episodi di boom sono stati simili
nella loro predisposizione verso la spesa in consumi, ma gli eccessi
di indebitamento e di spesa degli anni 90 hanno superato grandemente
quelli degli anni 20.
Un altra differenza di importanza cruciale è lo stato della bilancia
dei pagamenti: negli anni 20 gli USA avevano un avanzo dei conti
correnti, un surplus della bilancia commerciale; oggi, sono il più
grande debitore del mondo, con un mostruoso deficit di conto corrente
che provoca l’accumulo di trilioni di debiti verso l’estero.

Un vecchio argomento di discussione tra economisti americani ed
europei concerne il momento in cui la banca centrale americana dell’epoca fece i suoi
errori decisivi di politica che causarono la prolungata depressione
degli anni 30.
Fu l’eccesso di espansione monetaria prima del crack
di Wally? Questa è l’opinione europea, fortemente influenzata dalla
scuola austriaca. O fu l’eccessiva rigidità monetaria dopo il crack,
durante gli anni 30? Questa è l’opinione americana, influenzata sin
dagli anni 60 dalle teorie monetariste di Milton Friedman .

La scuola austriaca , spiega come la severità e la lunghezza delle
depressioni dipende in modo
cruciale dal tipo di ampiezza degli squilibri e delle cattive
allocazioni che si sono sviluppate nell’economia e nel sistema
finanziario durante il precedente boom. Si tratta di una teoria
estremamente logica che ha dalla sua l’esperienza storica. Chi valuta
la situazione economica attuale negli USA osserverà che per anni è
stata esposta al maggior eccesso creditizio , disordinato per giunta,
della storia. Per un lungo periodo di tempo
gli USA sono stati la classica economia-bolla, definita come un
economia dove inusuali rapidi incrementi dei prezzi delle attività
provocano indebitamento e spese straordinarie o delle imprese
o dei consumatori .
La scuola austriaca ha una misura precisa per il credito eccessivo:
tutto quello che eccede i risparmi disponibili dal reddito
corrente. L’effetto economico essenziale di questi risparmi è
rendere disponibili risorse produttive ai debitori che possono usarle
per gli investimenti, e dunque il credito proporzionato al volume dei
risparmi è la misura giusta. Infatti, tradizionalmente, il ciclo del
credito è stato sempre associato con il ciclo degli investimenti.

L’espansione del credito negli ultimi tre anni negli USA ha marciato
al ritmo annuo di circa 2 trilioni di dollari, arrivando al 20% del
PIL, anche se invece – dall’altra parte- il volume dei risparmi
disponibili è crollato ad un misero 2% del PIL. La discrepanza tra
queste due grandezze sfida la più audace immaginazione di un
economista ragionevole.

Ebbene, oggi, i politici e gli economisti americani apparentemente
non trovano nulla di sbagliato in questa situazione. Meno che mai
pensano che una simile espansione del credito possa danneggiare
l’economia e il sistema finanziario.
L’ assenza di inflazione negli ultimi anni testimonia ai loro occhi l’eccellente
stato di salute dell’economia: l’ implicita convinzione è che
essa giustifichi un espansione del credito virtualmente illimitata.
Purtroppo però la creazione di
credito in eccesso al risparmio disponibile tende a danneggiare l’economia molto di più che l’inflazione perché incoraggia spese che essenzialmente distorcono l’allocazione
delle risorse. Naturalmente il boom dei consumi degli ultimi anni
negli USA ha sostenuto la crescita; come quota del PIL è arrivato
all’82,6% tra il 1995 e il 2001, contro un livello storico di circa
il 66%. Ma ciò è avvenuto a scapito del risparmio, e della bilancia
dei pagamenti. Infatti quando la domanda interna cresce costantemente
in eccesso alla produzione interna, si forma il deficit con l’estero
che è passato dai 139 miliardi del 98 ai 417 del 2001 e adesso è
lanciato verso i 550. Questi deficit annui si cumulano e formano il
debito estero del paese che è passato da una posizione attiva nel
1980 pari al 13% del PIL ad una passiva attualmente pari al 25% del
PIL, il che significa un peggioramento pari al 38% del PIL in meno di 25 anni.

L’inevitabile risultato per gli USA è un economia malamente
divisa in due: la parte al servizio del consumatore e protetta
dalla competizione estera (i servizi) ha avuto il boom con forte
crescita dei profitti, mentre i settori che servono agli investimenti
capitali e sono anche esposti alla competizione estera sono stati
messi in crisi e hanno visto i profitti collassare. Lo testimonia la
divergenza estrema nella performance dei due settori(manifatturiero e
servizi): ancora nel 1997, l’industria manifatturiera aveva utili per 195
miliardi contro i 64 dei servizi; dopo 5 anni la situazione è
completamente ribaltata.
Ecco un esempio da manuale delle distorsioni strutturali che la scuola austriaca enfatizza come le conseguenze negative di un eccesso creditizio.

Valutando le prospettive dell’economia americana, questa schizofrenia
è certamente di grande importanza. Considerando che si è formata
durante anni, non può essere etichettata come “ciclica”. E’ chiaro
che è un guasto strutturale e con il rallentamento economico si
aggrava drammaticamente. L’attuale ripresa economica.
può venire solo dai consumatori, i quali però devono
fare i conti con i debiti che hanno accumulato e con il risparmio
previdenziale che- ancora non hanno capito- dovranno creare,
risparmiando. Prima o poi i consumatori tireranno la cinghia.

Greenspan crede che gli investimenti delle imprese
ritorneranno a crescere in modo da compensare l’eventuale
rallentamento dei consumi, in una sorta di testimone da scambiare in
questa staffetta ideale. Ma affinché ciò possa succedere, occorrono
prospettive di profittabilità e mercati finanziari accomodanti.
Nessuna delle due condizioni è sostenibile in modo duraturo.



2- La sfida

L’attuale malessere finanziario ed economico viene
generalmente interpretato un fenomeno ciclico e non un cambiamento
strutturale.
Il che non è poi una sorpresa: di fronte ai grandi cambiamenti,
normalmente ci vogliono anni prima che ci si renda effettivamente
conto di quello che è realmente successo. Tutti ricordiamo bene come
dopo l’epoca di inflazione sempre alta del ventennio anni 60-70, la
maggioranza degli economisti durante gli anni 80 restava fedele alla
propria convinzione che l’inflazione sarebbe di nuovo emersa , per
loro era solo questione di tempo; non si resero conto fino
all’inizio degli anni 90 che l’inflazione era entrata in un trend
ribassista strutturale.
E anche questa volta è così perché molta gente ha beneficiato
enormemente dal boom economico ed azionario della seconda metà degli
anni 90: l’ottimismo di maniera dunque è duro a morire; ma chi invece
riflette seriamente, ad esempio sul declino strutturale
dell’inflazione, ha una maggiore elasticità mentale. Consentitemi di
prendere il discorso da lontano, ragionando in prospettiva storica.

Negli anni 50 si riteneva di aver scoperto il “Santo Graal”: John
Maynard Keynes aveva mostrato convincentemente come gli stimoli
fiscali potessero essere usati per contrastare i rallentamenti
economici. I governi dovevano assicurare che le persone avessero più
soldi da spendere, o tramite meno tasse o con maggiore spesa
pubblica, e i consumi sarebbero aumentati spingendo automaticamente
occupazione ed investimenti. Durante gli anni 50 non ci furono
rallentamenti economici, e i politici si convinsero che la teoria
keynesiana forniva loro un sistema per elevare il tasso di crescita
medio; e questo fu quello che si verificò, ma subito arrivò un
imprevisto deludente: quando la stimolazione fiscale veniva
aumentata, non si verificava una crescita maggiore, bensì una
inflazione maggiore. Il passo successivo fu la reazione delle banche
centrali che strinsero l’offerta di moneta, seguendo la teoria di
Milton Friedman e del monetarismo: è sufficiente una bassa crescita
di moneta per prevenire l’inflazione. Dopo alcuni anni di questo
sbandamento teorico, di nuovo sopraggiunse un senso di euforia:
l’inflazione poteva essere controllata e l’economia poteva adesso
espandersi ad un tasso ottimale. Nel frattempo i mercati finanziari
vennero “deregolamentati” per dare spazio alla libera iniziativa, ma
così facendo c’era un prezzo da pagare: si riduceva il legame tra
offerta di moneta e crescita economica; la politica sopramenzionata
non era più fattibile come prima, e dunque si ricreò un impasse
teorico.
La risposta a quest’ impasse fu avanzata alla fine degli anni 80 dal
nuovo Presidente della Federal Riserve: Alan Greenspan.
La banca centrale avrebbe stimolato monetariamente il sistema
economico fino a quando non fossero arrivati segnali di rialzo
dell’inflazione. In pratica, il rialzo dei mercati azionari degli
anni successivi fu provocato da questa politica. E di nuovo si
diffuse un senso di euforia. Era stato trovato un sistema che avrebbe
massimizzato la crescita economica. Greenspan trionfò soprattutto in
occasione della crisi asiatica del 1997(quando la bassa inflazione
minacciò per la prima volta di trasformarsi in deflazione), e anche
quando la crescita della produttività raggiunse livelli stabilmente
più alti del passato. Fu coniato il termine di “new economy” per
significare appunto la combinazione di una forte crescita continua e
fluttuazioni cicliche molto più piccole che nel passato.
Adesso però la “dottrina Greenspan” è entrata in crisi:
da essa è derivata la più grande bolla speculativa di
tutti i tempi, ed il suo scoppio ha determinato un periodo di bassa
crescita ed ampie fluttuazioni cicliche.
Se ne potrebbe concludere che è normale dopo tutto. L’umanità da
sempre impara attraverso tentativi ed errori. E l’errore di
Greenspan, sul piano teorico, fu quello di considerare solo
l’inflazione dei beni e servizi, e non anche quella degli attivi
mobiliari ed immobiliari. Se avesse adottato una concezione di inflazione
omnicomprensiva, già nel 96 avrebbe usato una politica monetaria
restrittiva, evitando la formazione delle bolle e l’aggravarsi degli squilibri strutturali. Pazienza, dunque : “errare humanum est”.
Ma se ne può trarre anche un’altra conclusione pratica.
Ancora si attende troppo dagli strumenti fiscali e monetari,
e “persistere diabolicum est”. In termini macroeconomici questi sono
di fatto strumenti con cui si costituiscono riserve durante i tempi
buoni e da cui si attinge durante i tempi cattivi (come fanno le
formichine). Il problema è che molto spesso questi strumenti sono
stati usati a sproposito nel passato: a volte le autorità hanno
stimolato troppo, a volte non abbastanza; così che a volte l’economia
ha sovraperformato altre sottoperformato. A sua volta ciò ha
rafforzato l’impressione che le politiche monetarie e fiscali fossero
decisive per le sorti dell’economia. Questo è il motivo per cui uno
come Greenspan ad esempio è stato “mitizzato” anche se il suo
maestro, Milton Friedman, sostiene che i banchieri centrali
potrebbero essere sostituiti da computers programmati per una
crescita costante della quantità di moneta, credendo che le
autorità non possono influenzare i trends sottostanti e l’intervento
umano spesso e volentieri fa più danni che benefici, rispetto al
libero dispiegarsi delle forze di mercato. Keynes invece riteneva
che i governi avessero un ruolo cruciale nell’accumulare riserve ,
tramite i bilanci pubblici, durante i periodi di vacche grasse, da
spendere prontamente durante i periodi di vacche magre. Da buon
padre di famiglia, i governi dovrebbero tendere a livellare i cicli
economici; anche per Keynes, però, il ruolo dei governi finisce qui,
ed è essenziale lasciare libere le forze di mercato per quanto
possibile.
Pure la Banca Centrale Europea si ispira al principio che la crescita economica viene
massimizzata nel lungo periodo se essa si limita solo ad
assicurare che l’inflazione rimanga tra 0 e 2%; tutti gli altri
sforzi di influenzare la crescita sono destinati al fallimento,
secondo la BCE.

Le politiche monetarie e fiscali non possono avere un
grande impatto sui trends principali che determinano la vita
economica, quali quelli demografici, la struttura della popolazione,
le innovazioni tecnologiche, gli incentivi sull’attività lavorativa
delle persone, le garanzie legali che la gente possa godere dei
frutti del proprio lavoro, e altri fondamenti microeconomici; il porre
eccessiva attenzione a tali politiche ed ai dati congiunturali –
oltretutto fortemente limitati- è fuorviante: si perdono di vista
le cose essenziali, e l’attuale situazione ne è un buon esempio.

Quali sono allora i fattori strutturali essenziali per capire la situazione odierna?

Innanzitutto, la caduta del comunismo.Essa ha reso possibile combinare
l’innovazione tecnologica con forza lavoro a basso costo, ma
piuttosto abile, quale quella che si trova ad Est ed in Asia .

In secondo luogo, l’evoluzione demografica. La generazione del baby-
boom, nata dopo la seconda guerra mondiale, ha causato due importanti
sviluppi. Primo: dall’inizio degli anni 90 questo gruppo è entrato
nel periodo della vita in cui ci si inizia a preoccupare del futuro
previdenziale; dato l’invecchiamento accelerato delle
popolazioni, i sistemi pensionistici sono entrati in crisi, e questa
generazione ha capito che doveva provvedere, risparmiando; si è
venuto così a creare un crescente volume di mezzi finanziari in cerca
di impieghi redditizi,diventato disponibile a finanziare l’introduzione di nuove
tecnologie, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di
sviluppo, ed ha pertanto contribuito fortemente alla loro rapida
diffusione nel mondo.
Ma vi è un’altra conseguenza dell’evoluzione
generazionale del baby-boom: quando si trovavano nei loro venti-
trent’anni, il declino dei tassi d’interesse ha offerto loro
l’opportunità di indebitarsi maggiormente (comprando case, auto,etc.)
e li ha incentivati a spendere di più e a risparmiare di meno. Per
molti anni hanno creduto che la continua crescita del mercato
azionario avrebbe fornito loro la soluzione ai bisogni previdenziali.
Adesso stanno iniziando a perdere fiducia in questa automatica manna
dal cielo, ed i tassi di interesse ora divengono più importanti
dall’altro lato della medaglia: il fatto che siano bassi vuol anche
dire che i risparmi finanziari rendono poco; d’altro canto se salgono
aumenta il costo dei debiti.

Ricapitolando, a causa di una confluenza coincidente di circostanze,
i fattori strutturali che insieme stanno determinando una crisi
epocale (: la rivoluzione tecnologica, la caduta del
comunismo, l’aumento dei capitali disponibili) hanno permesso
una riduzione dei costi di produzione ovunque, ma hanno anche provocato la rapida creazione di un enorme capacità produttiva.
Oltretutto dopo la crisi asiatica molte valute di
quell’area si sono svalutate fortemente rispetto all’euro e al
dollaro e vengono mantenute artificialmente basse (come nel caso
della Cina).
Dovrebbe essere chiaro che questa combinazione di
fattori rappresenta una difficile sfida per le nazioni sviluppate.
Improvvisamente beni e servizi possono essere prodotti a costi più
bassi in altre regioni dove le nuove tecnologie possono essere
introdotte velocemente. In altre parole, molte imprese dei paesi
industriali si trovano in difficoltà nella competizione
internazionale. Per affrontare tale sfida queste imprese andrebbero
chiuse velocemente e i lavoratori trasferiti a nuove attività in
nuove industrie ancora non soggette alla competizione asiatica. In
circostanze normali la riallocazione della produzione dalle nazioni
ad alti salari verso quelle a bassi salari procede lentamente,
generando ricavi che permettono ai paesi a bassi salari di poter
comprare i prodotti più sofisticati dai paesi ad alti salari. Per cui
se le nazioni avanzate rispondessero in modo appropriato a questa
sfida riducendo la loro produzione di beni “semplici” ed aumentando
quella di beni “complessi”, allora le cose potrebbero alla fine
funzionare. Ma nel caso dell’Asia, e della Cina in particolare, la
sfida è ardua perché questi sono in grado di produrre anche i
beni “complessi”. Ecco perché le nazioni avanzate devono adattarsi
molto più velocemente di quanto non sarebbe in condizioni normali.
Il problema è che Giappone ed Europa hanno strutture sociali dove
posti di lavoro e imprese sono in realtà pesantemente protetti. Ed è
piuttosto difficile in termine di regolamenti, sistemi fiscali ,
e mentalità, iniziare nuove attività. In breve, queste nazioni sono molto in
difficoltà nel rispondere alla sfida asiatica come sarebbe
necessario; il trasferimento di risorse umane e finanziarie dalle
vecchie produzioni alle nuove avviene troppo lentamente. Gli USA ,
dal canto loro, più deregolamentati e flessibili, si sono da poco
sparati nei piedi con la recente bolla della borsa e degli
investimenti. Lo scoppio della medesima, l’accumulo delle nuove bolle
(immobiliare e creditizia), il fardello di uno stock di debiti senza
precedenti, li ha letteralmente azzoppati; a ciò va poi aggiunto l’11
settembre e quindi la fine del dividendo della pace, e l’inizio di
una nuova era di impegno bellico e per la sicurezza (con i relativi
costi improduttivi). Adesso per eliminare la grande sovrapproduzione
che hanno, dovrebbero aumentare la domanda finale, ma questo è
praticamente impossibile nelle circostanze attuali ed in ogni caso
dilaterebbe ulteriormente la mostruosa posizione deficitaria con
l’estero che hanno accumulato. Ne consegue che gli USA, oltre ad
essere in difficoltà nel reagire alla sfida asiatica, stanno perdendo
anche il loro vantaggio relativo rispetto a Giappone ed Europa, come
dimostra il tasso di disoccupazione se calcolato correttamente .


3-Vulnerabilità

Il rapporto dal titolo “L’indice 2003 della vulnerabilità” del centro per gli studi internazionali e strategici ,analizza il costo delle pensioni pubbliche in 12 diversi paesi . Poi stima come le varie nazioni potranno affrontare il futuro, date le loro economie, tasse, costi e le circostanze effettive del contesto relativo all’andare in pensione in ciascuno di loro(ad esempio, è diverso se è probabile si sia supportati dai figli oppure no).
In sintesi, il rapporta mostra chiaramente che ci saranno notevoli problemi di bilancio per le nazioni esaminate, ed alcune ne avranno più di altre. In base all’indice di vulnerabilità appositamente costruito, troviamo tra le meno vulnerabili Austalia, Inghilterra ed USA; poiché conosciamo bene quali problemi potenziali si trovino di fronte gli americani man mano che la popolazione invecchierà, ciò significa che la situazione degli altamente vulnerabili, fa impressione: si tratta della “vecchia Europa”.
Se oggi, nel mondo sviluppato, vi sono in media 30 pensionati per ogni 100 adulti lavoratori, nel 2040 ve ne saranno 70. In Italia, Giappone e Spagna, che sono i paesi che stanno invecchiando più velocemente, si arriverà a 100: in altre parole per ogni lavoratore vi sarà un pensionato. Ciò significa che vi saranno costi crescenti per i piani pensionistici, ed un peso oppressivo sul bilancio statale, sull’economia, e sui lavoratori attivi in ogni nazione che non vi avrà posto rimedio: i fondi pubblici ai più anziani raggiungeranno mediamente il 25% del PIL nel 2040, il doppio del livello attuale. In Giappone raggiungeranno il 27%, in Francia il 29% ed in Italia e Spagna si passerà quota 30%.
Queste cifre mettono in dubbio la capacità futura della società di offrire un decente tenore di vita per gli anziani senza schiacciare i giovani; non è chiaro se si potrà porvi rimedio senza disordini sociali ed economici.
Per la maggior parte della Storia, gli anziani – qui definiti quelli da 60 anni in sù – sono stati solo una piccola frazione della popolazione, mai più del 5%. Oggi nelle nazioni sviluppate siamo al 20%; nel 2040 si raggiungerà circa il 35%, e questa è giusto una media: in Giappone ed in Italia o Spagna, dove l’età media è attesa superare i 50 anni, si potrebbe arrivare ad una metà della popolazione.
Se si guardano i dati odierni, si trova che le prime 5 economie EU spendono circa il 15% del PIL a favore degli over-60; la proiezione al 2040 è di un raddoppio (per i giapponesi addirittura del 250% passando dall’11,8% attuale al 27%). Come si farà a finanziare questi incrementi? Se lo si farà esclusivamente con nuove tasse, la pressione fiscale salirà ovunque ben olre il 50% del PIL in Europa, mentre gli USA passerebbero dal 33 al 44%. Se l’aumento fosse pagato interamente da tagli in altre spese, vi sarebbero ovviamente ripercussioni varie, ed il peso percentuale della spesa per gli anziani diverrebbe preponderante in ogni bilancio pubblico.
Il rapporto in esame, calcola inoltre quando i vari debiti governativi raggiungerebbero il 150% del PIL se decidessero di fare deficit a fronte delle maggiori spese: si va dal 2020 per il Giappone, al 2033 per la Germania, con tutti gli altri in mezzo (USA nel 2026).
D’altro canto se si tagliassero del 10% le pensioni, circa il 5% della popolazione anziana si ritroverebbe nella fascia di povertà; immaginiamoci se il taglio fosse del 20%. Il Giappone in parte attenurebbe i danni perché oltre metà degli anziani vive con i figli. Le 3 nazioni più vulnerabili sono Francia, Italia e Spagna. In Francia il 67% del reddito degli anziani viene dalle pensioni, in Germania il 61%, mentre solo il 35% negli USA e in Giappone.
Concludendo, le proiezioni effettuate dal rapporto potrebbero attenuarsi qualora intervengano significative modifiche negli stili di vita, nel ritmo di invecchiamento, nei tassi di natalità e mortalità: appare chiaro comunque che il tasso di vulnerabilità delle nostre economie è elevato, e dipende dalla demografia in senso lato, come mai nella Storia. Naturalmente se si aggiungono i costi sanitari, tutte le percentuali citate sulla spesa statale, aumentano significativamente, come passiamo a vedere.

Sanità
Faccio riferimento agli USA, perché vi sono i dati più attendibili. Il centro per i servizi medici (CMS) prevede i costi sanitari per i prossimi 10 anni.
Le implicazioni sono notevoli.

Negli USA durante il 2002 sono stati spesi 5247 $ per persona in
sanità, il doppio esatto di quanto si spese nel 1990. Le proiezioni
del CMS stimano che questa spesa si raddoppi all’incirca arrivando a
9972$ tra dieci anni, cioè nel 2012. Ciò senza considerare che la
generazione del Baby Boom (quelli nati dal 1947 al 1950) potrebbe
comportare un accelerazione ulteriore quando inizierà ad avere
bisogno di molta più assistenza sanitaria.
Nel 1990 la sanità incideva per il 12% del PIL, oggi siamo al 14,8% e
la proiezione per il 2012 è del 17,8%. Questa continua crescita
comporta una modifica sostanziale nelle preferenze di acquisto delle
persone: non avverrà tutta di un colpo, ma uno spostamento decennale
comporta significative sfide per molti prodotti destinati ai
consumatori. La percentuale di PIL citata può essere inoltre
sottostimata, perché il CMS usa delle stime sul PIL, per la sua
crescita nei prossimi dieci anni, a dir poco ottimistiche: non è
prevista ad esempio alcuna recessione. Le spese sanitarie invece sono
abbastanza indipendenti dall’andamento dell’economia , e per giunta
il CMS ipotizza che la crescita delle spese sanitarie nei prossimi 10
anni avvenga ad un ritmo inferiore di quella registrata negli ultimi 3
anni, ritenuti sopra la media.

Nel 2001 e 2002 i costi per le assicurazioni sanitarie sono stati
ritenuti un impedimento alle assunzioni da parte di 120 capi d’azienda (CEO)
tra le principali aderenti al Conference Board, come rivela un
apposito sondaggio. Circa l’82% dei 1017 membri intervistati lo
scorso anno ha detto che questi costi hanno rappresentato un
importante fattore nel decidere se assumere o meno nuovi lavoratori;
le inchieste sulle piccole aziende, che normalmente sono quelle che
più contribuiscono all’aumento dell’occupazione nella fase di inizio
della ripresa, rivelano che proprio i costi sanitari sono un motivo
per non assumere o per licenziare.
Pensiamo cosa significhi tutto ciò per la proverbiale classe media,
per la tipica famiglia di 4 persone con 50 mila $ all’anno di
entrate. Oggi il costo della loro assicurazione sanitaria è di circa
6mila $ all’anno, cioè il 12% del loro reddito. Ammettiamo che gli
stipendi crescano del 2-3% l’anno per i prossimi 10 anni, e quindi
nel 2012 abbiano entrate per 65mila dollari (dagli attuali 50mila). I
costi assicurativi invece sono previsti raddoppiarsi e quindi la loro
incidenza sul reddito familiare salirà al 18%: dunque dovranno
ridurre i consumi a meno che non riducano sostanzialmente la
copertura. Se questo maggior costo passa sulle aziende, equivale a
500 miliardi di $ l’anno: possono assorbirlo? No, senza avere serie
ripercussioni sui loro profitti.
Come si vede quindi, macroeconomicamente, vi saranno importanti
ripercussioni sui consumi e sui profitti.
Ma vediamo anche come i costi sanitari possano colpire una industria
in particolare. Oggi le 3 grandi dell’automobile spendono grosso modo
circa 1200$ per ogni veicolo prodotto, in costi sanitari.
Goldman Sachs stima che le
passività sanitarie sono di 92 miliardi di $ per queste 3 sole aziende
(Ford, General Motors, Chrysler), cioè il 50% in più della loro
capitalizzazione di mercato sommate insieme. E ben 3 volte di più le
già scoperte passività pensionistiche (con l’ipotesi iperottimistica
di un rendimento del 9% annuo di rendimento sui fondi pensione). Vi
possono essere vari scenari per i 3 grandi, ma nessuno è positivo.
Potrebbero scaricare sui prezzi i maggiori costi: questo le
metterebbe ancor più in difficoltà nei confronti della concorrenza
estera. Oppure possono scaricare ai dipendenti i maggiori costi: ma
questo non sarebbe indolore sindacalmente. Infine, se onorano i loro
impegni, avranno meno profitti e un ridotto prezzo delle loro azioni.
In sostanza gli effettivi proprietari di GM, Ford, etc. sono i loro
lavoratori e pensionati, a meno che non vi sia una ristrutturazione
epocale, tipo quella avvenuta per l’industria dell’acciaio.
Il problema vale per tutte le industrie, soprattutto quelle ad alta
intensità di lavoro dipendente.

E cosa per le spese statali? I costi federali saliranno di circa 500
miliardi l’anno, anche senza ipotizzare un incremento nella copertura
medica! Con 41 milioni di americani non coperti da assicurazioni
sanitarie, ed una crescente quota di pensionati che vorranno un piano
sanitario statale , la probabilità che tale cifra aumenti ancor di
più è molto elevata.
Naturalmente potranno essere ridotti per legge i costi sanitari, o
migliorata l’efficienza del sistema sanitario. Ma la verità è che i
costi tenderanno a salire notevolmente, anche perché il progresso
introduce sempre nuovi e migliori medicine e tecniche mediche, che
però costano di più.
Ecco dunque un altro macigno che si staglia all’orizzonte, insieme a
quello pensionistico, di cui poco si parla, ma con il quale occorrerà
fare i conti.
Tiriamo le somme
Dunque quasi ovunque nel mondo l’età media della popolazione salirà decisamente nelle prossime decadi. Questo metterà a dura prova le finanze pubbliche, perché molti sistemi pensionistici sono basati sul principio che i lavoratori di oggi pagano per i pensionati di domani.
La situazione non è sostenibile perché:
- il numero dei pensionati aumenterà in termini relativi (e ciò significa anche maggiori costi sanitari, etc.)
- il numero di persone che dovrà sostenere l’onere si ridurrà in termini relativi. Ciò significa che dovranno cedere una quota sempre maggiore dei propri redditi per mantenere la popolazione economicamente inattiva(tra l’altro l’esperienza mostra che in questi casi la gente è incentivata a lavorare meno).
Per risolvere questo problema i governi stanno già introducendo, e sempre di più lo faranno, incentivi fiscali affinchè la gente risparmi per costruirsi degli autofinanziamenti pensionistici. Le persone sono inclini ad accettare queste offerte , se non altro perché la generazione del baby-boom post seconda guerra mondiale sta raggiungendo l’età in cui si tende a risparmiare di più.
Per questi motivi i gestori dei fondi finanziari ed assicurativi, le banche e altre istituzioni, hanno sempre più denaro disponibile da investire, e devono decidere dove piazzarlo.
Tradizionalmente , una larga parte di questi soldi è andata in immobili e titoli governativi. Ora tali possibilità sono più limitate; per gli immobili , nel passato i fondi pensione spesso compravano con l’intenzione di tenerli per 20-30 anni, ma oggi molti risparmiatori iniziano a voler vedere i risultati dei loro risparmi entro una decade, così il loro orizzonte è molto più breve, e vogliono seguire cosa succede ai loro quattrini, per cui i gestori sono divenuti più cauti nell’investire in immobili perché è una forma troppo illiquida, soprattutto quando le performance di cui devono rendere conto sono su base trimestrale.
Pertanto una parte crescente del risparmio pensionistico viene investita in azioni e in obbligazioni non governative, anche perché la maggioranza è convinta che:
- nel tempo le azioni crescono di valore;
- le aziende non falliscono mediamente, ma anzi si sviluppano continuamente.

Anche ammettendo che ciò sia vero, non significa automaticamente che le azioni siano sempre un investimento sicuro. La Borsa sconta oggi gli sviluppi futuri attesi, e l’esperienza mostra che il mercato può talvolta fare enormi errori di valutazione sul futuro; per cui è possibile che se le azioni sono comprate ad un punto di massimo, possono non rendere nulla nei successivi 10 o 15 anni, come già successo numerose volte nel passato.
Per ora comunque il pensiero dominante preferisce ignorare questa possibilità e continua a comprare azioni. Il problema per molti gestori è dove comprare le azioni. Anche qui al momento hanno pochi dubbi: poiché la produttività più alta si trova negli USA, avendo il mercato del lavoro e l’economia più flessibile, comprano azioni americane, e obbligazioni di imprese americane, come dimostra l’enorme flusso di fondi riversatosi a Wall Street. Ma questo non può continuare all’infinito, perché automaticamente si creano delle reazioni, in parte già visibili:
- Quanto più e quanto più a lungo le aziende americane ricevono questi afflussi, non hanno problemi a finanziarsi e tendono a farlo investendo; così però creano eccesso di capacità produttiva, che rende la concorrenza sempre più aspra e riduce i margini di profitto, ed infatti nonostante il costo crescente dell’energia le aziende non riescono a trasferire sui prezzi i maggiori costi.
- Negli ultimi anni tante persone hanno perso il posto di lavoro , ritrovandolo poi nella new economy, ma l’insicurezza è aumentata; i salari reali non sono cresciuti come la produttività ; ne è conseguita una pressione di lungo periodo al ribasso sull’inflazione (eccesso di capacità, concorrenza maggiore, salari meno cari).
- La minore inflazione ha spinto la FED a continuare ad applicare stimoli monetari all’economia, con il risultato di generare uno stato di “bolla” e di instabilità permanente.


4- Instabilità

Hyman Minsky, celebre economista, scriveva :” laddove tutti
i capitalismi sono instabili, non tutti i capitalismi sono ugualmente
instabili” .
L’instabilità più ovvia nel capitalismo è che sia i capitalisti che i
proletari sono tutti Homo sapiens, non Homo Economicus specie mitica
esistente solo nei sogni degli economisti. Gli uomini non misurano
freddamente il rischio, piuttosto prendono la maggior parte delle
decisioni più importanti – come e dove vivere, cosa fare, e con chi
fare queste cose – non con le loro teste ma con i loro cuori. Un uomo
si sposa, ad esempio, non dopo aver attentamente soppesato i pro e i
contro, bensì seguendo un istinto che mai capirà. Gli uomini non
vanno di norma all’altare o in guerra dopo aver fatto molti calcoli e
riflessioni, ma sull’onda spesso di emozioni e rischiano le loro
vite per motivi che – valutati a posteriori con calma - sembrano
assurdi.
La testa è la punta del cuore, diceva La Rochefoucauld . Pensando con i
loro cuori e presi da qualsiasi follia collettiva affascinante che
gli capiti, gli uomini fanno le cose più incredibili.
Minsky nel suo libro base “Ipotesi di instabilità finanziaria: i
processi capitalistici e il compartamento dell’economia” ha mostrato come e perché il
capitalismo sia intrinsecamente instabile.
Lo ha fatto con semplicità come dimostrare che una birra aperta per
troppo tempo diventa imbevibile e la conclusione dunque è che il
capitalismo sia naturale, come la vita e la morte, e come tutte le
cose naturali, naturalmente instabile.
Ma ciò che è interessante dell’opera di Minsky è una piccola
osservazione che avrebbe potuto essere utile alla fine degli anni 90.
Tutti ricordiamo che a quell’epoca fra le illusioni sofferte dagli
investitori americani vi fu l’idea che il capitalismo USA avesse
raggiunto un equilibrio dinamico dove costantemente si inventavano
nuovi e più eccitanti modi per rendere la gente più ricca. I cicli
vennero ritenuti una cosa del passato, perché internet rendeva facile
evitare alle aziende l’accumulazione di scorte superflue, e perché la
scienza delle banche centrali aveva raggiunto livelli tali di
perfezione da poter calcolare con precisione quanto credito
necessitava per l’economia in ogni dato momento assicurandone la
somministrazione esatta. In assenza delle normali fasi “down” del
ciclo, l’economia sembrò più stabile che mai. Ma Minsky aveva notato
che le aziende alla ricerca del profitto provano sempre a sfruttare
le proprie attività per indebitarsi quanto più possibile. Avrebbe anche
potuto aggiungere che i consumatori possono fare lo stesso ormai.
Senza timore di una recessione o di una mancanza di credito, l’Homo
Sapiens, tende ad esagerare. Per dirla con Minsky: la stabilità è
destabilizzante.
Minsky si riferisce al concetto keynesiano del “velo monetario” tra
le attività e l’ultimo proprietario dei medesimi. Le attività sono
spesso ipotecate, finanziate, e questo velo monetario diviene
sempre più spesso man mano che la vita finanziaria si complica e
rende difficile capire chi sta veramente guadagnando e chi no. Ad
esempio quando i prezzi delle case salgono, sembra che sia il
proprietario a beneficiarne. Ma se il proprietario possiede molto
meno della propria casa, perché su essa ha acceso ipoteche, e mutui,
saranno le banche e altri intermediari ad avere una buona parte del
valore della sua casa. E se poi i prezzi delle case crollano chi ne
sarà e in che misura danneggiato? Difficile da dire…. Negli anni
recenti negli USA si è creato un velo monetario così spesso che un
muro è trasparente a confronto. In realtà, piuttosto che nuovi modi
innovativi per rendere la gente ricca, gli intermediari finanziari
americani se ne sono usciti con vari modi per renderla povera.
L’ipotesi dell’instabilità finanziaria è una
teoria dell’impatto del debito sul comportamento del sistema e
incorpora anche il modo in cui il debito viene gestito. In contrasto
alla teoria quantitativa della moneta, si considera che l’attività
bancaria sia sempre alla ricerca del profitto. Le banche cercano
profitti finanziando le attività. Come tutti gli imprenditori i
banchieri sanno che l’innovazione assicura profitti. Pertanto i
banchieri (usando il termine in modo generico per tutti gli
intermediari finanziari) siano essi brokers o dealers, sono mercanti
di debiti che cercano di innovare nelle attività che acquistano e
nelle passività che commerciano.
Nella mente di Minsky, il capitalismo è naturalmente instabile e
abbisogna dei governi che lo stabilizzino (posizione che negli USA è
quella cui si ispira teoricamente il partito Democratico, ed in
Europa la sinistra socialdemocratica). Invece nella visione dei
Repubblicani e della destra liberale , il capitalismo è
naturalmente stabile e sono i governi che lo destabilizzano. Tutto
ciò in teoria, perché negli anni 90 anche i Repubblicani hanno
apprezzato l’influenza stabilizzante di Greenspan, ad esempio; e
adesso sotto pressione, entrambi i partiti richiedono nuove politiche
per combattere l’Orso e il rischio di deflazione.
E’ la versione
economica della differenza politica tra socialismo e liberismo: il
primo vuole indicare alla gente come operare, tendendo
all’uguaglianza degli esiti; il secondo invece vuole indicare solo
la cornice entro cui la gente poi è libera di operare, tendendo
all’uguaglianza delle opportunità .

Come abbiamo visto negli ultimi 6 anni, uomini pubblici come
Greenspan hanno esercitato un influenza stabilizzante; quando i
mercati avevano bisogno di credito, lui glielo dava: durante la
crisi del famoso fondo LTCM ; durante la crisi asiatica del 97;
durante la crisi russa del 98; durante il trapasso all’anno 2000;
durante il crollo del nasdaq e durante il grande Orso in corso.
Greenspan è sempre venuto incontro a ogni nuova minaccia, nello
stesso modo: dando più credito. Ogni volta, il suo intervento è
sembrato stabilizzasse il mercato; ed ogni volta la folla degli
intermediari finanziari ha trovato nuovi modi per ispessire sempre
più il velo monetario tra attività e loro proprietari. Alla fine, se
questa è la fine, gli sforzi di Greenspan hanno avuto tanto successo
da portare al più grande disastro della storia economica.
Minsky scriveva che di volta in volta, le economie capitalistiche
esibiscono inflazione e deflazione del debito che sembrano avere il
potenziale per uscire fuori di controllo. In questi processi, le
reazioni del sistema economico a un movimento dell’economia,
amplificano il movimento medesimo – l’inflazione produce altra
inflazione, la deflazione altra deflazione. Gli interventi del
governo tesi a contenere i fenomeni sembrano siano inutili in alcune
crisi storiche. In particolare, durante i prolungati periodi
positivi, le economie capitaliste tendono a muoversi da una struttura
finanziaria conservativa (con copertura dei rischi) ad una struttura
in cui vi è un largo peso speculativo. Nel boom giapponese le strutture speculative venivano offerte dalla
banche alle loro aziende clienti ; dopo oltre 12 anni i prestiti
ancora sono irrecuperabili…e ora minacciano di far crollare le banche
medesime. Nel boom americano, è anche ai consumatori che hanno
offerto sistemi speculativi, oltre che alle aziende. Qualche giorno,
forse presto, i consumatori se ne pentiranno. E dovranno passare
attraverso uno spesso “velo di lacrime” per uscirne fuori.



5- Micro contro Macro
E’ solo nel 1600 in un economia prevalentemente agricola e commerciale, che alcuni filosofi “i fisiocratici” iniziano a teorizzare le leggi di creazione del sovrappiù: osservando che la coltivazione della terra in modo sistematico ed ordinato produce una creazione di valore (un prodotto superiore ai mezzi impiegati), essi postulano i primi principi di quella economia politica che nel 1700 vedrà con Adam Smith ne “La ricchezza delle nazioni” un impostazione ampia : la teoria della concorrenza, e quella della bilancia commerciale sono già correttamente individuate in questo testo. Egli formula la famosa teoria della Mano Invisibile e scrive: “non vi aspettate il pane buono dalla carità del fornaio, bensì dal suo interesse”; in questa frase vi è l’essenza del principio della libera concorrenza, più attuale che mai. E mentre Smith scrive, si sviluppa lo stadio iniziale del capitalismo industriale che consentirà all’umanità il salto tecnologico ed economico a tutti noto. Ma poiché oltre al capitale, l’altro fattore produttivo per eccellenza è il lavoro, nel 1800 David Ricardo inizia a indagare non solo la formazione del famoso sovrappiù o plusvalore generato dall’applicazione di capitale e lavoro, bensì anche la distribuzione del medesimo tra i due citati fattori produttivi; da lui prende le mosse Carl Marx , che solleva il problema politico dello sfruttamento del fattore lavoro ad opera del Capitale, e darà vita all’epopea social-comunista. Nel frattempo si genera la classe degli economisti neoclassici che alla fine dell’800 arrivano a concepire il primo modello matematico (celebre quello di Walras ) di funzionamento del sistema economico imperniato sull’ipotesi di concorrenza perfetta: la legge di fondo è individuata nella domanda ed offerta da cui scaturisce il prezzo. La teoria economica quindi a inizio del 1900 postula che, in condizioni di concorrenza perfetta, il sistema tende verso prezzi di equilibrio in cui domanda ed offerta si bilanciano; e ciò avverrà spontaneamente con il pieno impiego dei fattori produttivi (capitale e lavoro). Poi però arriva il 1929 e la grande depressione smentisce tale teoria: sarà Keynes a interpretare il fenomeno ed a correggerla. Come prima accennato, Keynes dimostra che il sistema economico per arrivare al pieno impiego delle risorse deve essere guidato dall’intervento dello Stato (attraverso la gestione del deficit pubblico); in una situazione di depressione economica lo Stato deve spendere più di quanto incassa, creando potere d’acquisto il quale aumenta la domanda che a sua volta provoca maggiore offerta e così via fin quando i fattori produttivi siano totalmente utilizzati; arrivando al pieno impiego dei medesimi infatti, il deficit spending deve essere fermato altrimenti sfocerebbe in inflazione. La teoria keynesiana viene applicata con successo, e dopo la seconda guerra mondiale ispira il piano Marshall che infatti riesce a ricreare lo sviluppo in Europa. Con il passare degli anni però le classi politiche occidentali abusano del deficit pubblico, dati i suoi allettanti risvolti elettorali, e si apre l’epoca della grande inflazione. Per contrastare quest’ultima riprendono vigore le teorie monetariste, in base alle quali regolando la quantità di moneta è possibile il controllo dell’inflazione. Salgono così in cattedra le Banche centrali a cui viene affidato proprio questo compito. La politica economica moderna si articola quindi in due braccia principali, al fine di regolare il ciclo economico: la politica fiscale (gestita dai governi) e la politica monetaria (gestita dalle banche centrali).
Come si vede dunque ci si è concentrati via via sempre più sugli strumenti macroeconomici trascurando quelli che operano a livello microeconomico.. Ad esempio molti economisti
credono che la citata grande depressione degli anni 30 successe per una serie di errori macroeconomici,
essenzialmente riconducibili a due fattori:
- a causa del gold standard(cioè le valute erano convertibili in oro) la
politica monetaria fu troppo rigida e l’offerta di moneta non venne espansa
come avrebbe dovuto;
- furono adottate politiche protezionistiche e svalutazioni competitive.
In realtà vi sono dubbi circa il fatto se problemi di quella portata siano
sempre risolvibili con strumenti macro. In Giappone le autorità stanno
applicando da anni il massimo della stimolazione fiscale e monetaria, senza con
ciò ottenere risultati. E se la politica macroeconomica fosse una specie di
panacea, perché allora non riesce a sortire l’effetto di sviluppare i paesi
poveri?

La verità è che ci si aspetta troppo dalla macroeconomia; in ultima analisi
dispone di strumenti che al massimo agiscono sul livello dei risparmi, agendo
in maniera pro e anti ciclica; e ciò nonostante, tante volte si commettono
errori per ragioni politiche o di analisi.

Inoltre gli sviluppi economici di lungo termine dipendano da molti altri
fattori. Fra quelli che mi vengono in mente, vi sono i seguenti:
- quale sistema politico vige? Si danno incentivi alle persone affinché
lavorino?(la mancanza di tali incentivi ad esempio ha determinato la caduta del sistema comunista).
- Le persone possono beneficiare dei frutti del loro lavoro? Ciò sia con
riferimento al sistema fiscale che a quello legale.
- Come viene distribuito il peso delle tasse? Quanto è istruita la forza lavoro?
E ve ne sono degli altri ovviamente, ma qui concentriamoci su quegli sviluppi con i quali l’economia occidentale si confronta già da qualche decennio e che abbiamo già definito essere la sfida:
- la rapida introduzione di nuove tecnologie. Ciò comporta non solo la
produzione di nuovi beni e servizi, ma anche che gli esistenti beni e servizi
richiedono meno lavoratori(la famosa produttività crescente).
- dopo la caduta del comunismo, è divenuto possibile combinare in molte nazioni forza lavoro istruita (oggi in Cina si laureano più ingegneri che negli USA,Europa e Giappone messi insieme)e a basso costo, con le nuove tecnologie.
- a causa dell’invecchiamento della popolazione, i risparmi previdenziali sono andati crescendo costantemente. Ciò ha comportato maggiori fondi disponibili per il finanziamento dei nuovi prodotti , affluiti tutti negli USA squilibrandone la struttura
finanziaria.
- le nazioni emergenti inizialmente hanno prodotto beni semplici, ma
velocemente sono state capaci di produrre anche beni complessi, perché le multinazionali occidentali hanno installato unità produttive in questi paesi per sfruttarne il basso costo del lavoro insieme alle nuove tecnologie

Quanto fin qui schematicamente riepilogato ha una conseguenza fondamentale: nei
paesi industrializzati molte imprese devono cambiare e molte devono essere
chiuse. In sintesi, l’emergere di nuove tecnologie e l’intensificarsi della
pressione competitiva tramite le importazioni, provoca la scomparsa di lavori ed attività (o parti di esse) nelle vecchie industrie. Al loro posto le imprese devono creare nuove industrie che possano assorbire i posti di lavoro distrutti da questo passaggio epocale. Dai tempi biblici al medio evo, le economie hanno
sperimentato crescite tumultuose e crisi depressive: associazioni
commerciali e singole industrie sono emerse, hanno dominato e poi
sono sparite. Verso la fine del medio evo quando iniziarono ad
emergere aziende nel loro stadio embrionale del capitalismo, il
ciclo della “distruzione creativa” è divenuto una realtà ricorrente.
I primi economisti pensavano che le crisi fossero dolorose e
temibili, ma anche una purga necessaria per pulire via le foglie
secche e consentire una ripresa della crescita. Con il capitalismo
intere economie, non solo singole aziende, hanno iniziato a
sperimentare questo ciclo: una domanda crescente portava nuovi
soggetti ad offrire quanto richiesto; i vecchi soggetti venivano
spesso forzati a modernizzarsi per poter restare competitivi; ad un
certo punto la capacità di offerta diveniva eccessiva rispetto alla
domanda, e iniziava la crisi di sovrapproduzione. Se uno fa troppe
scarpe rispetto alle proprie vendite, cercherà di abbassare i prezzi
per conquistare i clienti dei propri concorrenti,da qui la
deflazione. Questo processo avviene anche nei servizi: oggi quello
che la Cina rappresenta nei beni manufatti, l’India inizia a esserlo
nei servizi.
Il grande economista Schumpeter aveva chiamato
questo processo , “la distruzione creativa”. E’ un processo impegnativo che comporta un grosso rischio: la distruzione è sicura, la creazione no. E’ già
successo nel passato, ma questa volta stiamo assistendo a una vera e propria
rivoluzione. Mai prima d’ora le nuove tecnologie si erano potute integrare così velocemente nel processo produttivo, né nazioni grandi come la Cina si erano trasformate così rapidamente in produttori di un ampia gamma di beni anche
sofisticati, mantenendo per di più la valuta bloccata con il dollaro
impedendole il normale apprezzamento che altrimenti ci sarebbe stato in queste
circostanze.

Riflettendo su questa situazione si capisce che l’armamentario macroeconomico è
spuntato, inefficace; e comunque secondario rispetto all’armamentario
microeconomico che andrebbe usato in prima istanza. Lo possiamo vedere anche in
riferimento a Giappone ed Europa.

Giappone
Per decenni è stato governato da un elite composta da dirigenti aziendali delle
vecchie industrie, e dei ministeri (dove finivano la loro carriera i primi) e
dal partito di maggioranza relativo LDP, e financo da connessioni con la
malavita. Negli anni recenti l’influenza di questa elite è diminuita ma resta
ancora quella dominante. Come ci si può immaginare essa cerca costantemente di
far pervenire il maggior numero di risorse finanziarie alle loro vecchie
industrie che proteggono dalla competizione estera e dalle nuove industrie emergenti.
LDP è di gran lunga il partito dominante, e lo resta perché l’elite “compra” i
voti. Ad esempio, i piccoli bottegai possono impedire lo stabilirsi di
supermercati nelle zone di loro interesse o gli agricoltori sono protetti dalle
importazioni di riso e funghi con enormi barriere doganali. Per supportare
l’economia sono stati fatti grandi lavori pubblici, il cui uso però è spesso di
poca utilità perché i progetti non sono selezionati in base ai meriti economici
ma in base a quali aziende sono amiche dell’LDP . Il Giappone ha una tradizione
di occupazione a vita: una volta assunti ci si aspetta di lavorare dentro
l’azienda per tutta la vita; ed inoltre gli avanzamenti di carriera sono basati
sull’anzianità invece che sul merito.
Dopo la Seconda Guerra mondiale questo sistema ha consentito al Giappone di
creare aziende leader in un gran numero di settori chiave, ed ha assicurato un
forte consenso durante la ricostruzione post bellica. Per un po’ è sembrato che
il Giappone divenisse la potenza economica mondiale numero uno, in grado di
mettere in difficoltà gli USA. Ma poi si è visto che era un gigante dai piedi
di argilla. Oggi di fronte alla sfida lanciata dalla Cina e dagli altri
asiatici emergenti il Giappone non è in grado di rispondere adeguatamente
perché il suo sistema è strutturato in una maniera tale da creare enormi
resistenze a ogni cambiamento sostanziale, che viene anzi scoraggiato. Ne
deriva un cattiva allocazione del capitale e della forza lavoro. Non c’è dunque
da meravigliarsi se la situazione peggiora e se gli strumenti macroeconomici
oltre a risultare inefficaci, risultano addirittura controproducenti.


Europa
Il processo di distruzione creativa non è nuovo, ma nel passato avveniva
gradualmente. Su questa base in Europa si è formato un sistema economico che
cambia l’allocazione del capitale e del lavoro quando serve, ma lentamente e
offrendo forte protezione ai lavoratori che quindi possono essere licenziati ma
con gran difficoltà e in modo costoso. Le nuove imprese in nuove industrie
decollano ma incontrano prima molte barriere da superare. Soprattutto in molte
nazioni europee le vecchie industrie sono tenute a galla da cospicui sussidi.
Chiaramente, non è facile una rapida transizione con un sistema di
questo tipo. E’ per questo che la crescita è anemica già da alcuni anni. A
queste difficoltà strutturali si è poi aggiunta la moneta unica che ha
comportato una banca centrale unica restrittiva per natura, nonostante la
crescente competizione e la sovrapproduzione abbiano fatto scendere
l’inflazione a livelli molto bassi. In teoria si tratta di una buona cosa
(anche se l’inflazione viene giudicata eccessiva dalla BCE perchè oltre il 2%)
ma occorre ricordare che all’interno dell’Europa, l’economia più grande, quella
tedesca è diventata molto meno competitiva negli anni recenti. Questo è un
argomento di cui si parla poco, vale la pena approfondirlo visto che ci
riguarda molto da vicino, ormai.
Dopo la riunficazione tedesca le autorità vollero prevenire una
immigrazione di massa dall’est all’ovest. Per questo motivo i salari
furono alzati all’est, portandoli a livelli simili a quelli
dell’ovest. Ma la produttività nell’est era ed è molto più bassa. I
cittadini dell’ovest inoltre hanno dovuto spendere molto per la
ricostruzione dell’ex Germania dell’est. I sindacati tedeschi sono
molto potenti e sono stati capaci di negoziare eccessivi incrementi
salariali fino a oggi. Infine, è probabile che la Germania sia
entrata nell’euro con cambio sopravvalutato data la nuova situazione.
Quello che oggi è divenuto chiaro è che a causa di tutti questi
elementi l’economia tedesca è entrata in stagnazione(e ripeto,
l’incapacità strutturale di adattarsi alla nuova situazione globale
gioca un ruolo basilare). Per questi motivi l’inflazione tedesca è
relativamente bassa, circa l’1%, nonostante la pressione sui costi.
In prospettiva vi sono dunque numerose conseguenze negative:
- La BCE dosa la sua politica monetaria sulla media delle
nazioni europee, e pertanto i tassi reali d’interesse in Germania
sono più alti data la sua minore inflazione;
- Poiché le imprese tedesche sono incapaci di trasferire sui
prezzi di vendita i costi crescenti, i loro profitti scendono. Il che
a sua volta porta a minori livelli di occupazione e investimento. Ne
consegue che la crescita economica , già bassa a causa dei tassi
reali più alti, scende ulteriormente, provocando un maggior deficit
statale al di fuori dei limiti del Patto di Stabilità, per cui il
governo non può stimolare fiscalmente il sistema, ma anzi si ritrova
ad alzare le tasse.
- Il solo modo di accelerare la crescita in questa situazione è
aumentare la competitività. A parità di ogni altra cosa, ciò si può
ottenere (essendo ormai il cambio bloccato) solo mantenendo i costi
salariali inferiori a quelli degli altri paesi. Il che è impossibile,
politicamente e sindacalmente, ed avrebbe anche effetti negativi
sulla domanda interna.
Ne deriva una situazione abbastanza difficile, a cui si aggiunge
l’invecchiamento rapido della popolazione che porterà altri problemi
nelle finanze pubbliche se non si prendono subito provvedimenti in
materia previdenziale. Si potrebbe alzare l’età della pensione in
misura sostanziale, ma politicamente ciò non è fattibile; affinché in
futuro meno lavoratori possano mantenere sempre più pensionati ci
vorrebbero incrementi di produttività tali che solo un economia ad
elevata crescita può ottenere;non resta che favorire l’immigrazione,
a maggior ragione adesso che altri paesi dell’est entrano in Europa,
ma i sindacati vogliono comunque difendere i posti di lavoro
esistenti. Così quello che in pratica sta avvenendo è che l’economia resta stagnante,
e il deficit statale deborda i limiti europei.
D’altronde se si alzano le tasse e si riducono le spese, ci si avvita in una spirale
perversa che deprime la crescita ancor più, il che significherà
meno entrate fiscali e maggiori spese sociali.
Il guaio, per noi, è che la Germania è la più grande economia
europea, con 87 milioni di abitanti; ed inoltre anche la Francia e
soprattutto l’Italia hanno gli stessi problemi. Per giunta continuano
a cercare soluzioni macroeconomiche a problemi squisitamente
microeconomici che richiedono riforme strutturali ;
si rimette in discussione il Patto di Stabilità perdendo
credibilità e si mette pressione sulla BCE ; quest’ultima reagisce
irrigidendosi, per mettere a sua volta pressione sui governi affinché
affrontino le riforme.
Non sorprende pertanto che l’euro faccia fatica, né che l’economia
europea risulti incapace di fronteggiare la sfida cinese.



6- partita epocale
La crescita della Cina come potenza dominante asiatica, politica ed economica, solleva varie questioni.
E’ ovvio che con una popolazione di un miliardo e duecento milioni, la Cina sarà il più grande consumatore al mondo di beni e servizi. Già oggi la Cina ha più frigoriferi, telefonini, televisioni e ciclomotori che gli USA, ed è solo una questione di tempo prima che abbia un mercato enorme per quasi tutti i prodotti. Ne conseguirà anche una forte crescita del fabbisogno di risorse, e gli acquisti cinesi di petrolio, caffè, rame, grano e così via muoveranno notevolmente i prezzi delle commodities.
Basta considerare quanto segue.
L’Asia con una popolazione di circa 3 miliardi , per ora consuma ogni giorno 19 milioni di barili di petrolio, contro i 22 milioni degli americani, i quali quindi hanno un consumo pro-capite di oltre 10 volte superiore. Ma il consumo asiatico sta salendo rapidamente: la domanda di petrolio in Cina è raddoppiata negli ultimi 7 anni, arrivando a 4,5 milioni di barili quotidiani.
Non è solo sul mercato petrolifero che la crescita economica cinese si farà sentire. Prendiamo, ad esempio, il consumo procapite di cibo in Cina, che non voglio paragonare a quello delle nazioni occidentali dove una ampia fetta della popolazione soffre di obesità. Se guardiamo il consumo di carne, latte, pesce, frutta e pollame in Cina, Taiwan ed Hong Kong, diviene ovvio che il crescente tenore di vita in Cina porterà a incrementi molto importanti nei suoi acquisti di prodotti agricoli, negli anni a venire; ad un certo punto nel futuro, i cinesi avranno un consumo procapite simile a quello di Taiwan ed Hong Kong.
Se compariamo il consumo di caffè in Cina con quello delle nazioni occidentali, vediamo che il consumo procapite tedesco è di 8,6 kg all’anno, ed in Giappone – dove il consumo di caffè è cresciuto rapidamente negli ultimi 30 anni – è di 2,3 kg. In Cina siamo ad appena 0,2 kg. Se la Cina sale ad appena 1 kg procapite(un po’ meno che nella Corea del Sud) allora la Cina consumerebbe nel complesso 1,2 miliardi di kg che vanno raffrontati ai circa 600 milioni di kg della Germania!
Quello che voglio dire è che se il tenore di vita in Cina cresce, si avrà un enorme impatto sui mercati mondiali delle commodities, con probabile notevole incremento dei relativi prezzi. I prezzi del grano, altro esempio, stanno già crescendo in modo esplosivo da giugno. L’indice generale delle materie prime (il Commodities Research Bureau) è già passato da 180 a 250.
L’idea è che investire a lungo termine su un paniere di materie prime (futures sul caffè, cotone, gomma, rame, zucchero, oltre che oro, argento, platino) sembra il modo migliore di beneficiare dall’emergere della Cina tra le potenze economiche del mondo, e si rivelerà certamente più redditizio che investire sui mercati finanziari occidentali.
Naturalmente si possono sottolineare una serie di importanti problematiche che la Cina dovrà affrontare in questo cammino; ad esempio , anche da lei il sistema finanziario fa acqua: vi sono molti prestiti andati a male tra le attività delle banche statali, non esiste un sistema pensionistico, c’è corruzione, e la ricchezza prossima ventura si dividerà in modo ineguale tra città e campagne. Prima o poi la Cina dovrà affrontare una seria crisi finanziaria, ma come sappiamo anche l’Occidente è in questa situazione per ben più gravi motivi. In realtà la Cina va paragonata agli USA del 19° secolo, che pure affrontò una serie di crisi, ed anche una guerra civile, ma ciò nonostante la sua economia continuò a crescere molto bene tra il 1800 ed il 1900; in genere, tutte le economie in rapida crescita sperimentano violente ricadute di tanto in tanto. Ma se si guarda alle prospettive di lungo termine, allora occorre ricordarsi che pure gli USA nella seconda metà dell’ottocento si espansero rapidamente nonostante un ambiente deflazionistico dovuto a vari fattori tra cui il rapido aumento della popolazione (passata dai 37 milioni del 1867 ai 76 del 1900), l’apertura di nuovi territori facilitata dalle ferrovie, e l’applicazione di nuove invenzioni nel manifatturiero, e conseguente miglioramento della produttività. Inoltre quando paragoniamo gli USA di quel periodo alla Cina di oggi non dobbiamo dimenticare il fatto che nel 1850 gli USA erano molto indietro rispetto alla Gran bretagna e all’Europa in termini di industrializzazione, e che poi scattò un effetto sorpasso. Ciò è evidente quando osserviamo la crescita industriale negli USA, in Germania ed in Inghilterra dal 1875 al 1890. Gli USA crebbero mediamente del 4,9% annuo contro rispettivamente il 2,5% e l’1,2%. La forte crescita americana fu tipica di un economia emergente ed è simile a quella cinese tra il 1978 ed il 1995( più del 5% annuo mentre quella mondiale mediamente cresce dell’1,1% nello stesso periodo).
Soprattutto, già nel 1885 gli USA, che non avevano in pratica industrie all’inizio del 1800, erano diventati leader nella produzione manifatturiera producendo il 28,9% dei beni manufatti mondiali, superando l’Inghilterra (al 26,6%) e ben sopra la Germania (al 13,9%). Ed anche nella produzione di cotone gli USA che nel 1800 ancora non ne producevano, nel 1860 erano in grado di soddisfare i 5/6 della domanda mondiale.
Il punto dunque è questo: se gli USA poterono divenire la potenza economica dominante per la fine del 19° secolo partendo da niente, è plausibile che , con l’accelerazione del ritmo di cambiamento odierno, in appena 10 –20 anni la Cina diventi l’economia numero uno al mondo, indipendentemente dalle varie crisi che dovrà affrontare.
Il problema, piuttosto prevedibile, è però un altro su cui tornerò nelle considerazioni geopolitiche che concludono questo lavoro:
a causa della sua crescente importanza economica e dunque militare, la Cina crescerà troppo in proporzione a un armonico equilibrio del potere politico in Asia e nel mondo. Quando la Cina sarà divenuta il più importante partner commerciale dell’asia, sia per l’export che per l’import, non solo avrà un egemonia economica, ma anche rimpiazzerà l’Occidente come potenza militare, spaziale e politica più influente.
Ora tutto ciò come lo capiamo noi, lo capisce molto bene chi oggi ha il potere(che non è la classe politica, semplice esteriorità ), e naturalmente cerca di porre rimedio in anticipo alla altrimenti inevitabile perdita del potere neanche troppo lontana come abbiamo visto.
Questa è la chiave di lettura per capire quello che sta succedendo e quello che succederà man mano. La conquista dell’Irak, non serve solo per contrastare il terrorismo che pure è utile per mantenere alte le spese militari, o per il petrolio che pure è importante alla luce degli sviluppi di consumo sopramenzionati (ma che potrebbe un domani essere sostituito dall’idrogeno) o per frammentare l’Europa che già lo è di suo; è una mossa nello scacchiere e prelude a prossime mosse. Ma soprattutto, se si comprende questa situazione iniziata con la caduta del comunismo, si comprende perché paradossalmente può esservi interesse a generare una grande depressione economica mondiale, ben superiore a quella degli anni 30. In una situazione di questo tipo infatti, sarà molto più facile rallentare lo sviluppo cinese, cercando di controllarlo ed acquisirlo.Tutto questo sembra incredibile? Non tanto, se solo studiamo la Storia.











Parte seconda: l’ eco del passato


7- Elliott e la Storia
Le vicende di cui forse saremo testimoni, e che potranno impressionarci, si ridimensionano (nel senso che sono più comprensibili) se inquadrate in una prospettiva storica.
A tal fine voglio illustrarvi sinteticamente il lavoro di tre storici (Miller, Joubert, e Butler) che hanno applicato la terminologia delle onde di Elliott (noto metodo di analisi tecnica) alla Storia, identificando dei SuperCicli (GCS) di avanzamento economico della durata di circa 300 anni. Un attimo di pazienza:
3 simili avanzamenti in successione, combinati con due declini intermedi, costituiscono un onda di più ampia portata della durata di circa mille anni, chiamata onda X. Loro suddividono una onda X nelle sue componenti GSC che etichettano in questo modo: GSC1 i primi 300 anni di avanzamento, GSC2 il declino intermedio di circa 50 anni, GSC3 il secono avanzamento da 300 anni, GSC4 l’altro declino da 50 anni, e GSC5 la terza e finale onda di avanzamento. All’interno di queste onde di avanzamento, identificano delle sottoonde (cicli) da 70 anni.
Complessivamente hanno identificato 10 onde X dall’inizio del Neolitico fino a oggi, ma l’analisi dettagliata viene fatta sulle due ultime onde X: il periodo romano dal 750 a.C. al 337, e il periodo moderno dall’anno mille al 2000.
I componenti GSC di queste onde sono i seguenti:
Onda X romana
GSC1: 750 a.C.- 432 a.C. : Grecia Classica
GSC2: 431 a.C.-390 a.C.: Caduta dell’impero ateniese
GSC3: 390 a.C.- 91 a.C: Repubblica Romana
GSC4: 91 a.C.- 31 a.C: Caduta della repubblica romana
GSC5: 30 a.C.- 337: Impero Romano

Onda X Moderna
GSC1: 1000-1337: Tardo Medio Evo
GSC2: 1337-1400: Guerra dei cento anni
GSC3: 1400-1720: Rinascimento
GSC4: 1720-1781: Scoppio Bolle dei mari del sud e Mississipi
GSC5: 1782-2000: Rivoluzione Industriale e atomica

Dall’analisi, scoprono che il rischio sistemico aumenta alla fine delle onde e delle sottoonde.
Ai massimi di queste ultime (cioè dei cicli) i rischi sono : eccessivi debiti personali, aumento delle bancarotte, declini delle quotazioni azionarie, ridotta attività economica, e disoccupazione crescente.
Ai picchi dei Super Cicli, i rischi aumentano e includono il default dei debiti nazionali, il collasso dei sistemi monetari cartacei (includendovi anche i precursori non cartacei), e cambiamenti radicali nelle forme di governo.
Ai picchi delle onde X il rischio sale ancora e include l’estinzione di nazioni, collasso del commercio internazionale, sparizione dei beni di lusso, e declino dell’architettura(principalmente, minore monumentalità delle costruzioni).
Gli autori sottolineano che questi rischi rappresentano i tipici sviluppi, anche se non inevitabili, associati a periodi di declino che seguono i picchi(cioè i punti di massimo) dei tre ordini di onde sopramenzionate.
Voglio chiarire che questi signori hanno svolto un lavoro ciclopico(vedasi Bibliografia) composto da una serie di studi quali :
• Fondamenti della civilizzazione occidentale
• Crescita e caduta delle civiltà
• Onde di Elliott e storia Monetaria
• Bancarotte nazionali e supercicli

All’interno di quest’ultimo lavoro troviamo 6 specifiche analisi:
1) La caduta dell’impero ateniese
2) La caduta della repubblica romana
3) la caduta dell’impero romano
4) La guerrra dei cento anni e la morte nera
5) La caduta della monarchia francese
6) La grande bolla creditizia

Una regola universale che deducono da questa massa di lavoro è che la nazione (o le nazioni) che rappresentano il centro di gravità economico della civilizzazione occidentale sperimentano un notevole stress monetario e fiscale alla fine di un GSC, e che in molti casi questo stress è seguito dal collasso monetario, dalla rovina finanziaria dello Stato, e dal collasso del governo.
Ogni caso è differente, ma vi sono rimarchevoli similitudini.
Nella caduta della monarchia francese, l’insolvenza finanziaria dello Stato fu una causa diretta ed immediata della caduta del governo, avvenuta in simultanea con il completo collasso monetario e fiscale.
Nella caduta dell’impero romano, l’insolvenza finanziaria fu una causa diretta, ma non immediata, del collasso governativo (la causa immediata fu l’invasione dei barbari). Ciò nonostante, la caduta dell’impero romano – come nel caso della monarchia francese – fu accompagnata anche dal collasso monetario e fiscale.
Nella caduta dell’impero ateniese, i problemi finanziari furono solo una causa indiretta della caduta del governo; ma il governo cadde e comportò la rovina finanziaria dello Stato.
Nella caduta della repubblica romana, le difficoltà finanziarie non paiono aver causato la caduta del governo, ma il governo cadde nel pieno di difficoltà monetarie e finanziarie.
Nel caso della guerra dei cento anni, vi furono pesanti problemi economici, finanziari e monetari in Europa, incluse le bancarotte di Inghilterra e Francia, il default del debito inglese, la crisi dei banchieri italiani e la destabilizzazione monetaria in Inghilterra e Francia. Le rivolte in questi ultimi due paesi non fecero cadere le monarchie, ma le città-stato italiane sperimentarono diversi ribaltoni (lo stato di polizia a Venezia, la rivolta popolare contro l’elìte genovese, la tirannia a Firenze), e vi fu il grande scisma nella chiesa cattolica.
E ci vogliamo impressionare se con la fine della seconda onda X la Storia si ripete ?
la caduta della repubblica romana, è molto meno conosciuta della caduta dell’impero romano avvenuta 4 secoli dopo. Moneta e Debito a quell’epoca, Ricavi e Costi della repubblica, e le sue decadi finali, mostrano come vi fu una distinta relazione causale tra la bancarotta dello Stato e la caduta della repubblica. In particolare vi fò notare come (anche nel caso dell’impero ateniese) le difficoltà finanziarie furono dovute a perduranti ed eccessive spese militari superiori alle entrate del governo. I romani dell’epoca spesero tutte le riserve, imposero tasse straordinarie, usarono le armi per estorcere risorse ai vinti, si indebitarono, ed usarono i soldi per tentare soldati e marinai avversari. In particolare avvenne la distruzione del sistema monetario con l’utilizzazione di monete false (verniciate di argento, ma prive del contenuto intrinseco di argento, come avrebbe dovuto).
Ma il caso per eccellenza resta quello dell’Impero romano.

8- Impero Romano

L’impero romano ebbe due secoli di pace e prosperità dalla sua
fondazione (30 a.C. quando si dissolse la repubblica romana) fino al
regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.); un periodo di declino fino
all’anno 268 cui poi seguì una ripresa sotto gli imperatori illirici
che durò fino al regno di Costantino (324-337); ed infine dopo
Costantino, l’impero entrò nella fase finale, con la data ufficiale
della fine storicamente stabilita nel 476.
L’impero romano fu la più grande civiltà prodotta dall’occidente, e
rappresentò il culmine di 10 mila anni di avanzamento economico
iniziato nell’età neolitica. In termini di dimensione, popolazione,
ricchezza, potere militare, portata delle opere economiche, numero di
fondazioni, e sofisticazione dell’ingegneria militare e civile,
l’impero Romano non venne superato fino alla rivoluzione industriale
del 18° secolo. Per fare un esempio, la città di Roma aveva una
popolazione di un milione di persone, raggiunta solo da Londra nel
1800. Dopo la caduta dell’impero, la popolazione di Roma si ridusse a
quella di un semplice villaggio.
In questo capitolo esamineremo la rovina finanziaria dell’impero, un
processo lungo e complesso che rappresenta una causa fondamentale del
collasso. Lo faremo in termini moderni, non solo perché è
interessante culturalmente, ma anche perché possiamo trovare molte
analogie con l’epoca contemporanea.

Il sistema monetario nella fase iniziale era basato su tre monete:
1 sesterzio = 25 grammi di bronzo
1 denaro (3,5 grammi di argento)= 4 sesterzi (cioè 100 grammi di
bronzo)
1 aureo(7,8 grammi di oro) = 25 denari (cioè 87,5 grammi di argento)=
100 sesterzi (2,5 kg. di bronzo)
(Interessante notare come all’epoca quindi 1 grammo di oro valeva
11,2 grammi di argento. Oggi 1 grammo di oro vale 78 grammi di
argento.)

Le entrate della repubblica dopo le conquiste di Pompeo erano di 340
milioni di sesterzi(HS). L’annessione della Gallia nel 51 a.C. e
dell’Egitto nel 31 a.C. avevano aggiunto 300 mln. di HS. Le conquiste
imperiali della Cappadocia , della Mauritiana e della Bretagna
aggiunsero altri 30 mln.HS, facendo sì che le entrate totali
all’epoca di Nerone arrivassero a 670 mln. di sesterzi. Durante la
guerra civile seguita alla morte di Nerone, il governo ebbe un enorme
deficit e Vespasiano cercò di rimediare aumentando le tasse del 20%
durante gli anni 70 (dopo Cristo). Così le entrate arrivarono a 804
mln. circa, ed in termini reali sembra che non siano più salite in
modo sostanziale sopra questo livello fino alla fine.
Vediamo adesso le spese: nell’anno 150 erano di 832 mln. HS (di cui
640 per il pagamento dei militari, 50 per i bisogni dell’imperatore,
e il resto tra impiegati civili, costruzioni e cash). Si tratta ovvio
di stime e non implicano un deficit, perché l’avere un bilancio in
pareggio era un principio caro agli imperatori iniziali: Augusto
ridusse le legioni da 60 a 28, e questo numero rimase relativamente
stabile per i primi 3 secoli dopo Cristo. Un legionario prendeva
mediamente 1200 sesterzi l’anno (equivalenti a meno di 100 grammi di
oro, che oggi sarebbero circa mille euro) .
Comprendere l’equazione delle entrate e delle spese è basilare per
capire la rovina finanziaria dell’impero nel corso dei secoli. I
costi militari consumavano più del 70% delle entrate da quando le
legioni salirono a 33 sotto Settimo Severo. Vespasiano aveva già
aumentato le tasse fin dove possibile , cioè senza che creassero
rivolte, così vi era poco spazio per aumentare le entrate durante i
periodi di spese straordinarie dovute alle guerre o ai regni di
imperatori stravaganti. Nel frattempo c’era poco spazio per ridurre
le spese, se non si voleva ridurre la dimensione militare.
Nel periodo repubblicano, prima dell’impero, la rovina finanziaria
era stata evitata durante i periodi di difficoltà, conquistando nuovi
territori. Ma anche questo non era più possibile, perché tutti i
territori profittevoli erano già stati annessi. Le tribù barbare del
nord non valevano la pena (Augusto diceva che ulteriori conquiste
sarebbero state come pescare pesciolini con un amo d’oro). Ciò
nonostante l’impero aveva qualche altro espediente finanziario a sua
disposizione quando era in difficoltà:
1) confiscava le proprietà dei condannati (per tradimento o
altro); ma nel tempo questo sistema distrusse la vecchia classe
senatoriale, che fu rimpiazzata da una nuova elìte terriera che
derivava il suo potere dalla fedeltà all’imperatore.
2) Tasse e pagamenti una tantum.
3) Prendere metalli preziosi dai tempi e dalle statue costruite
con oro e argento.
4) Vendita di beni (palazzi, schiavi, ed armi).
Ma in pratica l’impero aveva poca flessibilità nel suo budget, sia
dal lato delle entrate che delle spese. Fino a quando non vi furono
significative minacce esterne, il budget restò sostenibile. Una volta
però che gli assalti dei barbari divennero cronici e diffusi,
piuttosto che locali e sporadici, l’Impero si venne a trovare in un
lento ma inesorabile declino. Le vittorie sui barbari non davano
guadagni finanziari, mentre le sconfitte comportavano perdite
finanziarie , per danni alle proprietà, commerci che andavano in
malora, ed una minore popolazione da tassare. Il governo reagiva con
tasse ancora crescenti che lentamente strozzarono l’intera economia e
alla fine lo distrussero.
E andiamo alle manovre da banchieri centrali che escogitarono.
Praticamente ogni imperatore, a partire da Nerone, metteva sempre
meno bronzo e argento nelle monete che produceva. Sotto Augusto il
denario era per il 98% di argento puro, e ai tempi di Adriano nel 138
si era scesi al 90%. Antonino Pio lo ridusse all’86,5%, marco Aurelio
al 78%, Comodo al 73%, Settimo Severo al 55,5% e caracolla al 51,5%
(siamo arrivati all’anno 217). Caracolla poi si inventò l’antoniniano
(il denario doppio) che aveva però solo il 50% di argento in più
quando nominalmente rappresentava il doppio.
Naturalmente tutto ciò produsse inflazione. Ai tempi della repubblica
Plinio diceva che svuotare di contenuto prezioso la moneta equivaleva
a un default, diremmo oggi, del debito governativo. Gli imperatori
invece lo trovarono un comodo mezzo di finanziamento, anche perché
avevano paura che l’esercito potesse impossessarsi delle riserve
preziose. Tra l’altro è sorprendente notare come la paga dei soldati
in termini di argento non aumentò mai rispetto ai livelli raggiunti
sotto Augusto. In pratica ogni volta che il salario nominale veniva
aumentato, il contenuto di argento/bronzo del denaro in circolazione
veniva ridotto, così il costo in metallo prezioso dei soldati fu
tenuto costante (da Domiziano nell’anno 84 a Caracalla nel 212 il
salario annuo di un legionario passò da 1200 a 2400 sesterzi, ma come
visto il contenuto prezioso era stato dimezzato).
La riduzione del contenuto prezioso nella moneta in circolazione ebbe
un significativo impatto sui prezzi.
Dopo Caracalla, la svalutazione accelerò, e il contenuto di argento
scese al 40% nell’anno 250 e quasi a zero nel 270 quando il bronzo
veniva appena dipinto di argento. Si stima che l’inflazione tra il
secondo ed il terzo secolo sia stata del 15000% (avete letto bene,
quindicimila). Diocleziano per porvi rimedio emanò un editto nel
301 : blocco dei prezzi su oltre 800 voci (come si vede, i ns.
governanti quando bloccano tariffe e simili, non inventano niente di
originale). I salari vennero stabiliti dall’editto con due livelli:
lavori qualificati (carpentieri, etc.) a 50-60 denari al giorno, gli
altri a 25 denari. Nel frattempo i legionari , cui venivano fatte
regalìe una tantum ed in parte erano pagati con grano, prendevano un
po’ di più dei lavoratori qualificati.
L’editto di Diocleziano non riuscì però a fermare la corsa dei
prezzi, nonostante la minaccia di punizioni capitali. Diocleziano
specificò che un oncia di oro (33 grammi) valeva 50mila denarii, ma
il tasso di mercato rapidamente andò a 100mila nell’anno 307, a
300mila nel 324, e ad un incredibile 2,1 miliardi di denarii per ogni
oncia di oro nel 350.
Comunque altre riforme di Diocleziano ebbero più successo. La pietra
angolare della sua politica economica fu far divenire permanenti le
confische delle risorse necessarie all’impero, fino ad allora fatte
saltuariamente. Poichè la moneta non aveva più valore, il nuovo
sistema fu basato sull’esazione di tasse in natura, regolarmente
previste dal budget imperiale in modo da dare comunque certezza di
ciò che si sarebbe dovuto pagare, e di converso, avere certezza delle
risorse su cui si poteva contare.
Nel frattempo le invasioni barbariche avevano iniziato a diffondersi
già a metà del secolo, e accelerarono con l’apparizione degli Unni
nel 376. Questi assalti causarono numerose perdite finanziarie oltre
ai costi militari diretti.
Aureliano aveva speso diversi anni per la ricostruzione delle mura di
Roma, impresa molto costosa. La città rimase salva durante il quarto
secolo ma fu occupata e saccheggiata due volte nel quinto,
nonostante le mura aureliane. I goti saccheggiarono Roma per sei
giorni nel 410 e i vandali per due settimane nel 455. Questi danni
comportarono anche una riduzione delle tasse incassate dalle
province. Ad esempio nel 445 le entrate erano di 9600 solidi dalla
Numidia e di 5150 dalla Mauritania, invece che rispettivamente 77mila
e 41mila dei tempi antecedenti l’invasione dei vandali (il solido era
di 4,54 grammi di oro, e fu introdotto da Costantino).
Roma perse anche il controllo dei mari: la marina imperiale era già
sparita durante il terzo secolo, quando nel 250 i pirati erano
comparsi su vasta scala, e nel 269 una banda di goti potè navigare
senza ostacoli fino in Grecia. Diocleziano potè finanziare solo la
costruzione di flotte locali nel mediterraneo, ma per la fine degli
anni 300 non ce n’erano più. Poiché l’impero era un anello di terra
circondato dal mediterraneo, la perdita del controllo ebbe enormi
conseguenze sul commercio tra province, particolarmente grave perché
l’Italia non era autosufficiente nella produzione di cibo. Infine,
dopo la battaglia di Adrianopoli nel 378, l’impero iniziò anche a
pagare le tribù barbare purchè non effettuassero incursioni.
Tutto ciò non toglie però che continuasse a esistere una crescente
burocrazia, accoppiata a sprechi di ogni genere e a una fortissima
tendenza all’ozio e alla lussuria. Gibbon nel suo
monumentale “declino e caduta dell’impero romano” descrive così la
situazione ai tempi di Giuliano (361): “ Subito dopo l’entrata (di
Giuliano) nel palazzo di Costantinopoli, ebbe bisogno di un
barbiere. Un uomo magnificamente vestito, immediatamente si presentò
a lui. Giuliano ripetè che voleva un barbiere , e, scoprendo che
questi era il barbiere ,iniziò a chiedergli quanto guadagnava dalla
sua occupazione, e fu informato che – a parte un salario cospicuo –
questi godeva dei servizi di 20 servi e altrettanti cavalli. Con
questa situazione di benefici un migliaio di barbieri, un migliaio di
portatori di tazze, un migliaio di cuochi vennero distribuiti in
diversi luoghi di lussuria; ed il numero di eunuchi poteva essere
paragonato solo con gli insetti dei giorni estivi”(p.747)

Ricapitolando: la riduzione delle entrate e l’aumento delle spese per
tutte le cause sopraesposte, portò l’impero ad aumentare le tasse
laddove poteva, raddoppiando l’incidenza nel 350. I piccoli
proprietari caddero in rovina per il peso delle tasse, e furono
costretti a impiegarsi presso i grandi proprietari, a volte anche
come schiavi pur di sopravvivere.
Il fenomeno si diffuse così tanto che l’imperatore Valente nel 368
dichiarò illegale la rinuncia alla propria libertà.
Le legioni si deteriorano fino al punto che erano composte di
contadini e mercenari barbari. Diocleziano ne aveva aumentato il
numero a 60, ma alla fine del quarto secolo esistevano solo sulla
carta. Nel 406 la situazione divenne così disperata che Onorio
arruolò pure gli schiavi.
Nel settore privato, l’attività bancaria fu abbandonata nel 410 , la
terra produttiva fu anche lei man mano abbandonata, il commercio
collassò. Le invasioni barbariche, il colpo finale all’impero nel
quinto secolo, furono semplicemente il culmine di 3 secoli di
deterioramento continuo nella capacità fiscale. Un circolo vizioso
era stato decisivo: l’aumento delle spese militari, la burocrazia, e
gli sperperi portarono a un insopportabile livello la pressione
fiscale, così crebbe per reazione l’evasione fiscale soprattutto da
parte degli alti esponenti e dei grandi proprietari terrieri; alla
fine arrivò la bancarotta; nello stesso tempo piccoli gruppi
privilegiati, evasori fiscali, riuscivano a tesaurizzare la loro
ricchezza creando intorno alle loro ville dei microcosmi sociali ed
economici, completamente indipendenti dall’autorità centrale: è la
fine dell’impero e l’inizio del medio evo.

Concludo facendo notare come la questione finanziaria e la questione
morale siano state sempre intrecciate nella lunga storia romana. Nel
485 a.C. nei primi anni della repubblica, Cincinnato fu nominato
dittatore: egli sconfisse gli Equi e si dimise da dittatore,
ritornando ai suoi campi. Questo comportamento rende l’idea dello
standard di virtù civiche che ispirarono Roma per secoli rendendola
grande. Ma già alla fine della repubblica queste virtù erano in
declino e rimpiazzate dal desiderio di potere personale e questo
desiderio forse più di ogni altra cosa portò alla implosione finale.

9- Iperinflazione
Un altro caso storico che val la pena ricostruire è l’iperinflazione tedesca del 1923; credo potrà essere di grande utilità a proposito del futuro, oltre che di indubbio interesse culturale, perché vi sono molti paralleli tra la Germania degli anni 20 e gli USA di oggi, ma anche una differenza fondamentale: mentre la situazione tedesca dell’epoca fu compressa in pochi anni, quell’americana di oggi si protrae da molti anni. Ciò perché i banchieri centrali hanno comunque imparato proprio da quell’esperienza alcuni trucchi per ritardare le conseguenze dell’eccesso nella stampa di moneta, ed inoltre perché la Germania dell’inizio anni 20 era un piccolo Stato isolato dalla sconfitta nella prima guerra mondiale, e dunque ebbe difficoltà a trovare compratori per le proprie obbligazioni; i suoi deficit dovevano essere finanziati internamente, il che accelerò il ritmo nella stampa di moneta. Fino a oggi invece gli USA hanno potuto, grazie al loro signoraggio internazionale, farsi finanziare senza difficoltà dall’estero i deficit. Adesso però i bassi tassi d’interesse, ed un crescente timore da parte del resto del mondo che la situazione sia fuori controllo, ha fatto sì che la Fed monetizzasse una sempre maggior quota del debito americano. Come si vedrà, la correlazione tra deficit ed inflazione è sempiterna, i deficit portano all’inflazione e i deficit fuori controllo portano ad un inflazione fuori controllo. I sopravvissuti dall’iperinflazione tedesca si salvarono comprando oro e monete rare nello stadio iniziale del processo. Come investitori il massimo che si può fare è prepararsi a questa eventualità, magari sperando che non si verifichi.

Se la Storia insegna qualcosa, è che il governo non può tradire la fiducia quando gestisce la moneta. Se una moneta non è convertibile in oro, il suo valore dipende unicamente dal giudizio e dalla coscienza dei politici. Specialmente durante una crisi economica o durante una guerra, la pressione a stampare moneta divene molto forte: ogni alternativa (aumentare le tasse ad esempio, o tagliare le spese) sembra politicamente impraticabile. E’ stato sempre così dall’epoca dei romani a quella della rivoluzione francese: un governo in difficoltà finanziaria trova più facile stampare moneta fin quando può, cioè fino al disastro. L’intero processo è accompagnato da una marea di spiegazioni, di propaganda e di nuove regolamentazioni che nascondono la vera situazione agli occhi della maggioranza fino a che quest’ultima non si rende conto di aver perso tutti i propri risparmi monetari. Durante la prima guerra mondiale, la Germania – come altri governi – si indebitò pesantemente per pagare i costi di guerra. Ciò portò all’inflazione, ma in termini ancora accettabili. Dopo la guerra vi fu un periodo di stabilità, ma poi l’inflazione riprese a correre. Nel 1923 –80 anni fà esatti – scoppiò la più selvaggia inflazione dell’epoca moderna. Spesso i prezzi si raddoppiavano nel giro di poche ore. La gente scappava dalla moneta e cercava subito di comprare merci: per la fine del 23 ci volevano 200 miliardi di vecchi marchi per comprare un tozzo di pane. Milioni di lavoratori tedeschi scoprirono che i risparmi di una vita non riuscivano più a comprare neanche un francobollo.
Come è potuto succedere tutto ciò in una nazione che all’epoca era già tra le più civilizzate, guidata da gente intelligente democraticamente eletta? Cosa successe alle imprese, ai salari e all’occupazione? Come fecero alcuni a salvare il proprio capitale e pochi speculatori a fare una fortuna?
Gli anni 1914-1921
Quandò iniziò la prima guerra mondiale, il 31 luglio 1914, la Reichsbank (la banca centrale tedesca) sospese la convertibilità dei biglietti cartacei in oro: dopodichè non vi furono limiti legali a quanti biglietti potesse stampare. Il governo non voleva infastidire la gente aumentando le tasse, per cui preferiva farsi prestare il denaro che riteneva avrebbe incassato dopo la vittoria dai nemici di guerra. Gran parte di quei soldi furono anticipati e stampati dalla banca centrale. Alla fine della guerra, l’ammontare di moneta in circolazione si era quadruplicato.A fronte di ciò l’inflazione era cresciuta meno di quanto ci si sarebbe potuto aspettare: l’indice dei prezzi al consumo era cresciuto solo del 140% a dicembre 1918. Cioè più o meno quanto l’inflazione crebbe in quegli anni bellici in Inghilterra, ed un po’ più che negli USA,ma meno che in Francia. Nel frattempo però il debito era passato da 3 miliardi a 55 miliardi di vecchi marchi. Perché l’inflazione fu relativamente contenuta? Per la stessa ragione che si sarebbe verificata negli USA durante la seconda guerra mondiale: i bisogni furono razionati e i beni di lusso evitati; milioni di persone erano al fronte e non a fare shopping; i civili lavoravano duramente e avevano poco tempo per spendere; la gente risparmiava per i tempi di pace futura. Ma il carburante inflazionistico si stava accumulando nella forma di enormi quantità di carta moneta stampata. Alla fine la Germania, persa la guerra, dovette far fronte ai pagamenti imposti dai vincitori, ed il marco iniziò a deprezzarsi contro le valute estere. Inoltre, i nuovi leader socialisti, democraticamente eletti, promisero tutti i tipi di miglioramenti salariali, meno ore da lavorare, e l’espansione del sistema educativo, così come nuovi benefici sociali. Tutto questo però significò una domanda fortemente in crescita a fronte di una limitata capacità produttiva. Per queste ragioni l’inflazione riprese ad accelerare dopo la pace, e nel febbraio 1920 il livello dei prezzi era 5 volte maggiore rispetto alla fine della guerra. Nel frattempo l’ammontare di moneta in circolazione si era solo raddoppiato. Al contrario quindi di quanto successo durante la guerra, in soli due anni i prezzi erano saliti molto più dell’espansione monetaria. Ciò provocò un senso di conforto ai politici che ritenevano non potessero essere incolpati. Il motivo è, come vedremo, che il grado ed il flusso di fiducia giocano un grande ruolo nel trend di breve termine dei prezzi. La fiducia nel marco si era affievolita, e contemporaneamente miliardi di marchi conservati durante la guerra erano saltati fuori alla ricerca di beni da comprare: il carburante accumulato aveva iniziato a bruciare.
Dal febbraio 1920 per 15 mesi i prezzi restarono stabili ed il marco in realtà recuperò valore sulle valute estere, facendo scendere il prezzo dei beni importati del 50% circa. Ci fu quindi un occasione d’oro per ristabilire la stabilità monetaria. Purtroppo però, il governo, sentendosi incoraggiato da questo andamento, continuò a stampare moneta: +50% nei 15 mesi citati ed il debito salì del 100%. Nel maggio 1921 l’inflazione ripartì e un anno dopo i prezzi erano saliti del 700%. Ciò nonostante la reichsbank continuava a stampare moneta sebbene a un ritmo di crescita un pò inferiore a qullo dell’inflazione. Dopo il luglio 1922 iniziò la fase dell’iperinflazione vera e propria. La fiducia nella moneta svanì del tutto e i prezzi salirono sempre più velocemente per 15 mesi , superando di gran lunga la stampa di nuova moneta che non riusciva a tenere il loro passo. Tanto per dare un idea l’indice dei prezzi all’ingrosso che era 1(uno) nel luglio 1914 , ed era passato a 100,6 nel luglio 1922, subisce la seguente escalation: 194 mila nel luglio 1923 e 726 miliardi nel nov. 1923.
1922-1923: Iperinflazione!
Le cifre sopramenzionate illustrano dunque cos’è stata l’iperinflazione tedesca. Come ci si arrivò? Apparentemente la banca centrale credette che il problema di base fosse il deprezzamento del marco con le valute estere. A fine 1922 provò a sostenere il marco intervenendo sul mercato dei cambi; ma, poiché continuava a stampare a ritmi forsennati, il tentativo fallì. Ebbe successo solo nel riempirsi di pezzi di carta privi di valore svuotando le riserve auree. Ogni speranza di evitare il collasso svanì a gennaio del 1923 quando la Francia – commettendo una violazione dei trattati post bellici - occupò il distretto industriale chiave della Germania: La Ruhr. Il governo allora sussidiò le aziende occupate e finanziò un costoso programma di resistenza passiva. Nuovi miliardi di marchi furono stampati per finanziare questi ulteriori pesantissimi costi. A fine 1923, ben 300 fabbriche di carta lavoravano a pieno ritmo e 150 aziende stampatrici avevano 200 presse che marciavano giorno e notte producendo carta moneta. Sotto la spinta forzata dell’inflazione le imprese lavoravano alla massima capacità usabile e la disoccupazione era sparita. Ma, i salari reali dei lavoratori erano crollati. I sindacati ottennero spesso degli aumenti, ma non ce la facevano a tenere il passo. I lavoratori agricoli, e vari strati di impiegati si trovarono particolarmente a mal partito. Non avevano sindacati che li proteggessero e spesso erano alla fame. Molte persone mostravano evidenti segni di malnutrizione. I professionisti, gli scrittori, gli artisti videro i propri salari andare indietro fino a livello degli operai , il che spesso significava il minimo indispensabile per non morire. Gli uomini di affari invece iniziarono a trascurare le loro tradizionali occupazioni e iniziarono a speculare sulle azioni e sulle merci. Migliaia di piccoli imprenditori provarono a imitarli speculando su scarpe, carne, sapone, vestiti, e su ogni cosa potessero trovare: ogni caduta del marco portava a una corsa nei negozi, la gente comprava dozzine di cappelli o impermeabili. A metà 1923 i lavoratori iniziarono a essere pagati 3 volte al giorno. Le mogli prendevano i soldi e correvano a comprare, ma sempre più spesso trovavano i negozi vuoti. I magazzini non riuscivano a trovare merce o non riuscivano a fare gli scambi così velocemente da proteggersi. Gli agricoltori rifiutavano di portare i prodotti in città : ricevere carta moneta non gli interessava. Scoppiarono tumulti per il cibo. Gruppi di lavoratori marciavano nelle campagne per prendersi frutta e verdutra e assalivano le fattorie. Le imprese iniziarono a chiudere e la disoccupazione improvvisamente esplose. L’economia stava collassando.Nel frattempo, la classe media che dipendeva da qualsiasi tipo di reddito fisso si trovò impoverita, e vendette arredamento, vestiario, giolleria pur di avere cibo. I piccoli negozi divennero pieni di queste mercanzie. Ospedali, società artistiche e letterarie, istituzioni religiose e per la carità, chiusero perché non avevano più fondi.
Allora, con uno sforzo di volontà in extremis, il governo cambiò strategia di colpo e stabilizzò la moneta nel giro di una notte.
Avvenne così il miracolo del Rentenmark, durante il quale la svalutazione si fermò, le imprese rividero la luce, il virus inflazionistico fu fermato, sebbene, come vedremo, iniziava un lungo tunnel buio da percorrere. Milioni di tedeschi della classe media , normalmente l’ossatura della repubblica, rovinati dall’iperinflazione diventarono ricettivi alla propaganda di estrema destra e formarono il fertile terreno sul quale sarebbe attecchita e sviluppata la mala pianta hitleriana. Gli operai invece divennero nella maggioranza comunisti. I più grandi beneficiari dell’enorme redistribuzione di ricchezza che era intercorsa fuorno i leaders industriali di stampo feudale che non avevano fiducia nella democrazia e che di buon grado trattarono con Hitler pensando che lo avrebbero potuto controllare. I partiti democratici e i sindacati persero interamente il loro capitale di fiducia nell’opinione pubblica e furono ridotti ai minimi termini: la democrazia liberale fu la grande vittima del’iperinflazione,e gli effetti ultimi verranno poi pagati dal mondo intero con la seconda guerra mondiale.
Cosa causò l’iperinflazione?
Fu causata dal fatto che il governo stampò una marea di moneta, riversatasi sui beni. E più l’inflazione aumentava più ne veniva stampata. Fermare il processo avrebbe richiesto un coraggio politico che fu trovato solo alla fine. Come al solito, i veri fatti furono nascosti dietro un insieme di scuse e spiegazioni propagandistiche.
Sarebbe inoltre sbagliato pensare che tutti erano contro l’inflazione: molti uomini d’affari la vedevano di buon occhio perché cancellava i loro debiti, e loro sapevano come difendersene e perfino profittarne speculando sui cambi, o comprando merci ed impianti, o indebitandosi per acquistare azioni di aziende concorrenti. I loro costi salariali in termini reali dimuinuivano, aumentando i profitti. Ed anche molti lavoratori pensarono di guadagnarci almeno nelle fasi iniziali perché i loro salari nominali aumentavano e ci volle tempo prima che capissero che in termini reali ci perdevano. Aumentarono gli speculatori che commerciavano merci e tassi di cambio e avevano interesse a che l’inflazione proseguisse. Il governo stesso pensava che l’inflazione svuotava il suo debito e gli favoriva i problemi finanziari. Soprattutto, divenne un atto di fede tra i leader politici e la maggior parte dei cittadini pensare che l’inflazione era dovuta al peso dei pagamenti per le riparazioni belliche imposte dal trattato di pace. Il che significava, dicevano, che alla Germania veniva sottratto il suo oro e il suo benessere e per colpa loro sarebbe andata in bancarotta. Ovviamente il marco crollò in termini di oro o di dollari, e questo crollo fu additato come la causa vera dell’inflazione. I leader tedeschi dissero che il collasso del marco stava dimostrando come era impossibile sostenere i pagamenti che erano stati richiesti. Se vi fosse stata una stabilizzazione del marco questo argomento sarebbe venuto meno.Specialmente dopo che la Francia occupò la Ruhr nel gennaio 1923, si pensò che la distruzione del marco era in qualche modo una risposta all’odiata forza di occupazione, la sola risposta patriottica possibile per una Germania disarmata.
Infine , l’inflazione in un primo tempo sembrò portare alla prosperità. Nel 1921 quando il resto del mondo era in una dura recessione post bellica, gli indici della produzione tedesca salivano nettamente. Alla fine del 1921 il marco si stabilizzò temporaneamente e gli affari subito si indebolirono. A inizio 1922 il marco riprese a scendere e gli affari immediatamente ripresero. La gente comprava merci non appena riceveva moneta, e le aziende correvano a espandere gli impianti. La Germania veniva in quella fase invidiata per la sua prosperità (non ricorda gli USA di oggi, con la gente che spende in azioni oltre che in consumi?).
Il meccanismo di inflazione fu semplice. Il governo emetteva promesse di pagamento , e la banca centrale emetteva moneta sui titoli costituiti da queste obbligazioni. Quando un governo spende più di quanto incassa, deve indebitarsi. Se si limita a prendere in prestito dai suoi cittadini vendendo loro titoli, non è detto che ci sia inflazione: la moneta semplicemente passa di mano. Quando però il governo necessita di più moneta di quanto i propri cittadini siano in grado o vogliano prestargli, allora stampa nuova moneta, monetizza il debito come si dice. Questo è quello che succede negli USA: la Fed stampa e compra lei i bot o i bonds del governo non sottoscritti. Il risultato netto è appunto la creazione di nuova moneta(oggi sotto forma di nuovi depositi bancari). E questo è quello che successe in Germania. Il governo emetteva bot prontamente acquistati dalla Reichsbank che stampava nuovi biglietti per acquistarli. A complicare le cose ci si mise anche l’insufficiente rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla banca centrale, per cui le imprese trovavano profittevole indebitarsi con le banche e comprare merci, azioni e aziende(ricorda qualcosa?) Il loro debito veniva svuotato nel giro di poche settimane dalla rapida inflazione, mentre a loro restavano i beni reali. Il risultato era un enorme inflazione”privata”, causata dall’espansione del credito, esattamente come oggi negli USA. Perfino i cambi esteri venivano fatti con prestiti, in pratica la banca centrale finanziava la speculazione contro la propria moneta, alla giapponese diremmo oggi. E la banca centrale teneva bassi i tassi dicendo che un rialzo avrebbe solo creato danni alle aziende e avrebbe finito per aumentare l’inflazione! Insomma pare che i discorsi di Greenspan siano copiati da quelli della Reichsbank.
Il sistema fiscale collassò, perché le imprese trovavano conveniente ritardare i pagamenti, data la svalutazione, ed il governo per coprire il buco nel frattempo stampava altra moneta. Ad otttobre del 1923 l’1% delle entrate veniva dalle tasse e il 99% da nuova stampa di moneta.
Ma la forza che più accelerò il processo inflazionistico fu la costante diminuzione del valore reale della moneta in circolazione, come è avvenuto in tutte le rapide inflazioni della storia e che è vitale comprendere per combattere l’inflazione. Durante la guerra, come prima ricordato, l’inflazione era inferiore al tasso di crescita della moneta; ma dopo, non appena la gente perse la fiducia, avvenne l’opposto. Pertanto il totale del circolante si ridusse drasticamente in termini reali: in proporzione alle necessità nel dopo guerra circolava meno moneta in termini reali di quanto non ne girasse prima. Il che può sorprendere ma è vero: la circolazione nominale era cresciuta di 15-20 volte ma i prezzi erano saliti di 40-50 volte, ed in termini di oro il valore cadde da 7428 milioni di marchi ad appena 168 milioni nel luglio 1923. Nonostante il proliferare di tonnellate di pezzi di carta, il cittadino medio trovava più difficile , e sempre di più, avere la moneta sufficiente per i suoi bisogni. Le banche, a corto di contante, non potevano onorare gli assegni, ed il governo aveva lo stesso problema, per cui sembrava non che ci fosse troppa moneta, bensì l’opposto. Per cui sembrava che se si fosse smesso di stampare moneta si sarebbero bloccate le imprese e milioni di lavoratori sarebbero finiti sulle strade.Il governo stesso sarebbe stato incapace di farlo: se si cavalca una tigre, poi scendere non è facile. Il 25 ottobre del 1923 la banca centrale scrive di aver stampato quel giorno 120 mila trilioni di marchi; purtroppo però la domanda era di un milione di trilioni: fu annunciato che la produzione sarebbe aumentata a 500 mila trilioni al giorno.
Una volta che la gente perde fiducia in una moneta, cerca di liberarsene. Come Keynes osservava, ciò aumenta enormemente la velocità di circolazione, per cui i prezzi crescono più velocemente di quanto il governo non riesca a stampare moneta. Marshall , studiando questo processo, concludeva che : il valore totale di una moneta cartacea non convertibile, non può essere aumentato aumentando la sua quantità perché ogni aumento nella quantità abbassa il valore di ogni unità pre-esistente più che proporzionalmente.
In genere, i governi incolpano tutto e tutti per l’inflazione tranne se stessi. Quando l’inflazione cresce meno della moneta, come durante la guerra, dicono che ciò dimostra come le emissioni di moneta non sono pericolosamente alte (Fed oggi). Dopo, quando la fiducia svanisce,ed i prezzi superano la crescita della moneta, di nuovo dicono che ciò prova che non è colpa delle emissioni, che anzi ce ne vorrebero di più per star dietro ai prezzi. Concluderò questa digressione teorica con una citazione di Milton Friedman il quale notò che dopo la rivoluzione russa, i bolscevichi introdussero una nuova moneta che stamparono in enormi quanittà e subito divenne priva di valore. Nel frattempo ancora circolavano le vecchie monete dello zar che invece mantenevano il loro valore reale,e che si erano quindi enormente rivalutate rispetto alla nuova moneta . Perché? Perchè nessuno pensava che lo zar ritornasse al governo e dunque si sapeva che la vecchia moneta non era più stampabile!
Effetti dell’iperinflazione sul mondo del lavoro
Man mano che l’inflazione aumentava la gente correva a comprare beni per liberarsi dei soldi deprezzati. Per ragioni analoghe, le imprese compravano macchinari, costruivano nuovi impianti, accumulavano scorte di carbone, acciaio e altre materie prime. Chi aveva credito disponibile, lo sfruttava al massimo a questi scopi, sapendo che l’inflazione avrebbe cancellato il suo debito. Ci fu una enorme conversione di capitale in investimenti fissi: le imprese erano in pieno boom e la disoccpazione inesistente fino alla fase finale. In questo modo però si creò subito un eccesso di capacità produttiva, il che provocò una severa depressione nei beni di consumo: dall’altro lato infatti troppe persone avevano perso il loro potere d’acquisto. Vi fu quindi una forte concentrazione di industrie, con le più grandi che potevano dettare i prezzi per ottenere materie prime e crediti; inoltre emisero una moneta privata di emergenza che sempre più sostituiva il marco ufficiale. Alcune di queste combinazioni industriali si rivelarono efficienti e razionali, ma molte altre erano solo operazioni speculative. Una nuova generazione di finanzieri venne alla luce. Prima, i grandi leader industriali tedeschi come Krupp e Thyssen avevano sviluppato nuove idee in tecnologie ed in organizzazione. Ma adesso le stelle nascenti erano i manipolatori e gli speculatori che saltavano velocemente da un affare all’altro, da un azienda all’altra. Il maggior successo lo ebbero quelli che capirono le cose in anticipo, e si indebitarono per comprare merci, azioni, aziende. Il più grande operatore dell’epoca, Hugo Stinnes , formò un conglomerato gigante con aziende petrolifere, carbonifere, acciaierie, navi, elettricità, asssicurazioni, giornali ed hotels. Morì nel 1924, appena prima di vedere il suo impero cadere nel periodo della stabilizzazione successiva. La maggior parte di queste conglomerate erano bolle speculative capaci di sopravvivere solo finchè durò l’inlfazione. Vi furono enormi sprechi e gran parte dei nuovi impianti si rivelarono inutili o inefficienti. Gli intermediari si moltiplicarono come le locuste,e sempre più tempo ed energia andarono in speculazioni generate dalle fluttuazioni valutarie, dalle nuove regolamentazioni fiscali e dalle dispute sul lavoro. Le banche si moltiplicarono passando da 100 mila dipendenti nel 1913 a 375mila nel 1923. il lavoro divenne meno produttivo, perchè i lvoratori erano preoccupati dai propri problemi, cercavano dii ottenere aumenti , e in genere di sopravvivere all’inflazione. Poiché i salari nominali crescevano nella fase di piena occupazione, vi fu meno incentivo ad impegnarsi. Insomma, nonostante paresse un boom, la produzione netta era in realtà molto meno di quella ante guerra.
Alla fine, comunque, negli ultimi stadi dell’iperinflazione, l’economia iniziò a collassare: i dettaglianti non potevano avere le merci o non riuscivano a venderle con profitto, molti degli investimenti si rivelarono privi di valore, la gran parte delle concentrazioni entrò in cirsi. Il capitale fu dissipato, rendendo molto difficile un processo di razionalizzazione e ricostruzione economica. Nella prossima parte vedremo come avvenne il miracolo della stabilizzazione monetaria, la nuova banca centrale e la nuova moneta. E vredremo anche gli effetti dell’iperinflazione per singolo strumento di investimento (azioni, obbligazioni, etc.).
La stabilizzazione- il miracolo del Rentenmark
Nel novembre del 1923 si corse ai ripari riformando la moneta. Una nuova banca centrale fu creata, la Rentenbank, e questa emise una nuova moneta , il rentenmark. Questa moneta era scambiabile con titoli rappresentativi di terra e impianti industriali, una sorta di convertibilità in beni reali esistenti. Ne furono stampati 2,4 miliardi ed ogni rentenmark valeva un trilione dei vecchi marchi . Da quel momento la svalutazione si fermò e l’inflazione cessò. Quale fu il segreto di questo miracolo? Dopo tutto, la nuova moneta non era realmente convertibile, si trattava di una finzione perché spezzettare la proprietà terriera e distribuirla a fronte di ogni unità monetatria, era solo teoria irrealizzabile in pratica. Inoltre il governo avrebbe dovuto distribuire una grande quantità, di assets reali pari a 2,4 miliardi di trilioni dei vecchi marchi. Non avrebbe dovuto quindi continuare l’inflazione? Per capire, occorre ricordare che il valore in termini reali della moneta circolante a fine 1923 era poco, circa 168 milioni di marchi-oro ante guera. La continua perdita di valore era dovuta alla mancanza di fiducia, alla convinzione cioè che le presse avrebbero stampato all’infinito. Ma in realtà vi era carenza e bisogno di moneta. La nuova moneta poteva essere introdotta senza inflazione solo se la gente avesse avuto fiducia in lei. Come fece a svilupparsi questa fiducia? Primo, il governo annunciò che si impegnava a mantenerla stabile in valore, e la gente, che ne aveva bisogno , provò a crederci almeno fino a prova contraria. Inoltre il fatto che fosse rappresentativa di assets reali, le conferì l’aspetto di moneta reale. Certo, gli assegnati della rivoluzione francese erano stati anch’essi presentati nello stesso modo e ciò non ne impedì la svalutazione, ma in questo caso la gente voleva aver fiducia. Secondo, e certamente la cosa più importante, il governo limitò rigorosamente la quantità di rentenmark emettibili e bloccò l’emissione di ogni altra forma assimilabile di moneta. Infine, dopo l’aprile 1924, la banca centrale fermò l’espansione creditizia alle imprese che tanto aveva contribuito a creare inflazione. Le imprese furono tenute a rientrare dei loro debiti pagando in oro, e pertanto ogni incentivo a indebitarsi speculativamente sparì, restò solo la domanda di credito legittima. Nell’agosto del 1924 la riforma fu completata introducendo un nuovo reichsmark uguale in valore al rentenmark, ed il reichsmark era coperto dal 30% in oro, anche se non era convertibile direttamente ed il governo aveva capito che doveva supportarlo comprandolo sul mercato dei cambi quando necessario. Furono imposte nuove tasse, in misura anche drastica, e con la coeva scomparsa del’inflazione le entrate fiscali aumentarono rapidamente fino ad avere un avanzo di bilancio già a inizio 1925. Dopo la stabilizzazione la maggioranza delle aziende scoprì di essere a corto di capitale circolante, perché i loro fondi erano stati dissipati e /o convertiti in merci ed impianti, e non potevano più contare sul capitale di azionisti e obbligazionisti; le tasse divennero un peso serio, così come i salari che erano stati alzati durante l’iperinflazione. Per cui il clima degli affari cambiò, anche per altre vie. Adesso vi era domanda di beni di consumo, ma le enormi scorte di carbone e altri materiali accumulati nella fase precedente pesavano sul mercato. Però agricoltura e costruzioni tornarono a fiorire. Molti dei conglomerati speculativi fallirono, o furono divisi tornando alla configurazione originale. Nel 1923 vi erano state solo 263 bancarotte, nel 1924 diventarono 6033. La maggior parte degli speculatori fuorno rovinati o uscirono di scena. Invece le aziende forti e ben organizzate come Krupp e Thyssen che avevano resistito alla tentazione di sovraespandersi e di speculare, furono in grado di sopportare il periodo di stabilizzazione.
Effetti dell’iperinflazione
E’ importante iniziare comprendendo quanto difficile fu ricavare un reddito in termini reali durante l’iperinflazione. I professionisti, i lavoratori qualificati e altri, abituati ad avere buoni redditi trovarono che i loro salari reali erano stati tagliati disastrosamente. Coloro che dipendevano da pensioni, risparmi o reddito fisso, incorsero in una situazione ancora più terribile.Gli interessi da obbligazioni o depositi a risparmio, sparirono subito in termini reali. Le azioni pagavano dividendi minimi o nessuno perché le aziende usavano ogni fondo disponibile per speculare o aumentare il capitale circolante. I proprietari terrieri non si trovarono meglio perché il governo bloccò le rendite , il che signficava che chi affittava i loro terreni e le loro case lo faceva gratuitamente in pratica, ma a sua volta aveva gli enormi problemi di sopravvivenza che abbiamo vsto.
In generale, la liquidità, le obbligazioni e anche le azioni si rivelarono fonti di perdite . L’urgente bisogno di reddito per sopravvivere ebbe importanti effetti sui vari tipi di investimenti, vediamoli.
Contanti: Ovvio, divennero privi di valore.
Depositi bancari: in teoria privi di valore come il contante. Però dopo la stabilizzazione il governo decretò un rimborso parziale nella misura del 15-30% del deposito originale. Naturalmente poiché la gran maggioranza aveva ritirato i soldi durante l’iperinflazione, questa misura era più scena che altro, pochissimi tedeschi mantennero i depositi durante tutto il periodo.
Obbligazioni e cartelle: Come sempre in questi casi persero valore ancora più velocemente dei contanti, ma anche qui dopo la stabilizzazione vi furono alcuni rimborsi parziali: il 2,5% del valore originario, mentre una legge del 1925 diede tra il 15 ed il 25% di rimborso ai detentori di obbligazioni societarie, ma il pagamento fu dilazionato in alcuni anni. Anche in questo caso comunque non erano molti quelli che se li erano tenuti.
Immobili e terreni: agricoltori e proprietari di immobili sembrò che beneficiassero soprattuttto se avevano dei mutui, perché l’inflazione cancellò il peso reale di questi ultimi. Però non ebbero alcun reddito, come ricordato sopra, perché rendite ed affitti furono congelati. Dopo la stabilizzazione, le nuove tasse pesanti e il bisogno urgente di soldi forzò la maggior parte di loro a rifinanziare le proprietà, spesso a condizioni peggiori di quelle originarie, così che in parte i guadagni furono persi. Inoltre, coloro che avevano proprietà ma per bisogno di soldi si erano trovati a vendere avevano spuntato prezzi bassi in termini reali, perché le proprietà non rendevano.
Cambi e oro: chi deteneva dollari, sterline o altre valute stabili, così come chi aveva oro, si salvò. Il governo durante l’iperinflazione aveva vietato i cambi, ma come sempre in questi casi era fiorito il mercato nero. I vincitori in assoluto fuorno coloro , una piccola minoranza, che aveva venduto fin dall’inizio marchi e acquistato valuta estera oppure oro, prima cioè che le leggi restrittive rendessero l’operazione difficile, e prima che il marco perdesse troppo.
Proprietà personali: risucirono anche a difendere i propri soldi coloro che fin dall’inizio avevano comprato oggetti di valore, come monete rare, francobolli rari, gioielli, quadri di valore, antichità, oppure merci durature come pellicce, etc. naturalmente la maggioranza non capì il vantaggio fino a che l’iperinflazione non divenne clamorosa, e non era facile tramutarli in soldi quando servivano.
Azioni: Nell’inflazione, le azioni sono in genere considerate un bene rifugio, in grado di essere facilmente speculato. In pratica non è così semplice. I prezzi azionari sono spesso caduti violentemente proprio quando l’inflazione è divenuto un problema per l’andamento economico delle società. Inoltre le fluttuazioni fanno sì che facilmente si scelga il momento sbagliato per comprare o vendere, o finire nelle azioni sbgliate.
In genere dall’esperienza tedesca possiamo ricavare che chi ha comprato un pacchetto ben diversificato di azioni solide, cioè di società ben salde, prima che scoppiasse l’inflazione; e chi le ha tenute lungo tutto il periodo compreso quello della stabilizzazione, è riuscito a difendere il proprio capitale. Ma, vi furono parecchie trappole lungo il percorso sempre costellato da momenti di avidità o di paura; se la cavarono quelli non emotivi che avevano fiducia nelle società prescelte e che non seguirono le fluttuazioni immunizzandosi dall’eccitazione, dall’ansietà e dalle tentazioni speculative. Infatti molti seguirono i repentini rialzi o crolli del mercato cercando di specularvi, e alla fine ci rimisero, come ci avevano rimesso i loro colleghi speculatori in beni reali. D’altrone mentre l’intera economia e struttura finanziaria stava collassando, chi poteva avere la pazienza di aspettare fiducioso il futuro?

Potrebbe succedere di nuovo?
Negli USA si sono precostituite le condizioni che potrebbero portare ad un iperinflazione. Innazitutto la stampa di moneta, che sta accelerando visibilmente . Inoltre il fatto che tutte le categorie del paese sono piene di debiti, ed hanno un fortissimo incentivo a vederseli svuotare di valore; è diffuso in tutta la società americana, esattamente come accadde in Germania, dove i più la vedevano con favore. Non a caso è stata scatenata una campagna contro la deflazione. Non a caso la gente corre a comprare case e terreni (+20% nell’ultimo anno), o azioni (considerate un bene rifugio per ora) o materie prime. Certo poi ci dicono che l’inflazione senza tenere conto delle case, delle azioni, delle materie prime, del petrolio e degli alimentari, è al minimo dell’1%. Peccato che ciò sia dovuto, a una media statistica tra i prezzi dei servizi che salgono in molti casi del 5% e passa all’anno, e quella dei prodotti manufatti che sotto l’incalzare della concorrenza asiatica scendono. Ma ciò consente a Greenspan di dire, come i tedeschi dell’epoca, che non ci sono problemi di eccesso di moneta perché i prezzi crescono meno; e poi dirà che ce ne vorrà altra di moneta, quando i prezzi inzieranno a salire più di quest’ultima (come in parte avviene già per case, azioni, etc.) Infine, il governo ha lanciato una campagna bellica pluriennale che rende necessario trovare una fonte di finanziamento enorme. Certo potrebbe aumentare le tasse, ma il solo dirlo pare già ridicolo, non lo farà mai almeno con questa Aministrazione e dunque per almeno i prossimi 5 anni se Bush sarà rieletto. Molto più facile stampare dollari.
Naturalmente manca la condizione essenziale per scatenare l’iperinflazione. La perdita di fiducia nel dollaro. A tutt’oggi, gli americani hanno fiducia nel dollaro e nei propri governanti. Di fronte a situazioni di disastro finanziario come quello in california, arrivano a eleggere un attore, la politica spettacolo li galvanizza e li fa correre numerosi alle urne. Vuol dire che ancora hanno fiducia, pur nei limiti intellettuali che questo popolo mostra ogni giorno che passa,e credono sia un gioco a lieto fine comunque vadano le cose. Ma ha fiducia anche il resto del mondo che continua ad accumulare dollari in cambio delle propie merci. Credono al momento che questo sia il minore dei mali, che sia ancora nel loro interesse. Fino a quando, i cittadini americani e l’estero continueranno ad avere fiducia nonostante vedano le presse di fort knox stampare sempre più pezzi di carta verdi? Nessuno può dirlo, perché abbiamo a che fare con la psicologia delle masse. Anche in Germania fino all’ultimo avevano resistito, ma appunto l’esperienza storica mostra che poi arriva il giorno fatale. A meno ovviamente che non ci si fermi in tempo. Secondo i benpensanti ci si fermerà non appena sarà ripartita l’economia e l’occupazione; non hanno capito che in breve tempo dopo un eventuale restrizione creditizia il paese sprofonderebbe in recessione perché ha accumulato troppi debiti; pertanto non si fermeranno in tempo.
Dopo la fase iperinflazionistica, il dollaro scomparirà dalla scena; può darsi che si seguirà la strada tedesca (nuova banca centrale, nuova moneta ancorata a beni reali) o può darsi che date le dimensioni, si arrivi a più monete federali (già oggi i singoli Stati hanno molte autonomie fiscali), perché più facilmente controllabili dai cittadini com’era in Europa prima dell’euro. A proposito e L’europa? L’inflazione vera (loro la chiamano “percepita”) è già al 6%, ma il rischio di iperinflazione al momento non esiste perché il controllo della moneta è saldamente in mani tedesche, la cui memoria appunto garantisce che difficilmente si possa ricadere nello stesso errore. Purtroppo però l’Europa dovrà subire le conseguenze del disastro americano, cioè meno esportazioni che si sommeranno alla sempre maggiore concorrenza asiatica e alle reazioni vetero-protezioniste che ciò provoca, e alla minor crescita interna per le note cause che l’affliggono (cioè vecchiaia, rigidità, etc.) fra cui non ultima proprio la contraddizione di avere una moneta unica a fronte di tanti diversi governi politici (pur colonie dell’asse franco-tedesco come si evince dal trattato costituzionale). Dunque tendenze deflazionistiche, accentuate proprio dall’iperinflazione americana che provocando una rivalutazione forzata dell’euro abbasserà i prezzi delle importazioni. Ma la situazione odierna merita un approfondimento.













Parte terza: per una critica del Fed-pensiero


10-Inflazione odierna

Nel passato, la gran parte del commercio si svolgeva usando l’oro , e l’argento,
come moneta; ma quando divenne internazionale, questo sistema aveva
un inconveniente: se uno trasportava l’oro per pagare in una nave e
la nave affondava , non solo perdeva tutto, bensì creava deflazione
(perché si riduceva la moneta esistente, almeno fino a quando non
veniva riprodotta dalle miniere).
Così invece di trasportare fisicamente l’oro, si inventarono le
lettere di credito: pezzi di carta in cui veniva detto che l’oro si
trovava fisicamente a Venezia- ad esempio- e veniva accreditato sul
conto del beneficiario. E se la nave affondava, si emetteva una
nuova lettera: iniziarono così a fiorire le banche seguite dalle
banche centrali, con l’avvento delle quali, le nazioni iniziarono a
sognare di poter controllare il ciclo economico. Gli uomini sono la
sola specie dotata di logica razionale, capace però di essere
sovrastata dagli estremi emotivi, da cui conseguono le fasi di
euforia e di panico. La società umana, come un azienda farmaceutica
che cerca la pillola per curare il paziente, ha iniziato allora a
fare esperimenti con la droga delle banche centrali nel tentativo di
controllare gli estremi: poiché molte fasi depressive e di panico si
sono accompagnate a fluttuazioni delle valute e della liquidità, si
è pensato che le banche centrali potessero prevenirle se non proprio
curarle. Durante l’800 ad esempio gli USA hanno vissuto vari cicli
estremi, e mentre ciascuno era diverso dagli altri, gli economisti
dell’epoca identificarono un ingrediente comune: la mancanza o
l’eccesso di moneta. I casi di panico più esemplari si sono avuti
nel ciclo dei raccolti agricoli, e la stagionalità rimane un fattore
cui si appella anche oggi Wall Street il cui folclore sostiene che i
due periodi dell’anno in cui è probabile vedere un minimo sono
Aprile/Maggio e Settembre/Ottobre. Il panico del 1907, forse uno dei
peggiori nella storia americana, ha alcune radici nel ciclo
agricolo, ed è stato uno dei motivi principali per i quali fu creata
la FED: in quel caso infatti fu un banchiere privato, Morgan , a
intervenire; il Congresso allora decise di costruire una vera banca
centrale, e sei anni dopo nacque la Riserva federale, che fin dalla
nascita ebbe l’incarico di evitare le crisi. Ma poco dopo iniziò la
prima guerra mondiale, e la Fed in reazione creò le basi per il
famoso boom degli anni 20 poi sfociato nella grande depressione. La
fed non è la sola banca centrale accusata di fare più danno che
bene. Il famoso “schema del missisipi” inventato da John Law per
spingere l’economia francese durante il 700 causò un disastro e
portò alla rivoluzione. Gli sforzi della Reichsbank per stimolare
l’economia tedesca subito dopo la fine della prima guerra mondiale
portarono alla più grande inflazione della storia che,come visto, distrusse la classe media
tedesca e portò al nazismo.
E’ ironico che molte delle disastrose conseguenze provocate dagli
sforzi delle banche centrali sono il frutto della loro volontà di
spingere l’economia. Per millenni, espansioni e contrazioni sono
state viste come conseguenze naturali, come la nascita e la morte:
vi sono state recessioni fin dai tempi dei persiani; l’umanità ha
sempre accettato le stagioni ed i cicli agricoli, inizialmente
giustificati anche teologicamente, pur cercando di allontanare le
fasi negative con celebrazioni anche sacrificali. Alla fine la
maggior parte delle società ha optato semplicemente per misurare e
pianificare tali fluttuazioni piuttosto che pretendere di
eliminarle. Le banche centrali hanno dato agli economisti e ai
governanti la speranza che almeno un ciclo- quello economico –poteva
essere gestito, e ciò perché loro manipolano la quantità di moneta e
i tassi d’interesse, e possono influenzare la psicologia inflativa e
deflativa . Con tutto questo in mente, concentriamoci sul problema dell’inflazione.
Da quando Volcker divenne presidente della FED venti anni fa, l’inflazione ha teso costantemente a scendere, ma attenzione : per inflazione si intende comunemente quella dei beni al consumo, e per questi l’affermazione è vera. Completamente diversa è la situazione se ci riferiamo all’inflazione degli assets (immobili, azioni, antichità, dipinti, etc.).Per quanto concerne l’inflazione dei beni al consumo, investitori ed analisti oggi si aspettano che la tendenza al ribasso continui, dato l’eccesso di offerta sulla domanda in molte parti del mondo. Tanto è vero che oggi si teme più per per la crescita che per l’inflazione, quando si ipotizzano prezzi del petrolio al rialzo( motivo per cui le obbligazioni addirittura recuperano quando il petrolio sale; tutti assumono che le imprese non avranno la forza di traslare in maggiori prezzi i costi più alti derivanti dal petrolio, e che quindi accettino profitti più bassi). Ma questa argomentazione potrebbe scemare fra un po’, se il collo di bottiglia che si osserva nel mercato del lavoro , sorpassa la sovrapproduzione (durante gli anni 70 avveniva l’opposto, cioè alta inflazione e alta disoccupazione, a quel tempo la capacità produttiva era il collo di bottiglia). Se dunque il collo di bottiglia dell’occupazione disponibile diventerà il principale, vi potrà essere una pressione rialzista sui prezzi, il che indurrà le autorità a stringere la politica monetaria, e quindi a colpire l’inflazione degli assets che ha caratterizzato l’ultimo ventennio, conducendo a bruschi movimenti nei prezzi mobiliari e immobiliari. Ma facciamo chiarezza.
Il retroterra dell’inflazione degli attivi(assets)
Negli ultimi 20 anni vi è stato un cambiamento fondamentale nel mondo occidentale che va sotto il nome di Supply shock, cioè una scossa all’offerta. Per capire cosa è successo, è importante ricordare che dopo la seconda guerra mondiale le autorità sistematicamente stimolavano l’economia dando impulsi addizionali alla domanda, innanzitutto con l’aumento della spesa pubblica, il che ha causato l’espansione dei deficit pubblici fino al punto che il fabbisogno finanziario degli stati ha spinto al rialzo i tassi d’interesse nel mercato dei capitali, che a sua volta ha agito in senso depressivo sull’economia. In pratica lo stimolo espansivo della spesa pubblica veniva annullato da quello depressivo del costo del denaro. Le Banche centrali hanno reagito pompando più liquidità nei sistemi per tenere giù i tassi d’interesse; ma l’eccesso di offerta monetaria si riversava sul mercato dei beni e servizi aumentando l’inflazione. Il che non poteva essere sostenibile, perché per reagire all’inflazione occorreva alzare i tassi, sacrificando la crescita al contenimento dell’inflazione. Una volta che quest’ultima veniva frenata si ripartiva con lo stimolo all’economia agendo sulla domanda, e così via, in una serie di cicli, al termine dei quali divenne chiaro che l’inflazione iniziava a salire in una fase sempre più anticipata rispetto all’inizio del ciclo.Cioè l’inflazione iniziava a salire anche in presenza di alta disoccupazione. Questo perché le imprese, avendo sperimentato diversi cicli, non avevano più alcuna sicurezza di quale sarebbe stato il futuro economico.
In questa situazione divenne sempre più difficile valutare se gli investimenti avrebbero potuto essere recuperati e in che tempi. Comprensibilmente, quindi, poiché l’inflazione restava alta, gli investimenti si ridussero. Volcker capì che questa situazione era disastrosa per l’economia nel lungo termine, per cui la lotta all’inflazione divenne la priorità principale durante il suo mandato, e fu fatta non solo riducendo l’offerta di moneta, ma anche riformando il sistema fiscale in modo da incoraggiare gli investimenti e scoraggiare i consumi. Dopodichè si cercò di eliminare il deficit pubblico, in modo da liberare capitali per gli investimenti. Come risultato di questi cambiamenti, l’equilibrio tra domanda e offerta si è spostato notevolmente a favore dell’offerta. Inoltre dal 1990 un certo numero di sviluppi hanno rinforzato massicciamente questa maggior crescita dell’offerta rispetto alla domanda:
dopo la caduta del comunismo, è divenuto improvvisamente possibile combinare tecnologie occidentali con forza lavoro a basso costo dei paesi emergenti; infatti quasi tutta la produzione in questi paesi è stata destinata all’esportazione e non al consumo interno:le nazioni industrializzate (soprattutto gli USA) si sono trovate così di fronte a un enorme offerta addizionale di beni importati.
Vi è stata l’esplosione dei microchip, che ha dato una forte spinta alle nuove tecnologie computerizzate, le quali hanno permesso alle imprese di produrre sempre di più a parità di occupati. Allo stesso tempo i prezzi di queste nuove tecnologie sono scesi. Comprensibilmente , allora, le imprese hanno aumentato gli investimenti. Questo sviluppo da sé ha causato un grosso spostamento dalla domanda (occupazione) all’offerta(investimenti). Insomma un effetto indesiderato dell’introduzione di nuove tecnologie è stato un aumento della capacità produttiva.
A causa dell’invecchiamento della popolazione, i sistemi previdenziali sono entrati in crisi (sempre più gente inattiva doveva essere mantenuta da sempre meno gente attiva). Per questo motivo i governi hanno incoraggiato i cittadini a risparmiare di più a fini previdenziali, il che ha portato a un enorme incremento nei risparmi finanziari disponibili nel mondo, e poiché gli investimenti devono essere finanziati dai risparmi, questo processo ha portato a un ulteriore stimolo agli investimenti (anche perché nel frattempo i deficit pubblici si riducevano).
In breve, nelle ultime due decadi sono successe un numero di cose per cui l’offerta è cresciuta molto più della domanda. Mentre negli anni 60 e 70 la domanda cresceva di più (e produceva inflazione) negli anni 80 e 90 il pendolo è passato dall’altra parte, per cui l’inflazione non ha fatto altro che declinare. In realtà, nel settore delle merci, dall’inizio degli anni 90 si è iniziata a manifestare una tendenza deflazionistica, divenuta più acuta durante la crisi asiatica del 1997 ed ora dopo l’11 settembre.
Occorre ricordarsi che le banche centrali sono preoccupate sia dalla deflazione che dall’inflazione, perché in tempi di deflazione il peso dei debiti aumenta e conusmatori ed imprese sono spinti a posticipare i loro acquisti; ecco perché le banche centrali sempre pompano moneta nel sistema quando avvertono pericolo di deflazione: sperano così di stimolare la domanda, e contrastare il calo dei prezzi.
Questo è quello che ha fatto Greenspan nella seconda metà degli anni 90, soprattutto dopo il 1997; ma non è facile ottenere risultati:
il cambiamento tecnologico è stato così veloce che molte imprese si sono sentite spinte a investire pesantemente nelle nuove tecnologie, creando così tanta nuova capacità produtiva che ha continuato a mantenere l’offerta sempre sopra la domanda;
in base ai libri di testo, la crescita della moneta porta all’inflazione perché si dà per scontato che la moneta in eccesso finisce nell’acquisto di beni e servizi; ma in pratica la situazione si è rivelata molto più complessa. Nelle circostanze sopramenzionate, la gran parte della nuova liquidità non è finita nei beni e servizi, bensì negli assets, in primis le azioni. Questo perché vi era la convinzione che maggiori investimenti avrebbero portato a più produzione e quindi a profitti crescenti: comprare azioni diveniva il modo migliore per beneficiarne. Ma così è successo che i prezzi delle azioni sono saliti ben al di sopra dei valori effettivi, creando una situazione dove per ogni dollaro investito le imprese potevano ricavarne molti di più grazie ai mercati azionari (vedasi l’esplosione delle IPO, le quotazioni di nuove società). Poca sorpresa, dunque, che le imprese abbiano investito pesantemente, ma cosa ha significato tutto ciò macroeconomicamente? Che il pompaggio di moneta invece che ridurre lo squilibrio tra offerta e domanda, stimolando la seconda, ha finito per aumentarlo, stimolando ancor di più la prima. In altre parole, la deflazione si e rivelata più difficile da combattere di quanto si pensasse prima. E Greenspan ha reagito, pompando ancora più moneta , esacerbando la situazione, creando fra le altre la bolla immobiliare.
L’entusiamo maniacale per gli immobili – il famoso “housing boom” stimolato dal credito facile su entrambe le sponde dell’Atlantico – ha un’altra faccia, molto più scura. Insieme al boom dell’ edilizia residenziale, si sta verificando infatti uno “sboom” in quella non residenziale. Negli USA, ad esempio, gli uffici vuoti hanno raggiunto il 16-22% nei distretti metropolitani chiave come Miami, Los Angeles, Atlanta, Dallas, e Boston. Nel distretto dei tecnologici i cartelli “for rent” (affittasi) appaiono in circa un terzo degli edifici esistenti. Ma questa anomalìa è solo una manifestazione di quella che mi piace definire l’ economia di JANUS .
Janus era il dio romano dei cancelli e delle porte, di ciò che inizia e ciò che finisce, rappresentato da una testa con due facce, ognuna delle quali guarda in direzioni opposte. Janus era adorato a Roma, all’inizio del periodo dei raccolti, della semina, dei matrimoni, delle nascite ed altri tipi di inizi, specialmente agli inizi di eventi importanti nella vita di una persona.
I G7 & company ci dicono che dobbiamo celebrare l’inizio di anni futuri di crescita prolifica delle economie. Con una faccia che guarda indietro al fallimento dell’allocazione dei capitali durante la new economy e l’altra che guarda verso l’incertezza derivante dall’eccesso di debiti esistente nel mondo, Janus si meraviglierebbe di tutto questo ottimismo.

Da qualche tempo le economie sono alle prese con i diavoli gemelli della deflazione e dell’inflazione. La deflazione è rappresentata dal collasso nel settore dell’ information technology; l’inflazione è il risultato dello sforzo coordinato dei banchieri centrali che provano a evitare una crisi economica oggi, anche a costo di averne una molto peggiore domani.La tecnologia ha subìto il più grosso sboom della storia, ad esempio, con i settori delle reti di collegamento (netwoking) collassato del 77%, e delle telecomuinicazioni del 68%; ma contemporaneamente l’inflazione degli assets ha provocato rialzi straordinari ad esempio nel settore della salute (+185%) e delle costruzioni edili (+190%), senza considerare il caso a sé stante della difesa militare (+245%).
A cosa conduce tutto ciò?
Si pensa che il solo modo per tirarsi fuori dai guai sia creare inflazione, un fenomeno monetario, puro e semplice. Se alle persone viene data più moneta da spendere, esse la spenderanno: o in beni e servizi, o in assets (case, azioni, etc.); nella misura in cui l’offerta non è in grado di soddisfare la domanda addizionale che da ciò deriva, i prezzi saliranno. Ma il cambiamento nei prezzi non sarà mai omogeneo. Se lo fosse, vi potrebbe essere una pur minima speranza di ricavarne qualche beneficio. Invece, quando la moneta addizionale creata inizia ad entrare in circolo, inizia ad alterare in modo significativo le convenienze attraverso i vari comparti dell’economia, e quindi influenza tutto il modello di sviluppo. Poiché queste influenze sono altamente arbitrarie, di norma è imprevedibile come si evolveranno e quasi sempre danneggiano l’economia nel suo insieme.
Mi spiego meglio:
se un elevata spesa dei consumatori sta tenendo alti i livelli occupazionali e sta spostando risorse energetiche, i materiali da costruzione e ogni altra cosa , l’industria produttiva deve combattere duramente non solo per vendere , ma anche per i mezzi di produzione. Naturalmente questo si verifica sempre, anche quando non c’è inflazione, ma se una quantità extra di moneta viene aggiunta, un cuneo si inserisce tra coloro che creano e coloro che distruggono. Con questa extra moneta le persone aumenteranno alcune spese più di altre – come salute ed energia – e i loro prezzi aumenteranno. I prezzi crescenti in queste aree attrarranno più produzione, così come più credito e capitali per rinforzare i cashflows crescenti. I prodotti con prezzi crescenti tenderanno ad essere offerti anche al di fuori delle industrie preesistenti, aumentando l’espansione della loro base produttiva.
E’ cruciale capire che così come l’eccesso di credito ai produttori può condurre a importanti sprechi di risorse e a specifici eccessi di investimenti (come è successo con la new economy), anche l’eccesso di credito ai consumatori può finire contro il benessere economico, facendo divorziare l’uso del potere d’acquisto dal potere di guadagnare (questo si ottiene quando al consumatore USA si insegna a spendere indipendentemente da quello che guadagna, sfruttando fino all’ultimo cent di credito disponibile). Solo fino a quando i produttori esteri e i loro governi vorranno colmare il buco ( i primi, con ciò che equivale a un vero e proprio finanziamento gratuito; i secondi con ciò che è effettivamente un sussidio all’esportazioni espropriato ai propri consumatori), tutto può sembrare vada bene. Poi gli effetti negativi del tentativo di inflazionare il sistema per uscire fuori dalla spirale deflazionistica, emergono.
Oggi, i produttori di beni di consumo non sono sicuri se passare un aumento dei prezzi dei materiali sui listini finali, a dispetto della esistente crisi deflazionistica.I produttori di acciaio e di prodotti chimici hanno ripetutamente alzato i prezzi dei materiali industriali dopo il declino delle scorte e l’aumento del petrolio; i prezzi dei semiconduttori si sono triplicati, ed anche i prezzi delle fibre e dei materiali per i cristalli liquidi sono saliti. Finora, solo i prezzi dei personal computer, la benzina e qualche altro bene di consumo sono saliti in seguito a ciò, ma gli economisti avvisano che se i prezzi continuano a salire la spesa dei consumatori ne verrà colpita.Per cui, i produttori di beni finiti soffriranno un calo dei profitti se non potranno passare l’amento dei loro costi sui listini finali. Questo dilemma, ha fatto sì che i produttori oppongano resistenza agli aumenti dei prezzi dei loro fornitori; i quali avendo da tempo sofferto di tagli alla produzione e profitti calanti, sono determinati a cercare di recuperare i profitti almeno tenendo fermi i prezzi attuali. Insomma, si creano distorsoni nella distribuzione del reddito e nella struttura dell’economia, che durano anni sia per venire a galla che per poi essere aggiustate.
E’ la maledizione dell’adempimento dei desideri, nella economia di Janus!




11- Bolla immobiliare
Torniamo all’inflazione degli asset,con un caso da manuale.Molto è stato scritto circa una potenziale bolla immobiliare, evidentissima a Londra, ma anche in Italia nelle principali città, e soprattutto negli USA. Si sta sviluppando dopo quella del Nasdaq….in realtà, la caduta delle azioni ha portato molti investitori a spostare capitali sul mercato immobiliare. Il prof. Shille r, autore di Esuberanza Irrazionale, che aveva previsto il crash del Nasdaq un anno prima, ora avvisa che una mania psicologica si sta verificando nel settore immobiliare. Sembra che la drammatica azione di taglio dei tassi ad opera della FED per far riprendere l’economia, stia invece surriscaldando il mercato delle case.
Fissiamo il quadro, con riferimento agli USA perché è il mercato che inevitabilmente condizionerà gli altri, anche per i suoi riflessi macroeconomici.
Il prezzo totale delle case americane era nel 1990 di circa 6,6 trilioni di dollari. Questo valore è cresciuto di un altro trilione nei successivi cinque anni, e dal 1995 ad oggi è esploso a 12 trilioni, con un aumento del 21% negli ultimi due anni.
Gli americani stanno spendendo una quota sempre più grande del loro reddito nelle case: il rapporto del reddito netto rispetto alla valutazione totale dell’immobiliare è ai livelli più alti degli ultimi 50 anni. Il debito ipotecario totale èdi 5,7 trilioni, circa metà del totale del valore di mercato delle case esistenti. Il 60% delle famiglie oggi non è in grado di comprare una casa media, ci vuole circa il doppio del reddito per comprare una casa di quanto ce ne volesse 40 anni fa.
La forza del mercato immobiliare ha dato ai proprietari un senso di rifugio durante le recenti traversie economiche. Ad esempio, il prezzo medio nazionale di una unità monofamiliare usata è ora di 192400 dollari, mentre un anno prima era di 179500. Per le nuove costruzioni il prezzo medio è di 22680 contro i 20500 di dodici mesi prima. Questo aumento ha creato un senso di sicurezza economica, il cosiddetto effetto ricchezza che ha più che compensato la caduta dei corsi azionari.
Vediamo che cosa ha portato alla corsa dei prezzi immobiliari e se è sostenibile.
Il recente calo dei tassi ha abbassato i pagamenti per mutui su una casa media di circa 300 dollari, per cui se una famiglia può permettersi di pagare 1500 dollari mensili di rate ora può comprare più “casa”. I tassi sui mutui sono andati scendendo da 10 anni a questa parte, il che ha favorito la domanda e pertanto i prezzi sono saliti.
Come scritto prima, le persone vedono la casa come un investimento sicuro; molti comprano “casa” per costringersi a risparmiare denaro. Poiché le case sono cresciute di valore, specialmente negli ultimi anni, questo sembra ragionevole al compratore medio; dal momento che per gran parte degli americani, la parte essenziale della loro ricchezza netta e il maggior incremento della medesima proviene dalle loro case, appare sensato che continuino su questa strada.
Anche fattori demografici hanno contribuito all’aumento dei prezzi. Vi sono ancora tante persone che vogliono comprare casa,e nonostante l’edilizia sia cresciuta a ritmi record durante l’ultima recessione, l’offerta di case è ancora storicamente bassa.
Le banche specializzate in mutui ipotecari hanno creato nuove tipologie di prestiti disponibili per gli acquirenti della prima casa e per quelli che hanno storie di problemi creditizi alle spalle. Il numero di coloro che hanno quindi i requisiti per accedere ai prestiti ipotecari è esploso. Queste famiglie comprano case più piccole che costano meno, facendo salire i prezzi nella fascia bassa del mercato così permettendo ai proprietari di vendere tali case guadagnandoci e passare a categorie più elevate. Tutto ciò non è male di per sé, ma indubbiamente spinge a catena i prezzi al rialzo.
Ora io penso che molte di queste cause hanno finito di imprimere i loro effetti rialzisti. I tassi anche se possono ancora scendere di qualcosa, non possono crollare di un altro 2%. Non c’è più molta benzina in questo motore. La demografia, per quanto ancora positiva, mostra un rallentamento e suggerisce che la domanda non sarà più così forte in futuro. Non vi sono nuove classi di potenziali acquirenti all’orizzonte, perché i prestiti sono già stati resi accessibili a chiunque.
Tutto ciò significa che vedremo lo scoppio della bolla tipo Nasdaq?
Non penso esattamente questo, per i seguenti motivi.
Primo, una casa è un asset diverso da un azione tipo Cisco. Si può vivere senza azioni, ma tutti abbiamo bisogno di un tetto sopra la testa. Inoltre un azione può essere sostituita facilmente, senza costi, mentre per le case il discorso è più vischioso. Infine il costo di costruzione di una casa è più facilmente noto a tutti, perciò è difficile che i prezzi possono distaccarsi dalla realtà come avviene per le azioni, di cui nessuno è in grado di valutare il vero valore.Ciò però non significa che i prezzi delle case non possano scendere. Quando e se nel futuro i tassi dovessero salire anche solo del 2-3% potete scommetttere che i prezzi scenderanno, e non è inconcepibile che possano scendere anche del 10-15% o più, come è già successo nel passato del resto. E’ improbabile però che possano dimezzarsi. Ma possono avere raggiunto il top in termini di livello medio, composto: se le case dovessero salire nei prezzi del 7% annuo, in dieci anni si raddoppierebbero, ma poiché i redditi diffcilmente possono crescere più del 3% annuo, questo significa che la porzione di reddito dedicabile alla casa dovrebbe salire del 50% per poter comprare la medesima casa di oggi. Questo sarebbe bello per chi possiede una casa, blocca il suo tasso fisso ipotecario e osserva il proprio reddito salire nel tempo. Ma quando andrà a vendere fra dieci anni, deve trovare una persona disposta a spendere per la sua casa una parte molto maggiore del proprio reddito :se all’attuale proprietario costa il 25% del reddito, l’acquirente futuro dovrebbe spenderne almeno il 37,5%. In media è molto difficile che ciò possa avvenire. Gli americani sono già a un record nella percentuale del reddito spesa per le case, quanto può crescere ancora? E sono anche a un record nei livelli di debiti personali. Penso perciò che gli americani abbiano raggiunto la fine della corsa. La crescita nei prezzi della casa media sarà limitata dalla crescita del reddito nominale nella prossima decade, nel caso migliore. E il fattore chiave nel futuro sarà l’effettiva sostenibilità di quanto richiesto dal mercato.
Mi spiego meglio con un esempio nostrano: a Milano per affittare una casa decente ormai richiedono 20 mila euro all’anno, ma è evidente che per pagarli di affitto, occorre guadagnarne almeno 50 mila netti; per ipotizzare che fra dieci anni la stessa casa sia affittabile a 40 mila euro occorre ritenere realistico che la fascia di inquilini che oggi guadagna 50 mila netti, fra dieci anni ne guadagnerà 100 mila netti; affinchè ciò avvenga vuol dire che i redditi netti debbono raddoppiarsi in dieci anni e quindi crescere del 7% annuo (netti); vi pare mediamente credibile, considerando che sarebbe già fantastico che il Pil crescesse del 2% l’anno in media?
Così quando mi chiedono se è valido comprare una casa oggi come investimento, cosa posso dire? Molto dipende dalle situazioni locali, che non conosco. Le domande da farsi sono: l’occupazione locale è prevista crescere? L’economia della zona circostante è prevista espandersi? La gente in genere tende a venire nella vostra zona o tende a andarsene? Per quanto tempo pensate di voler possedere la casa? Vi sono motivi specifici che possano definire questo acquisto un affare(ad esempio è locata, ma l’inquilino se ne andrà senza farla esplodere)? E così via.
Quello che mi sento di affermare sul piano generale è che non ci si può attendere che il valore cresca del 7-10% l’anno solo perché è una “casa”. Potranno esserci posti dove ciò accadrà, ma saranno eccezioni. Tenete presente che siamo già a un livello di contraddizione tra prezzi delle case e redditi. Questo non significa che non conviene comprare la casa in assoluto, soprattutto se uno non ce l’ha; ma investirci pensando che il valore reale al netto delle spese di manutenzione aumenti signifcativamente, è oggi azzardato.
Per finire, consideriamo anche che la generazione del Baby boom fra pochi anni andrà in pensione, e potrebbe trovarsi nelle condizione di dover vendere le case attuali per spostarsi là dove ritiene opportuno. L’ammontare di case usate sul mercato è probabile che aumenti nei prossimi dieci anni e questo premerà sui prezzi in senso negativo.




12- Greenspan e i mutui
ma cosa dice GREENSPAN A PROPOSITO?

”Lo scorso anno è stato certamente il più memorabile mai sperimentato
dal mercato dei mutui ipotecari”.
Questo ha detto Alan Greenspan in un apposito discorso
sull’argomento , dove il nostro compie un ulteriore salto di qualità
nel suo sport preferito: mettere la testa sotto la sabbia.
Egli celebra infatti l’impatto positivo sull’economia derivato dal
rialzo dei prezzi immobiliari nel 2002(solo quelli residenziali) e
nega che tali aumenti possano creare problemi nel medio termine,
affermando inoltre che il boom è ora terminato ma senza specificare
che cosa ciò potrà comportare per l’economia.
Greenspan ha dato i numeri: non meno che 1,75 trilioni di $ di mutui
sono stati accesi nel 2002; tale cifra è pari al 17% del PIL . Non a
caso il settore immobiliare e dei finanziamenti immobiliari è stato
l’unico ad assumere personale. Dei sopracitati 1,75 trilioni di $ le
famiglie ne hanno speso più del 10% circa 200 miliardi di $, dice
Greenspan. Quanto sia importante questa cifra nel contesto
dell’economia USA, ce lo fa capire il confronto con il megapiano di
stimoli preparato da Bush pari a 700 miliardi in 10 anni: in un solo
anno, il finanziamento ipotecario delle case ha dato l’equivalente di
3 anni del piano Bush .
Ma per cosa è stato usato questo denaro? La Fed dice che circa la metà
(100) è andata in spese per consumi, poi circa 70 miliardi sono
andati a ripagare prestiti precedenti, ed il resto(30) è andato a
ridurre debiti su carte di credito.
Pertanto i proprietari di casa americani sono stati in grado di usare
i mutui a tassi più bassi per ridurre altri debiti, ed inoltre
sostenere il loro tenore di vita. E’ tutto molto bello, peccato che
non possa continuare.
L’ottenimento di cash dal rifinanziamento ipotecario, non è stato il
solo salvagente che ha tenuto a galla l’economia: come dice
greenspan, un supporto ancora più grande è venuto dai capital gains
ottenuti sui 6,4 milioni di case esistenti vendute a prezzi record,
che naturalmente sono stati pagati dai nuovi acquirenti grazie ai
nuovi indebitamenti che hanno fatto. La Fed stima che i mutui sulle
case esistenti hanno raggiunti 600 miliardi di $: sottraendo i
rimborsi effettuati dai venditori, si arriva a un incremento netto di
circa 350 miliardi di $ di nuovi debiti sulle case. I venditori hanno
intascato questa cifra e ne hanno spesa una buona parte.
Ma c’è una terza gamba monetaria riveniente dal boom immobiliare: i
finanziamenti ricevuti dando a garanzia la casa per comprare altre
cose, che Greenspan indica in 130 miliardi di $ altro record assoluto.
Mettendo insieme questi 3 elementi, la Fed calcola che l’ammontare
di capitale estratto dalle case occupate dai proprietari nel 2002, al
netto di tasse e commissioni, sia stato pari a 700miliardi di $; una
cifra enorme che, ripeto, è pari ai 10 anni di stimoli fiscali del
piano Bush, e che invece in un anno solo è entrata nell’economia.
Tutto ciò solleva la domanda: che cosa succederà ai consumi USA
quando i prezzi delle case si fermeranno? Greenspan fa un cenno a
questo pericolo, nel suo tipico greenspanese: un rallentamento avrà
l’effetto possibilmente di ridurre il supporto agli acquisti di beni
e servizi delle famiglie. “Con l’aumento dei prezzi che si sta ora
calmando, e i tassi che non possono più scendere ai ritmi del 2002,
occorre aspettarsi un rallentamento del tasso di espansione dei mutui
ipotecari”.
Ma potrebbe essere peggio di così? I prezzi delle case potrebbero
cadere come quelli delle azioni, lasciando coloro che hanno comprato
con il mercato ai massimi , in perdita? Greenspan dice che è
possibile come successe per un paio di trimestri nel 1990, ma
sostanzialmente nega che possa esservi qualcosa di analogo al mercato
azionario dicendo esplicitamente “ ogni analogia con i prezzi delle
azioni e relative bolle è piuttosto insensata”. Lui giustifica questa
opinione però con argomenti altrettanto insensati. Dice che non c’è
un mercato nazionale delle case, ma piuttosto molti mercati locali,
il che è vero ma cosa c’entra? Dice anche che gli alti costi di
transazione tipici del mercato immobiliare scoraggiano dal
compravendere frenetico tipico delle azioni. Peccato però che proprio
questo si sia verificato, cioè acquisti frenetici, durante gli ultimi
due anni di attività a livelli record.
Il pericolo maggiore visto da Greenspan è che si riduca il livello di
attività nel mercato immobiliare, portando a minori capital gains
sulle case. Semplicemente, non contempla la possibilità che vi
possano essere delle perdite. E invece dovrebbe farlo. Ciò che pare
ignorare è che il boom dei prezzi delle case è stato fomentato dai
tassi d’interesse ultra bassi, e quindi rappresenta un altro esempio
di inflazione degli assets, esattamente come quello che ha
interessato il mercato azionario. Il boom è anche molto più
pericoloso perché è avvenuto durante una fase di economia debole, di
cui a sua volta è stato l’unico sostegno.
Con le azioni ci fu chi guadagnò : quelli che vendettero ai massimi,
senza più rientrarvi; e ci fu chi perse, quelli che comprarono ai
massimi, o che hanno comunque sempre reinvestito i proventi delle
vendite. Lo stesso succederà nel mercato immobiliare.
La bolla immobiliare ha aiutato a contenere
i danni dello scoppio di quella azionaria; ma poiché anche questa è
qualcosa di falso, un altro episodio di illusoria ricchezza generata
dall’inflazione, il suo scoppio a medio termine sarà negativo e da
cosa sarà compensato questa volta?
C’è una simmetria tra boom e sboom: quando i prezzi delle case sono
saliti gli americani hanno venduto a prezzi superiori di quanto
avevano pagato, e non appena i prezzi scenderanno succederà
l’opposto. Se i prezzi immobiliari scendono in termini reali per
alcuni anni, un’altra potente forza negativa colpirà l’economia USA.
La medicina di un eccesso di moneta a basso costo non si potrà più
usare, e gli squilibri peggioreranno. Poiché gli americani
possiedono più case che azioni, il danno sarà di gran lunga
superiore. Greenspan ha creato un’altra bolla: certo non sarà lui a
dirlo, né a riconoscerla, come con le azioni.

13- Altre chicche di Alan
Chi segue l’economia non può perdersi ovviamente i discorsi e gli interventi del banchiere centrale più potente del mondo. Qui presento alcune chicche tratte da questa testimonianza di Greenspan alla Camera , e i miei commenti.
sui debiti delle famiglie:
“Modifiche alla posizione finanziaria delle famiglie negli anni recenti stanno probabilmente influenzando la spesa dei consumatori, almeno in parte. La ricchezza globale delle famiglie rispetto al reddito, è scesa da 6,3 a fine 1999 a circa 5,3 attualmente. Soprattutto il peso del servizio sul debito (pagamento interessi) dell’aggregato famiglie , definito come quota del reddito disponibile, è salito considerevolmente negli anni recenti, tornando al suo massimo storico di metà 1980”
Dunque qualcosa inizia a preoccuparlo; faccio notare come questo squilibrio cammina di pari passo con il dollaro (di cui greenspan non parla) che infatti raggiunse il max. storico proprio nel 1985. Ma proseguiamo nella lettura:
“ Comunque , né la ricchezza né il peso del debito sono distribuiti omogeneamente tra le famiglie. Pertanto gli effetti sui consumi di questi cambiamenti , analogamente non saranno distribuiti omogeneamente. Per esempio, l’aumentato peso del debito appare sproporzionatamente attribuibile alle famiglie con i redditi elevati. Calcoli dello staff della FED suggeriscono che il rapporto tra le passività delle famiglie e il reddito annuo, per il quintile superiore delle famiglie , il quinto cioè con più alto reddito, e che incassano il 44% del reddito nazionale, è salito da 1,1 alla fine del 98 a 1,2 alla fine del 3° trim. 2001.”
Dunque significa che i debiti di questi signori sono 1,2 volte il loro reddito e che lo squilibrio è cresciuto del 10% in meno di 3 anni.
“L’aumento invece per i più bassi 4 quintili è stato solo della metà. Sebbene le famiglie ad alto reddito non dovrebbero sperimentare molta difficoltà nell’onorare i loro debiti, gli altri potrebbero.Ed in effetti difficoltà nel ripagamento sono già in evidente incremento, particolarmente nei mercati dei prestiti al consumo e dei mutui ipotecari. I tassi di delinquenza possono quindi peggiorare per effetto ritardato delle difficoltà finanziarie delle famiglie nei passati due anni. Larghe erosioni, comunque, non sembrano probabili, e i livelli complessivi del debito e dei mancati pagamenti non appaiono- per ora – porre un ostacolo insormontabile ad una moderata crescita dei consumi andando avanti.”
Siamo alle solite: quindi Alan segnala il problema, ma contemporaneamente lo minimizza; inoltre quello che gli interessa è solo l’effetto sui consumi e quindi sulla ripresa, non il fatto che si stia formando una struttura finanziaria squilibrata, che in caso di ripresa forte – come lui vorrebbe – poi dovrebbe affrontare il rialzo nei tassi. Infatti è qui la cogente contraddizione: si cerca la ripresa , anche al prezzo di uno squilibrio debitorio, ma se poi la ripresa dovesse esserci, non può affermarsi perché verrebbe strozzata dal nodo scorsoio dei debiti. Ma proseguiamo:
“ Sebbene gli effetti macroeconomici del peso del debito possono essere limitati, abbiamo già visto significative restrizioni alle spese del quintile superiore, presumibilmente dovute al calo delle quotazioni azionarie. L’effetto del mercato azionario sul comportamento di spesa degli altri quintili di famiglie è stato meno evidente. Le famiglie con redditi moderati hanno una maggior quota dei propri assets in case, e il continuo crescere dei prezzi delle case ha fornito un sostegno notevole. Riflettendo queste diffferenze nella composizione del portafoglio, la ricchezza netta del quintile superiore è scesa molto di più che quella del restante 80% delle famiglie. Ne è conseguito, escludendo le perdite o i guadagni in c/capitale così come si fa nelle statistiche sul reddito nazionale, un risparmio personale positivo per il quintile superiore nel 2001, mentre era stato negativo dal 1999. Per contro, il tasso medio di risparmio per gli altri 4 quintili delle famiglie, che era generalmente positivo durante la seconda metà degli anni 90, ha iniziato a fluttuare restringendosi negli ultimi 2 anni. In definitiva, la maggior parte dei cambiamenti nelle spese per consumi che erano risultati dal mercato azionario al rialzo, e dal suo successivo calo, hanno riflesso gli spostamenti nella spesa delle sole famiglie ad alto reddito. Gli effetti restrittivi derivanti dal declino netto nella ricchezza durante gli ultimi due anni, presumibilmente non hanno, non ancora, espresso pienamente la loro potenzialità, e potrebbero esercitare alcuni ulteriori effetti negativi sulla crescita complessiva dei consumi delle famiglie relativamente al reddito”.
In sintesi Greenspan ci dice: è vero vi è un deterioramento nella situazione finanziaria delle famiglie,per cui i consumi potrebbero risentirne; ma ciò concerne solo il 20% delle medesime, quelle a reddito più elevato (il 20% ha il 44% del reddito nazionale), perché le altre sentono di più l’effetto del valore delle case (e se i prezzi dellle case scendessero?); come al solito lo preoccupa di più il possibile effetto negativo derivante dal calo della Borsa, piuttosto che quello del debito, anche se non può fare a meno di osservare che c’è un incremento nel tasso di delinquenza sul ripagamento dei debiti e degli interessi.
Concludo osservando: 1) ne parla, ed è già qualcosa. 2) lo fa però in modo indiretto , per gli effetti che questa situazione potrebbe avere sui consumi; non si pone invece il problema strutturale, almeno non qui. 3) dimostra sempre la sua spiccata vocazione a far salire la Borsa, perché la vede come il deus-ex machina che trascina l’economia; così insiste nell’assecondare il perverso ribaltamento concettuale tra borsa ed economia: non più la prima come riflesso della seconda, bensì il contrario.
Sul caso Enron
Dopo avere magnificato le meraviglie dell’informazione in tempo reale che le nuove tecnologie consentono, ed aver difeso a spada tratta lo strumento finanziario dei derivati, dice:
“ Le molte tecnologie che paiono essere la causa principale della aumentata flessibilità e resistenza dell’economia, possono anche produrre forme di vulnerabilità che possono intensificare o essere intensificate da un ciclo economico. La sempre crescente proporzione del PIL che rappresenta beni immateriali distinti dal valore aggiunto fisico, può effettivamente avere diminuito la volatilità ciclica. In particolare, il fatto che i concetti non possono essere tenuti come scorte significa che una parte più grande del PIL non è soggetta alle dinamiche tipiche che amplificano i cambiamenti ciclici. Ma un economia in cui i concetti formano un importante quota del valore ha la sua propria vulnerabilità. Come i recenti eventi riguardanti Enron hanno messo in luce, un impresa è intrinsecamente fragile se il suo valore aggiunto emana dai suoi assets immateriali piuttosto che da quelli fisici. Un asset fisico, sia una costruzione di uffici o un impianto per l’assemblaggio di prodotti, ha la capacità di produrre beni anche se la reputazione dell’impresa si oscura. La rapidità del declino di Enron è un illustrazione della vulnerabilità di un impresa il cui valore di mercato si fonda essenzialmente sulla capitalizzazione della sua reputazione. Gli asset materiali di una simile azienda concernono una piccola proporzione del suo valore. Ma fiducia e reputazione possono svanire in una notte, un impianto produttivo no.
Le implicazioni di una simile perdita di fiducia per la macroeconomia dipendono soprattutto da come liberamente il capitale immateriale dell’impresa in caduta, possa essere rimpiazzato da un competitore o da un nuovo entrante nell’industria. Perfino se il subentrare è relativamente libero, rischi macroeconomici possono emergere se i problemi di una particolare impresa tendono a rendere gli investitori e le controparti incerti circa le altre imprese che essi vedono come potenzialmente simili. La difficoltà di valutare le imprese concerne primariamente proprio i beni immateriali, e la crescente dimensione ed importanza di queste imprese può rendere la economia più sensibile a questo tipo di contagio.”
Quindi Grennspan pur concedendo che possono esserci dei problemi all’orizzonte, non considera il caso Enron come un esempio di frode, o di pratiche contabili ad arte organizzate per truffare gli investitori, ma solo un caso di difficoltà oggettive nella valutazione di beni “immateriali” quali la reputazione. Infatti poi a domande specifiche dei deputati, ha risposto dicendo che ritiene il sistema contabile americano di gran lunga il migliore nel mondo, anche se pur sempre perfettibile come qualsiasi cosa, ed ha invitato alla cautela facendo capire che teme l’introduzione di norme più severe, perché evidentemente potrebbero danneggiare la borsa , cui sappiamo quanto tiene.
Infatti conclude l’argomento così:
“Sebbene i timori di effetti leva sono stati principalmente confinati a settori specifici negli anni recenti, preoccupazioni su potenziali problemi sistemici risultanti dalla vasta espansione dei derivati sono riemersi dopo il caso Enron. Certo, imprese come Enron e LTCM prima di lei, erano attori primari sul mercato dei derivati. Ma i loro problemi sono riconducibili a un eccesso di debito vecchio stile, comunque acquisito, così come a una contabilità opaca delle leve in essere e a un controllo superificiale delle controparti. Swaps ed altri derivati attraverso la loro storia breve, includendo i passati 18 mesi, sono stati rimarchevolmente privi di casi di default. Natuaralmente possono esservi problemi latenti in ogni mercato che si espande rapidamente, come hanno fatto questi. Regolatori e supervisori sono particolarmente sensibili a questa possibilità. I derivati hanno fornito una più grande flessibilità al sistema finanziario, ma la loro complessità potrebbe far sì che le controparti si trovino esposte a rischi maggiori rispetto a quelli di cui hanno coscienza, e dunque questi strumenti espongono potenzialmente il sistema complessivo, se gli errori sono grandi. A questo riguardo, la reazione alle rivelazioni su Enron incoraggia a pensare che la disciplina delle forze di mercato spingerà nel tempo a una più grande trasparenza nel trattamento contabile dei derivati.”
No comment.
Washington, 21 maggio 2003: Joint Economic Committee (mia traduzione
di alcuni estratti)

Presidente , Sen. Robert Bennett: “ Lo scorso Novembre quando foste
qui, Mr. Greenspan, abbiamo discusso le pressioni al ribasso sui
prezzi e le possibilità che ha la Fed di combatterle. Qualcuno ancora
sembra credere che i bassi tassi d’interesse a breve limitano
l’efficacia della politica monetaria….può spiegare come la Fed può
invece agire contro queste pressioni,acquistando titoli di Stato a
lungo termine?”

Alan Greenspan: “ I miei colleghi ed io stesso di recente abbiamo
detto di aver scelto finora di agire solo sui tassi a breve , e
manovrando le riserve bancarie. Vi sono varie ragioni in questa
scelta, ma il punto centrale è che non c’è alcun obbligo legale né
economico a limitarci ad essa. Lo ritengo improbabile, ma può
avvenire, che i tassi a breve termine dovessero scendere vicino allo
zero; in questo caso non significa che la Fed non abbia più la
capacità di espandere ulteriormente la base monetaria. Infatti, come
lei ha osservato, noi potremmo muoverci sulla curva dei rendimenti,
perché come lei ben sa, anche se i tassi a breve sono all’1 per cento
quelli a lungo termine sono significativamente più alti. Noi abbiamo
la capacità , dovesse essere necessario, di abbassare i tassi a lungo
e con ciò aumentare il grado di stimolo monetario al sistema.
Proprio perché vi è un simile potenziale nella struttura delle
scadenze lunghe, noi non vediamo ragionevolmente possibile che si
possa arrivare ad un punto dove saremmo senza armi per combattere il
problema della deflazione o simili distrurbi alla ns. economia.”

Sen. Ron Paul: “ Buon giorno Mr. Greenspan, io ho due domande. La
prima è generale e concerne il sistema dollaro ed il sistema
monetario con cui è chiesto di operare, mentre la seconda è più
specifica e concerne un fattore che influenza la forza del dollaro.
Ma il grande dibattito ora nei circoli finanziari è sul dollaro
debole, se è buono o cattivo, e su che cosa un dollaro forte farebbe
a noi o per noi. Io penso che vi dovrebbe essere un’altra alternativa
piuttosto che temporaneamente argomentare a favore di un dollaro
forte come si faceva a fine anni 90, o a favore di un dollaro debole
che aiuta le esportazioni come si fa per ora. Piuttosto che questa
manipolazione del dollaro, io spero che un giorno qualcuno ci parli
di un dollaro stabile, che non fluttui così ampiamente e velocemente.
Noi operiamo oggi in un mondo con tassi di cambio fluttuanti e tutte
le valute sono inflazionate in misure diverse, e nessuno auspica di
avere 50 monete negli USA perché sarebbe il caos; eppure il mondo
opera con una quantità di valute, e non c’è alcun limite alle
autorità monetarie in materia. L’altra sfida cui ungiorno si dovrà
badare è se noi dobbiamo continuare ad accettare la nozione che si
può ottenere una pianificazione economica centrale positiva tramite
il monopolio del controllo della moneta e del credito e della
fissazione dei tassi di interesse, che in realtà è in contraddizione
con il vero capitalismo. Ed io penso qui vi sia parte dei nostri
problemi. Gli economisti austriaci per anni – Mises ed Hayek e
Rothbard – hanno indicato che questa è la fonte del problema, cioè
che la manipolazione dei tassi di interesse troppo bassi causi i boom
e che alla fine debba per forza arrivare la depressione. Si vede ciò
succedere ,ma noi parliamo sulla produttività e altri fatti magari
importanti, ma non siamo capaci di spiegare la causa iniziale del
malfunzionamento degli investimenti, della sovrapproduzione, che poi
costringe alle correzioni. Poiché gli USA agiscono da valuta di
riserva internazionale , hanno il vantagio che altri accettino i
dollari e se li tengano. Ma attualmente le aspettative sono per un
deficit estero che superi i 600 miliardi l’anno prossimo. E noi
sappiamo dalla Storia e molti economisti sono d’accordo, che tali
deficit sono insostenibili e alla fine portano a un dollaro debole e
a tassi d’interesse più alti. Così credo che noi siamo sotto tiro. Da
una parte lei vuole stimolare l’economia con tassi bassi che
indeboliscono il dollaro, dall’altra il dollaro debole finirà per
provocare un rialzo dei tassi. La mia domanda è quando pensa che si
parlerà di una valuta stabile?Nel 1979 i tassi andarono al 21 % per
riportare ordine al dollaro. Lei parla della guerra e dei supposti
benefici dopo la guerra, ma io credo che vada riconosciuto come
l’attuale politica estera sia avventurosa e i ns. pianificatori, gli
stessi che hanno preparato il caso Iraq, adesso si occupano della
Siria e dell’Iran. Nel contempo non abbiamo molti alleati, né molti
che ci finanziano come nel 1990. In sé vi è una relazione sogettiva
con il valore percepito del dollaro. Ed io vorrei sapere se lei pensa
che la politica estera abbia o non abbia influito su questa
percezione”.

Greenspan: “ Prima le rispondo all’ultima domanda. Come penso lei
ricordi il governo degli Stati Uniti ha deciso che sia solo il
ministro del tesoro a parlare del valore del dollaro; noi alla Fed
abbiamo aderito da tanto tempo perchè crediamo che sia importante
avere un unica voce su questo argomento. Circa la domanda più
generale sulle valute stabili, come sa , è oggetto di dibattito tra
gli economisti. Lei sottolinea che vi è un’unica valuta tra i 50
stati americani. Il tasso di cambio tende a compensare gli squilibri
dell’economia; in altre parole le variazioni del cambio tendono a
riequilibrare gli scompensi tra due nazioni, come potrebbe avvenire
anche fra due stati diversi degli USA. Se non c’è l’aggiustamento del
cambio perché la moneta è unica o il cambio è fisso allora gli
squilibri si compensano tramite i flussi di capitale e forza lavoro.
Gli USA hanno il vantaggio, essendo federati, e non avendo barriere
interstatali, né diversità linguistiche, di poter ottenere
l’equilbrio proprio con i movimenti di capitali e persone, e dunque
possono avere una valuta unica. La ragione per cui ciò al momento non
è possibile con altre aree del mondo è che non vi è facile
possibilità di spostare capitali e persone, e quando si sono tenuti i
cambi fissi a fronte di squilibri sottostanti sono successi dei
disastri finanziari.”

Sen. Paul Ryan: “ Mi piacerebbbe mettere la parola deflazione sul
tavolo per darle l’opportunità di parlarne per gestire la
speculazione, talvolta selvaggia, con cui molti giornali ne hanno
parlato con titoli del tipo: “siamo in procinto di diventare il
Giappone” oppure “Greenspan avverte deflazione” “stiamo assistendo a
una caduta dei prezzi decennale e a un economia stagnante” e così
via. Può parlarne, e spero mettere a tacere alcuni di questi
allarmismi?”

Greenspan: “ Si tratta di un argomento serio, cui noi alla Federal reserve stiamo
dando molta attenzione. E il motivo di base è che con l’eliminazione
del gold standard negli anni 30 e lo sviluppo di valute cartacee,
quasi nessun economista credeva che si potesse creare deflazione
perché l’offerta di moneta cartacea è pressochè illimitata
dipendendo dai governi che la stampano. Siamo andati nel periodo post
seconda guerra mondiale con l’aspettativa che le valute cartacee
fossero essenzialmente inflazionistiche e che lo scopo principale
delle banche centrali fosse appunto controllare l’inflazione. La
nozione di deflazione non era neanche nelle nostre teste, finchè il
caso giapponese ci ha dimostrato che poteva verificarsi. In
conseguenza, non avendo avuto alcuna esperienza nel mondo moderno nel
trattare la deflazione , la ns. conoscenza è virtualmente non
esistente, nel senso che noi sappiamo solo come trattare l’inflazione.
Quest’ultima ovvio è qulacosa con cui per mezzo secolo abbiamo dovuto
lottare,e sappiamo come sopprimerla, e le conseguenze di ciò;
sappiamo l’impatto di varie decisioni di politica monetaria sul
livello di produzione ed occupazione, così abbiamo familiarità con
questi meccanismi, anche se ciò non significa che possiamo facilmente
ed automaticamente soprimere l’inflazione: è stata una lotta
impegnativa per molte banche centrali nel mondo. Quello che è
successo ora è che sin dalla metà degli anni 90 stiamo inizando a
vedere che è possibile anche la deflazione in presenza di valute
cartacee e in in un certo senso, sospetto, ciò è da attribuire alle
banche centrali che essenzialmente hanno ristretto l’espansione del
credito in modo tale che molti aspetti del gold standard – il quale
provocò deflazione nel passato – sono stati replicati nei nostri
sistemi monetari e ciò, francamente, è anche buono. Noi alla Fed
riconosciamo la possibilità della deflazione. In realtà stiamo
dedicando molte risorse nel cercare di comprendere, senza che ancora
si sia verificato, che cosa sia questo fenomeno. Non possiamo dire
che sui mercati vi sia una forte crescente paura della deflazione. Le
varie aspettative sui prezzi sia delle imprese che dei consumatori
sono state relativamente costanti negli anni recenti, e il
cosiddetto premio per l’inflazione – che è l’implicita previsione
dell’indice dei prezzi al consumo incorporata nelle quotazioni dei
titoli di stato indicizzati – non è cambiata molto negli scorsi 3
anni. Così che non è qualcosa che i mercati stanno inizando a
temere, né è qualcosa con cui dobbiamo confrontarci. Ciò non di meno,
anche se percepiamo che si tratti di un rischio minimo, le
consequenze potenziali sarebbero sostanziali e potrebbero essere
piuttosto negative. Così abbiamo dedicato sforzi per aumentare la ns.
conoscenza di quello che sarebbe il processo e gli strumenti
necessari per contrastarlo. Penso abbiamo fatto progressi in questa
dimensione intellettuale, ma ovviamente è un problema che non abbiamo
mai affrontato prima. Sappiamo che quando si affronta qualcosa di
nuovo, vi è un ampio grado di incertezza che invece non abbiamo con
l’inflazione perché l’abbiamo già trattata per varie decadi. Crediamo
che nella situazione attuale il costo di assicurarsi contro la
deflazione è così basso che possiamo attaccare aggressivamente alcune
delle forze sottostanti, che sono essenzialmente la domanda debole.
Ed infatti è quello che abbiamo già fatto da quando abbiamo iniziato
un aggressiva espansione monetaria dall’inizio del 2001 e come nei
comunicati fatti, nell’ultimo meeting Fed, abbiamo avvisato che non
si tratta di una minaccia imminente per gli USA, ma una minaccia per
quanto minore, è già suffciente affinchè si inizi a scrutinarla e
forse, forse, per agire.”

Ron Paul: “ prima mi ha risposto circa la Sua impossibilità a parlare
del valore del dollaro e di quale dovrebbe essere. Lo trovo
piuttosto ironico : la Fed gestisce il sistema monetario e lei come
presidente ha molto da dire sulla politica monetaria e su quanta
moneta sarà stampata e creata e quali dovrebbero essere i tassi di
interesse. Così è ironico che non possa commentare il dollaro e ci
rinvii al Tesoro. Quest’ultimo può giocare un ruolo ovviamente,
intervenendo sui mercati dei cambi, ma ciò è molto temporaneo.
Comunque capisco la sua posizione politica e non mi aspetto che la
cambi, ma trovo disdicevole che non si possano ottenre commenti sul
dollaro. Le voglio ricordare di rispondermi sulla domanda circa la
politica estera, e cioè di come ciò che noi potremmo fare in giro
per il mondo può influenzare la politica monetaria e fiscale e quella
commerciale, e come può intaccare le percezioni sul dollaro e se ciò
sia importante o meno. Tornando invece al sistema di cambi, io non
sono interessato ai cambi fissi come quelli di Bretton Woods. Ma se
le cose stessero come dice lei, e cioè che le banche centrali fanno
un tal buon lavoro nel gestire la moneta cartacea tanto da iniziare
ad agire come un gold standard fino a rischiare di creare deflazione,
ciò sarebbe una conquista storica, lei comprende , perché a ciò non
si è mai arrivati in 6 mila anni di storia. E la storia supporta la
mia convinzione che la cartamoneta non funziona molto bene. E finisce
male in genere. Infatti noi oggi possiamo vedere segnali nel mondo
che il sistema cartaceo è molto debole. Ma una più specifica domanda
che ha a che fare con un ritorno alla moneta-merce, almeno su base
volontaria: oggi se avessimo una nazione del terzo mondo che
distrugge la sua moneta e non avendo i vantaggi politici che abbiamo
noi, volessero legarsi all’oro perché sanno la storia, ebbene ciò
non è consentito. Il Fondo Monetario Internazionale lo impedisce, vi
è una legge che dice che non ci si può legare all’oro. Allora non
sarebbe tempo che assumessimo una posizione più neutrale e non
antagonista verso l’oro ed elminare questa legge in modo che chi
scelga di legarsi all’oro possa farlo?”

Greenspan si avvale della facoltà di non rispondere.

Senatore Paul Sarbanes: “ Sulla questone del deficit commerciale,
naturalmente, noi ora abbiamo questa caduta nel valore del dollaro.
Quanto a lungo possiamo sostenere questo deficit?”

”Greenspan: Ciò dipende in gran parte dalla volontà degli stranieri
di finanziarlo. In realtà abbiamo per anni visto che quando il cambio
del dollare sale, c’è una maggior domanda di dollari, come si è
verificato negli anni 90. Ma l’ovvio problema che lei solleva è se
nel lungo periodo, la quantità di crediti verso gli USA, più
specificamente quelli collegati al debito, creano un peso di
interessi che, a sua volta, diventa parte del deficit estero, il che
significa che è possibile si crei una situazione di equilibrio
instabile.
Si tratta di una questione che gli economisti hanno molto discusso in
relazione alla specificità degli USA che emettono moneta
internazionale, ed io ho posto questa problematica per anni ma
prevedendo una contrazione alla fine del deficit, la sollevo ogni 5
anni. Mi sono sbagliato ogni 5 anni, perché il deficit non si è
contratto.”

Sarbanes: “Lo so,ma se noi restiamo sempre in questra situazione,
sarebbe come dire che prima o poi possiamo cadere dal dirupo, o no ?”

Greenspan: “No, non penso perché lo stock di assets in dollari
detenuto dagli stranieri è così grande e la capacità di muoverlo è
così limitata, che io penso gli aggiustamenti non ci spingeranno giù
dal dirupo… la domanda è, che cosa faranno i titlolari di questi
assets? Essi sono così pesantemente investiti in crediti in dollari
che se pure possono cercare di liberarsene, e un po’ lo faranno, vi
sono dei limiti alla velocità con cui possono farlo.”

Mi fermo qui nella traduzione della trascrizione. Credo le perle non
manchino, così come le risposte evase alle domande insidiose di Ron
Paul, ma questa conclusione è fantastica: dice di essere tranquillo
perché il mondo ha accumulato un tale enorme ammontare di dollari che
oggi ha ben poche opportunità di disfarsene!
Nel resto della sessione va citato che Greenspan non dice neanche una
parola di cautela sugli eccessi della finanza ipotecaria, piuttosto
invoca le meraviglie della tecnologia e dell’innovazione che emanano
dall’attuale sistema creditizio e dalla new economy. E’ incredibile
che non riconosca le chiare similitudini tra le forze che oggi
spingono il boom dei mutui ipotecari e quelle che spingono gli
eccessi speculativi creditizi che in modo ricorrente hanno già dato
vita alle euforie e depressioni globali, come la bolla delle
telecomunicazioni, e quella delle emissioni azionarie, appena qualche
anno fa. Anzi per la precisione rispondendo a una domanda in materia,
dice:
” E’ importante capire che una gran parte dell’estrazione di capitale
è avvenuta grazie all’alto livello delle vendite di case esistenti,
che dura tuttora. Ciò che è cambiato è il modo in cui il mercato
ipotecario funziona…Le ricerche FED mostrano che l’estrazione di
capitale dalle case, specialmente i rifinanziamenti dei mutui,
tendono ad essere impiegati per pagare altri debiti. Prima di tutto
essi sono una fonte di ripianamento dei prestiti sulle case stesse,
e inoltre servono anche a ridurre i prestiti al consumo. Così nel
complesso questa tecnologia che è ovviamente la base di questi
rifinanziamenti, ha cambiato il mercato immobiliare in modo
fondamentale, e ne ha fatto un veicolo per rendere liquida la
ricchezza delle famiglie, così divenendo un fattore principale a
sostegno dei consumi. E devo dire che penso andrà ad aumentare
piuttosto che a diminuire il potenziale consumistico americano, nella
misura i cui sempre più persone divengono proprietarie di case”.

E Greenspan spesso ritorna sul concetto che vi sono pochi rischi di
fronte a un ulteriore espansione monetaria: è l’opinione di un
banchiere centrale che vede solo l’indice “core” dei prezzi al
consumo, ed è cieco di fronte agli eccessi finanziari. Parla come se
non vi fossero rischi o costi associati con l’ultra espansiva
politica monetaria, quando invece oggi si stanno espandendo
esponenzialmente. E rivendica il primato sulla politica fiscale.
Greenspan: “ ancora penso che la politica monetaria deve comandare
sulla politica fiscale nel breve termine, perché si può muovere in 20
minuti, o in 10 minuti se necessario, cosa che ovviamente è
impossibile per quella fiscale. Dopodichè la domanda è: per fare
cosa? E qui c’è l’ovvio problema degli stimoli fiscali di breve
termine che si potrebbero avere. In altre parole, si può ottenere un
signifcativo incremento delle vendite al dettaglio ad esempio, se vi
è un marcato calo dell’iva, ma il problema è che se anche si ha
successo, poi l’effetto dopo poco tende a finire, e se vi è stato un
incremento nella produzione e nell’occupazione, in breve tempo anche
questo svanisce”.
Peccato che l’uso di una politica monetaria aggessiva per un
prolungato periodo di tempo nutra la speculazione, l’eccesso di
prestiti, le bolle e in genere processi monetari disfunzionali. I
rischi e il costo finale delle bolle creditizie associate sono
manifestamente più grandi di quelle innescate dai deficit fiscali.
Più importante, un economia può essere molto più agevolmente
stimolata dal deficit di stampo keynesiano, entro certi limiti, che
non dalla stampa di moneta che comporta inflazione endemica degli
assets, sistemi finanziari ad alta leva, e tutta la gamma di bolle
creditizie ben note.
Ma non importa, Greenspan non la pensa così e poiché è stato
riconfermato, prepariamoci a sentirrne delle belle.




14- Io, Greenspan
ho chiesto a un Greenspan immaginario di scrivermi tenendo conto delle mie ripetute critiche,
ecco il “suo” testo da me inventato di sana pianta.

Pensate veramente che abbia mancato di vedere la bolla nelle azioni americane? Avrei dovuto essere cieco, e sordo e muto per non notarla. Veramente pensate che io creda in questo non senso della Nuova Era o del miracolo della produttività? Veramente pensate che non so cosa succede quando inondo il mondo di liquidità e porto i tassi reali vicino allo zero?
Cosa credete che posso fare? Non posso venir fuori e gridare “è una bolla”, perché gli investitori panicherebbero. Una volta che le quotazioni azionarie arrivano a livelli da bolla, devo pensare a trovare un motivo per farle restare lì: tutto il gran parlare di nuova Era e produttività, etc. è perché la gente voleva una giustificazione e io gliel’ho data.
Faccio una premessa.
Chi vuole il potere, deve andare dove è il potere. Cesare avrebbe potuto vivere confortevolmente in varie citta romanizzate intorno al mediterraneo. Hitler avrebbe potuto avere una vita piacevole mangiando bavaresi in Austria. Bill Clinton avrebbe potuto stare in Hope, Arkansas, sposando una ragazza locale e lavorando come avvocato. Il potere in america è in due posti. Quello politico è a Washington e quello finanziario a New York. Ma il vero potere è nel punto di congiunzione tra le due: nella Federal Reserve.
Dovete ricordare che lo scopo della FED – come ogni cartello – è far sì che le banche membre facciano soldi. Ma, la Fed ottiene la sua autorità da Washington, e deve pagare qualcosa per questo privilegio. La Fed èstata incaricata di proteggere la moneta e assicurare la stabilità del sistema bancario. Ma la sua missione vera – ora – è mantenere l’economia in espansione. Perché? Perché questo fa sì che i politici vengano rieletti. Non solo, ma anche permette che il denaro vada verso Washington: date alla gente l’impressione che stiano meglio, e non si lamenteranno delle tasse.
La Fed fu fondata nel 1913. A quel tempo Washington da sola assorbiva il 5% del PIL e il dollaro era solido. Da allora Wasghinton ha aumentato la sua quota di assorbimento del PIL di circa il 600%, e nel frattempo il dollaro ha perso il 95% del suo valore. Pensate sia un accidente ? suvvia date ai banchieri centrali qualche importanza! L’inflazione ha spinto la gente verso aliquote fiscali più elevate, ed inoltre ha dato loro l’impressione che stavano divenendo più ricche, proprio quello che voleva Washington. Naturalmente se l’inflazione diveniva troppa, la gente iniziava a lamentarsi e noi dovevamo intervenire. Graze al mio precedessore Volcker ciò successe negli anni 70. Ma qui è un punto importante. Perfino quando tu hai il controllo dei tassi a breve termine, e qualche controllo dell’offerta di moneta, tu non puoi mai completamente essere padrone dei mercati. Essi sono troppo grandi, troppi operatori, troppa moneta. Se consenti troppa inflazione, colpisci i mercati obbligazionari e gli investitori si mettono a vendere i bonds facendo salire i tassi a lungo termine, il che ha un effetto opposto a quello che tu stai cercando di ottenere. Questo è già avvenuto un po’: ho tagliato i tassi 5 volte nei primi 5 mesi del 2001, con tanta aggressività come mai fatto prima, eppure i tassi ipotecari salirono.
Potrebbe l’inflazione salire? Potrebbe il dollaro cadere? Potrebbero gli investitori nei bonds divenire nervosi e far salire ancora di piuù i tassi a lungo termine?
Naturalmente sì, è un rischio. Ma è un rischio che devo prendere. Non si ottiene il potere con la prudenza. L’obiettivo qui – come con tutti i programmi di governo – è produrre i benefici desiderati, mentre si spostano i costi su qualcun altro. E’ così che la politica lavora. Tu prometti qualcosa, e tu forzi qualcun altro a pagare: tu corteggi il ricco votante Pietro e spargi i costi tra i poveri Paoli. Pensate che i liberal favoriscono sempre il povero? Perché pensate che ogni politico parli di programmi per gli handicappati, i malati, i disoccupati? Perché i politici non danno soldi ai ricchi, almeno non apertamente? Pensate che siano di cuore grande, generose anime giuste? ah, ah, ah!. I politici favoriscono i poveri per due ragioni, che ce ne sono tanti e che costano poco. Quanti voti dei ricchi puoi comprare con 100 dollari? Vi suona cinico? Bene , mi dispiace. Ma dovete osservare la situazione , direi, obiettivamente. Nel lungo periodo, regalare soldi ai poveri colpisce i poveri più che i ricchi, ma chi si preoccupa del lungo periodo? Keynes diceva che nel lungo periodo siamo tutti morti.
Ed ora lasciatemi dirvi un altro segreto: come sono diventato il banchiere di maggior successo. Keynes pensava a usare la politica fiscale per far espandere l’economia oltre il suo ciclo naturale. L’idea era che il governo doveva spendere molto quando l’economia era debole, per stimolarla. Il governo avrebbe fatto dei deficit ma poi avrebbe recuperato dai maggiori introiti durante la fase di crescita. Ma cosa è successo? i politici si dimenticarono di recuperare il deficit durante le fasi di crescita, perché loro realmente non si preoccupano del lungo periodo e della responsabilità fiscale. Ciò di cui si preoccupano è promettere agli elettori nuovi programmi, e mantenere l’economia in espansione. Così, i debiti si sono gonfiati, ma la gente si sentiva come se stesse ottenendo qualcosa senza sforzo, e il giochino ha funzionato per un po’. E ora, grazie all’economia che ho aiutato a creare, il governo si è ritrovato con dei grandi surplus. Bene non contate sui surplus. Washington vuole che appaiono dei surplus così può decidere dove spendere i soldi, ma nessuno ha interesse a produrre un surplus effettivo.
Bene ciò che mi sono figurato è stato di poter usare la politica monetaria nella stesso modo. La teoria prevede che si abbassino i tassi durante una recessione; e viceversa. Ma il trucco è: dimenticare di alzarli quanto si dovrebbe. Favorire sempre tassi più bassi di quanto dovrebbero essere, e ciò perché si vuole incoraggiare sempre più espansione – e illusione di prosperità – di quanto altrimenti giustificato.

Lasciatemi farvi una domanda: potete immaginare che io alzi i tassi 5 volte in 5 mesi per spegnere una bolla? Neanche per sogno. Diverrei vittima della furia di Washington, dei media, di Wall street.
Naturalmente vi sarà un prezzo da pagare , nulla viene senza un prezzo. Gli investitori che veramente credono in questo non senso della Nuova Era perderanno un sacco di soldi; essi pensano di poter ottenere il 15% annuo sui loro investimenti, per sempre. Il che non potrà avvenire ovviamente, ma non significa neanche che le azioni debbano crollare. In realtà, io penso di poterle tenere al presente livello per molti anni, forse come nel periodo tra il 1966 e il 1973. La moneta facile puà fare meraviglie per un po’. Ma invece che il 15% per i prossimi 10 anni, gli investitori è probabile che ottengano 0 per cento per i prossimi 15 anni. Chi lo sa?
Probabilmente i bonds e il dollaro andranno giù pure, e molta gente ne soffrirà, ma potrebbero volerci anni, e potrebbe anche non essere notevole. Chi sa o chi si preoccupa del fatto che oggi il potere d’acquisto del dollaro è appena il 5% di quello del 1913?
E infine, il sistema delle valute collasserà. Tutti i banchieri centrali stanno facendo come me, distruggere deliberatamente la valuta per assicurare l’apparenza della prosperità. Prima o poi, la gente lo capirà, e proverà a passare da una valuta all’altra, ma tutte le monete di carta saranno deboli e senza valore. Probabilmente si rivolgeranno all’oro, che è la sola cosa che noi banchieri centrali non possiamo manipolare.
Ma tutto questo è probabilmente lontano anni a venire, e sarà un problema per qualcun altro.
Vs. Alan Greenspan, pubblico servitore.




15- Bernanke
La banca non è solo un deposito per i soldi, altrimenti basterebbe
una cassaforte e un guardiano. La banca si suppone che faccia
lavorare i soldi in modo da ottenere un guadagno sia per lei che per
il depositante. La “mobilizzazione” del denaro è il cuore
dell’economia moderna. L’attività economica (o la sua mancanza) non
dipende dal livello dei tassi d’interesse (chiedere ai giapponesi),
né dalla spesa del governo e dei suoi deficits(chiedere ai
giapponesi): essa dipende invece da qualcosa che si chiama “velocità
della moneta”. Possiamo spiegarlo senza ricorrere a formule e
algoritmi: ricordate la scena del film di Frank Capra “la vita è una
cosa meravigliosa” in cui Jimmy Stewart affrontando una folla di
depositanti spaventati spiega il concetto della banca moderna?
Spiega che la moneta non si trova dentro alla banca, ma nelle loro
case perché la banca presta i soldi ricevuti; ma solo se qualcuno è
disposto a prenderli in prestito, ed è da questa volontà che
dipende la velocità della moneta.
Non tutti i soldi depositati sono prestabili: viene richiesto
infatti alla banca di mantenere una percentuale come riserva
immediatamente disponibile, proprio per soddisfare i ritiri dei
depositi. Ipotizziamo che la riserva sia del 15%: io deposito 1000 e
la banca può prestare 850; mio cugino li prende per comprare una
macchina usata dallo zio; lo zio incassa gli 850 e li rideposita, la
banca ne terrà 127,5(15%) e presterà 722,5 e così via; i miei 1000
di deposito originario possono aumentare l’offerta di moneta (e
l’attività economica) di circa 7000, se ogni volta qualcuno è
disponibile a prendere in prestito la quantità prestabile dalla
banca dopo aver detratto la riserva. Andiamo ora ai tassi di
interesse, cioè al costo della moneta. Se siamo appena atterrati su
Marte dove non c’è niente, e qualcuno ci offre in prestito della
moneta anche a un tasso minimo, perché dovremmo prenderla? Non c’è
alcun modo di usarla; per contro se siamo in un campo d’oro e
pensiamo di poter quintuplicare i soldi in un anno, potremmo anche
essere felici di pagare il 100% di tasso. Con ciò voglio spiegare
perché la crescita non dipende dal livello dei tassi; piuttosto
dipende dalle aspettative di guadagno che si hanno rispetto ai
tassi. Questo fatto frustra le banche centrali e gli economisti: il
giappone ha portato i tassi a zero e non ha risolto nulla. La Fed
può aumentare o diminuire la quantità di moneta e il suo costo nel
tentativo di piallare il ciclo economico ma può scoprire che prezzi
bassissimi e una grande offerta non garantiscono una maggiore
attività economica. Se il cavallo non ha sete, potete dargli tutta
l’acqua che volete , non berrà. Torniamo all’esempio della banca
dove avevo depositato 1000: questa volta nessuno vuole gli 850 in
prestito. Per la banca è un problema, perché se non guadagna dal
prestito non potrà pagarmi sul deposito e non potrà pagare le sue
spese, fallendo.Cosa fare? Ha bisogno di investire in qualcosa di
sicuro e liquido perché ha bisogno di poter riavere il denaro se
vado a ritirarlo. Semplificando, ha due scelte: può prestare i soldi
ad altre banche che magari hanno prestiti da fare
(sull’interbancario), oppure può comprare BOT. Così: io deposito
1000, nessuno vuole prestiti neanche le altre banche, la banca
compra BOT per 850. Il problema è che il gioco finisce qui, non c’è
velocità della moneta. Allora entra in azione la banca centrale che
per mobilizzare il denaro offre un premio sui BOT, in genere non
molto, ma quando si parla di miliardi e miliardi, non è mai poco. La
banca vende i Bot alla banca centrale ed ha di nuovo i soldi da
prestare disponibili, e vede se c’è qualcuno che li vuole. In
termini molto semplici è così che il sistema funziona. La banca
centrale aggiunge moneta al sistema comprando i BOT dalle banche e
ridando loro soldi da prestare (quando vuole frenare la velocità
della moneta fa l’opposto: vende i BOT ad un prezzo attraente per le
banche che così riducono i soldi prestabili immobilizzandoli in
Bot).Quando la banca centrale abbassa i tassi, annuncia il prezzo a
cui è disposta a comprare BOT; sapendo questo prezzo (e dunque
questo tasso) nessuno venderà al di sotto e così tutto il mercato si
sposta al nuovo tasso. Tradizionalmente le banche centrali operano
sui tassi a breve termine. I tassi a lungo vengono guidati
indirettamente da quelli a breve, ma non c’è nessuna garanzia che la
banca centrale comprerà a un determinato prezzo i titoli a 5 o a 10
anni. Ciò fa sì che i rendimenti fluttuino a secondo di quello che
il mercato pensa la banca centrale farà nel futuro.
Ho fatto questa lezione sul funzionamento del sistema bancario, per mettere
anche i non esperti in grado di apprezzare quanto dice Bernanke.

Il dott. Ben Bernanke nel 2002 è stato nominato alla FED; prima è
stato capo del dipartimento economico di Princeton, direttore del
National Bureau of economic research, ed editore della American
Economic Review. Ha anche scritto un testo universitario di
macroeconomia, ed è ben considerato nei circoli accademici: sarà un
membro influente alla FED.

Nel suo primo discorso ha detto delle cose esplosive, in un inglese estremamente
chiaro e ben scritto, che non è stato un
discorso a braccio o occasionale: è stato fatto all’Economic Club di
Washington.

Il titolo è già tutto un programma: “Deflazione: assicurandosi che
non debba accadere qui”.

Ha iniziato chiarendo che la FED è pienamente cosciente dei rischi
che comporterebbe una deflazione negli USA, e che è pronta a
impedirlo. Farà tutto quello che serve, compreso errare dal lato
dell’inflazione( Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto già
Greenspan aveva detto, anche se in modo più contorto).
Poi Bernanke ha spiegato cosa la Fed può fare per evitare la
deflazione. Non è vero che quando i tassi sono a zero la politica
monetaria perde la sua capacità di influenzare la domanda aggregata
dell’economia. In un sistema monetario cartaceo si può generare
inflazione , anche se i tassi a breve termine sono a zero. E ha
illustrato una parabola: “ oggi un oncia di oro vale 300 dollari
circa, ma supponiamo che un moderno alchimista inventi la possibilità
di produrre senza costi un illimitata quantità di oro, che la sua
invenzione sia largamente pubblicizzata e verificata
scientificamente, ed infine che egli annunci di volerne produrre
tanto in pochi giorni. Cosa succederebbe al prezzo dell’oro?
Crollerebbe, presumibilmente ancora prima che l’alchimista immetta
nel mercato anche una sola oncia. Cosa c’entra tutto questo con la
politica monetaria? C’entra, perché il dollaro-come l’oro- ha valore
solo nella misura in cui vi sia uno stretto limite alla sua
produzione. Ma il governo USA ha una tecnologia, chiamata “printing
press” o il suo equivalente elettronico che consente di produrre
quanti dollari vuole senza costi. Aumentando il numero di dollari in
circolazione, si riduce il valore del dollaro in termini di beni e
servizi acquistabili, che è l’equivalente di alzare i prezzi dei beni
e servizi in dollari.

Fa effetto sentirlo dire in modo così schietto dalla Fed,
con Bernanke che dice letteralmente “ in un sistema monetario
cartaceo, il governo può sempre generare una maggior spesa e quindi
inflazione…se cadiamo in deflazione, possiamo sempre confortarci
sapendo che la logica della printing press si imporrà, e sufficienti
iniezioni di moneta alla fine ribaltano sempre una deflazione”.

Bernanke poi aggiunge che la Fed può fare prestiti a tasso zero alle
banche, monetizzare gli assets esteri, comprare titoli di stato,
delle agenzie governative e e financo assets di imprese private
(azioni, obbligazioni) e tutto ciò che serve a produrre inflazione.
Le sue parole ci fanno capire come vendere dollari e comprare oro,
sia la cosa migliore da fare di fronte a questa prospettiva. Tra
l’altro, nel discorso si entra in varie tecnicalità operative, come
l’annuncio di espliciti tetti ai rendimenti dei titoli a lungo
termine, che uniti agli acquisti, consentono di mantenere ai minimi
tutta la struttura dei tassi per consentire ai mutui ipotecari e a
tutto il resto di beneficiarne, così favorendo la domanda privata di
beni e servizi.

Con questa lunga lista, la Fed non ci dice che userà tutte le armi
disponibili, ma ci tiene a far sapere che lo può fare, in modo da non
far prendere piede a una mentalità deflazionistica (posticipo delle
spese), e vedrebbe di buon occhio il contrario.

Ora , lasciamo perdere il dibattito sull’effettiva efficacia di
queste misure: la Fed crede siano efficaci, diamolo per scontato, e
ne ricaviamo quello che dovremo fare nel prossimo futuro. Comunque io
non credo che in tutte le circostanze questa ricetta funzioni per poi
produrre crescita. Inflazione sicuro, ma crescita non tanto. Potremmo
avere stagflazione, cioè inflazione + stagnazione, e di questa
eventualità Bernanke non parla. Io sì perché non credo che questa sia
una crisi ciclica, ma strutturale: un insieme di nodi diversi sono
arrivati al pettine contemporaneamente (disinflazione, deficit esteri
e interni, sfida asiatica, trend demografico, etc.) e di questi loro
non ne parlano. Per Bernanke la deflazione è un problema di caduta
della domanda; per me invece questa deflazione odierna non dipende
dalla domanda ma da un eccesso di offerta e di concorrenza
internazionale con paesi come la Cina dove c’è tecnologia unita a
costo del lavoro bassissimo. Il tutto è esacerbato dal fatto che
tutti vogliono svalutare nei confronti degli USA. Il fenomeno è
mondiale, non è una questione di economia interna americana.

Ma vi è un paradosso nell’attuale atteggiamento
della Fed che parla apertamente di “reflazionare” – cioè pompare
inflazione nel sistema, per evitare il rischio deflazione (e perchè
l’inflazione favorisce i debitori – gli USA, e colpisce i creditori-
gli altri). Così il paradosso è che la Fed dichiara di volere tassi
bassi per promuovere la crescita, ma vuole anche che la gente compri
obbligazioni americane senza preoccuparsi dell’inflazione come se
potesse esistere un economia ad alta crescita, piena zeppa di
liquidità e senza inflazione. Cosa potrebbe dunque causare questo
apparentemente irrazionale acquisto di titoli americani, così come
vuole la FED? Vi sono 3 risposte prossibili. Primo, i compratori
possono pensare che la Fed fallirà nel creare inflazione; secondo,
possono pensare che avrà successo ma molto lentamente, così che vi
sarà tutto il tempo di uscire dai bonds senza danni e nel frattempo
beneficiando dei tassi offerti; terzo, gli acquirenti non vedono il
rischio o non se ne preoccupano. Quest’ultima alternativa sembra
implausibile nel mercato liquido più grande del mondo, e le altre
due non paiono delinearsi a giudicare dal panico che nell’estate 2003 ha
colto gli operatori riflessosi in un rialzo di un punto e mezzo
in un mese sui decennali. Ciò non di meno la Fed insiste. Crede di
dover inflazionare per aiutare l’economia USA e pretende che
l’enorme numero di detentori di titoli USA non senta odore di
inflazione. Ci vorrà una destrezza e un equilibrio record,e
certamente una miglior comunicazione: i mercati non devono perdere
fiducia in lei, il rischio è troppo alto; eppure è proprio quello
che la Fed sta rischiando.
Del resto i tassi sono bassi ovunque nel mondo e nessuno ama i tassi
bassi, basti pensare a chi guarda i risparmi di una vita rendere
sempre meno e, soprattutto nelle nazioni sviluppate, ciò pone il
problema delle pensioni: come si può ottenerle dal sistema
contributivo se i tassi sono così bassi? Il problema delle pensioni,
sarà inoltre ingigantito dal
crollo dei tassi di fertilità in Europa e in Giappone, che a sua
volta impatta sulla crescita economica: è difficile che un economia
cresca quando la popolazione si contrae e diventa sempre più
anziana. Nel terzo mondo, invece, i differenziali di crescita nella
popolazione influenzeranno gli equilibri di potere, e se gli
occidentali falliranno nell’integrare i giovani del Medio oriente, è
probabile che si peggiori il ciclo di instabilità politica, guerre
etniche e terrorismo di cui la gioventù disoccupata e imbevuta di
religiosità locale rappresenta la risorsa primaria.
Insieme a tutti questi fattori demografici e non, l’esistenza di una
sterminata e crescente quantità di cartamoneta americana ed il modo
in cui le autorità preposte la gestiscono, rappresenta oggi una
delle cose più importanti da comprendere.

La Fed comunque si trova tra l’incudine e il martello: se consente la
deflazione, provocherà un Giappone 2. Se crea inflazione imbocca una
strada sconosciuta perché i tassi d’interesse alla fine si
impennerebbero per quanti sforzi possano fare per tenerli
artificialmente bassi, e questo ucciderà un economia iperindebitata.
Il crollo del dollaro, significherà la fine del deficit estero, ma
questo passa attraverso una grande depressione.

Come si gira e rigira, ormai la frittata è fatta: a noi non resta
che prepararci a fare scarpetta nella padella.





16- McTeer
Anche qui una premessa teorica per meglio apprezzare McTeer.
Per capire il commercio globale e le valute che lo muovono,
dobbiamo tornare al concetto di moneta. Sin dai tempi in cui
inventarono il linguaggio, gli esseri umani hanno commerciato tra
loro. Negli stadi iniziali tramite il baratto, cioè lo scambio di
una cosa con un altra. Chi aveva maiali trovava conveniente
scambiarne qualcuno con il vicino che aveva galline: oggi
diremmo, “swappare” prosciutto con uova. Ma cosa succedeva se il
vicino non avesse voluto il prosciutto e, supponiamo , avesse voluto
formaggio o pesce? In questo caso occorreva trovare qualcuno che
aveva ciò che il vicino voleva (formaggio o pesce)e che al contempo
fosse interessato al prosciutto. Insomma, il baratto era una gran
fatica. Subito si pose l’esigenza di un mezzo di scambio che fosse
prontamente accettato da tutti a fronte di qualsiasi bene o
servizio. E’ quello che chiamiamo “moneta”: però, la moneta vale ciò
su cui siamo d’accordo che valga. Ad esempio, quando si gioca a
poker si usano le fiches, il cui valore convenzionale cambia a
seconda della situazione: il martedì quando gioca la zia Agnese con
le amiche è di un euro, il Giovedì quando gioca lo zio Gianni con i
colleghi vale 5 euro. Eppure è sempre lo stesso pezzo di plastica;
ciò che cambia è l’accordo che si fa tra i partecipanti circa il suo
valore. Molte cose sono state usate come moneta nella storia e nella
goegrafia: sulle isole nel pacifico a sud-est, gli isolani usavano
delle pietre per moneta; ci può sembrare strano, ma loro erano
d’accordo e funzionava. Purtroppo poi arrivarono degli europei che
avevano sentito di questa usanza e si presentarono con dei vascelli
pieni di pietre: causarono subito una iper-inflazione. La ricerca
del giusto mezzo di scambio è evoluta lungo una traiettoria
razionale: all’inizio si preferivano cose utili, alla fine si arrivò
alle cose rare, come l’oro. L’oro ha molte qualità che lo rendono un
ottimo mezzo di scambio: è raro e piccole quantità possono
rappresentare importi ampi, è resistente e difficile da contraffare.
Lo si può perdere ma non distruggere. Quando i Fenici diffusero il
commercio tra l’asia e il mediterraneo, usarono l’oro come mezzo di
scambio. Ma anche l’oro funziona solo perché c’è un accordo
generale: un isolano del pacifico non ne avrebbe capito il valore:
brilla, ma a che serve? L’oro ha 4mila anni di storia, il che gli
conferisce un accettazione generale e una forte credibilità
culturale. Difficilmente può essere inflazionato, ma un oncia di oro
vale solo ciò che la maggioranza in un determinato momento accetta
che valga. Come tutti i mezzi di scambio, è basato su un accordo
convenzionale, a partire del quale si innesta le legge della domanda
e dell’offerta. Se un bene raro aumenta di quantità, il valore
tenderà a scendere e viceversa. Abbiamo visto l’emergere e l’evolversi
dell’attività bancaria, notando la convenienza e la sicurezza del
tenere l’oro in un posto piuttosto che trasportarselo appresso,
facendolo quindi rappresentare dalle lettere di credito: questi
pezzi di carta, rappresentando la promessa di poter essere
convertite in oro, consentivano faclmente il commercio .
Durante lo scorso secolo, le nazioni hanno deciso che è la promessa
che conta di più, rispetto al sottostante, basta che tutti siano
d’accordo. Così il dollaro americano , non c’era più bisogno che
fosse formalmente convertibile in oro. Lo decise Nixon nel 1971 e fu
accettato.
Il governo dimostra di fidarsi della propria moneta perché
l’accetta come pagamento delle tasse. Il che dà sia un senso di
necessità che di credibilità alla medesima. Dunque oggi la
cartamoneta è il mezzo di scambio che sia i cittadini che i governi
accettano di usare. Le nazioni rispettano anche la scambiabilità
della propria carta moneta con quella delle altre nazioni, a un
tasso di cambio che può essere fisso o variabile. La moneta pertanto
è il carburante e il lubrificante del commercio globale(certamente
con il baratto esso sarebbe infinitesimale, anche se esistesse
internet). Ma se una cartamoneta non appare conformarsi ai suoi
standard di mezzo di scambio, possono avvenire cose improvvise e
violente(gli esempi , dal Baht tailandese nel 97, al russo rublo nel
98, al peso argentino nel 2002, sono continui e sotto gli occhi di
tutti).
Vediamo ora come funziona il commercio globale. Supponiamo che gli
americani improvvisamente diventino matti per il vino italiano.
Importano quante più bottiglie possono, pagando i produttori di vino
italiani con i dollari, miliardi di dollari. I produttori, comunque,
trovano che i panettieri italiani preferiscono le lire locali ai
dollari (oggi sarebbero euro, ma mi piace fare l’esempio con la
valuta nazionale). Pertanto i produttori di vino italiani devono
cambiare i dollari ricevuti in lire: vanno nelle loro banche, che a
loro volta vanno alla Banca centrale; quest’ultima potrebbe vendere
i dollari ad altre nazioni comprando le lire, ma sfortunatamente
questa nuova offerta di dollari porterebbe giù il valore del dollaro
verso le altre valute, per cui il potere d’acquisto del dollaro
scenderebbe fuori degli USA. In questo caso le bottiglie di vino
italiane vengono a costare di più agli americani, che possono
smettere di comprarne, o ridurne gli acquisti, il che non farebbe
felici i produttori italiani, che a loro volta comprerebbero meno
pane: altra gente in italia non sarebbe felice. Pertanto la Banca
d’italia ha un problema. Può cercare in giro per vedere se trova un
altra banca centrale che si prende i dollari senza venderli (e così
il cambio del dollaro non scende) il che non è molto diverso dal
caso del proprietario di maiali che cercava qualcuno interessato,
nell’esempio citato del baratto. Oppure, la banca d’italia ha
un’altra alternativa : può evitare di vendere i dollari, tenedoseli
e investendoli in titoli del tesoro americano (nei Bot USA).
Durante le ultime tre decadi, le banche centrali di tutto il mondo
hanno adottato esattamente questa strategia, soprattutto quelle
asiatiche, con il risultato che gli USA sono diventati la nazione
più indebitata del mondo perchè quando la Fed compra i titoli del
tesoro americani, in rappresentanza di una banca centrale estera,
produce sul sistema interno lo stesso effetto di quando li compra
per proprio conto: leva titoli alle banche, dandogli in cambio
liquidità che queste ultime proveranno a prestare (vedasi la
parte a proprosito della velocità della
moneta). Pertanto gli stranieri e specialmente le banche centrali
estere hanno dato una spinta alla Fed affinchè aumentasse l’offerta
di moneta; messa in altro modo, hanno incentivato l’enorme crescita
di debiti americani.
Che dimensioni ha questo fenomeno? I dati ci dicono che circa la
metà di tutte le riserve delle banche centrali nel mondo , sono in
dollari, il che è sia un importo enorme di moneta, sia una
proprozione record delle riserve mondiali. E’ bene capirla
questa situazione. Guardiamola dal lato americano: gli stranieri
tengono tra il 30 ed il 33% di tutti i debiti del tesoro USA, , il
14% di tutti i debiti delle agenzie governative USA ed il 20% di
tutti i debiti delle aziende americane. Sono percentuali dalle
dimensioni simili ai ghiacciai sul pianeta. Un improvviso
spostamento nella fiducia o nelle intenzioni dei detentori stranieri
può provocare un maremoto negli USA. E’ necessario essere coscienti
ed anche preoccpati dell’importanza che ha il come le banche
centrali estere possano valutare l’economia americana e il dollaro.
Fino ad ora hanno ritenuto fosse il loro interesse nazionale
detenere tutti questi debiti americani ma, quale che sia la
motivazione, la valutazione che faranno in futuro potrebbe cambiare.
Quali eventi possono causare un cambiamento? Tanti, anche
geopolitici con riferimento agli asiatici, ma restando
nell’economico puro uno può essere l’inflazione.Per ora l’inflazione
viene giudicata improbabile a breve termine, ed infatti vi è una
grande quantità di eccesso di capacità produttiva, non solo negli
USA, ma globalmente, e di norma in questi casi il pericolo è la
deflazione non l’inflazione perché è difficile alzare i prezzi
quando i concorrenti hanno spazio per produrre e possono acquisire
quote di mercato tenendo i prezzi fermi.

Un membro della Fed, Robert McTeer, presidente della Fed di Dallas, ha tenuto mercoledì primo ottobre 2003 un discorso alla Kanaly Trust. Rispondendo a una domanda ha così risposto:
“ Qual è la mia opinione sul deficit dei conti correnti? Solo per chiarire i termini, il deficit commerciale è dato dall’eccedenza di beni importati rispetto a quelli esportati. Il deficit dei conti correnti è il deficit commerciale più quello dei servizi, ed è una misura migliore delle relazioni transattive con il resto del mondo. A scuola quando si studiavano queste cose la risposta era che un ampio e sostenuto deficit dei conti correnti , in presenza di un cambio flessibile, avrebbe portato ad una svalutazione fino a quando non si fosse tornati in equilibrio. Ma gli USA oggi sono un eccezione a questa regola, perché il dollaro è usato da tutto il mondo ed è detenuto dalle altre banche centrali come riserva di valore. In qualche misura, il mondo da tempo ha la volontà di mantenere l’eccesso di dollari che noi stampiamo per comprare più di quanto vendiamo al resto del mondo. Così abbiamo una specie di corsa libera. Vome quando si gioca a poker se non si deve mai coprire con soldi le fiches che si usano. Durante la fine degli anni 90, quando stavamo facendo così, abbiamo avuto un economia dinamica se comparata all’Europa, e molti soldi sono giunti dall’ Europa negli USA, in tal modo mantenendo artificialmente alto il dollaro e ampliando il deficit dei conti correnti. Negli anni 60 si insegnava che il commercio era indipendente e i flussi di capitale erano il meccanismo di finanziamento, una specie di automatismo. Ma in questa epoca i flussi di capitali hanno pure una loro indipendenza, e si potrebbe quasi sostenere non che i flussi di capitale finanzino il deficit, bensì che è il deficit a finanziare i flussi. Fin quando ciò avviene, e fino a quando noi siamo considerati il miglior posto del mondo dove investire, il nostro pur enorme deficit non ci causa nessun problema. Il problema verrà quando la gente cambierà idea su tutto ciò e quando dovesse quindi decidere , forse improvvisamente, che nel mondo ci sono troppi dollari in eccesso e vorrà venderli.Se lo faranno tutto di un colpo avremo una crisi del cambio e non sappiamo dire cosa succederà, ma certamente non sarà positivo. Però ciò poteva accadere già da diversi anni, e non è successo. La maggior parte dei paesi che posseggono molti dollari non hanno alcun incentivo a scatenare una crisi di questo tipo, potrebbero venirne danneggiati più di ogni altro. E’ il famoso detto : “se si è debitori verso la banca di una piccola somma si ha un problema; ma se si è debitori di una grande somma è la banca ad avere un problema”. Noi siamo in questa situazione”.
E bravo mister McTeer! Fa impressione sentire un preminente banchiere centrale esprimersi così candidamente, ed è la sacrosanta verità. Dimostra anche che gli americani ci marciano sopra a questa situazione. Infatti con questi commenti di McTeer in testa, facciamo un passo indietro e proviamo a capire il senso di quello che sta succedendo e che è straordinario.
Ho sempre sostenuto che la morte di re dollaro cambierà ogni cosa. Gli ultimi anni 90 hanno presentato un ambiente atipico che ha portato al “bollaro”. Un disfunzionale sistema finanziario globale basato sul dollaro ha provocato una serie di “boom-bust” indotti dall’eccesso di liquidità in tutto il mondo. Negli USA, si è perso il controllo del mercato azionario, con effetti importanti sull’economia reale e finanziaria. L’economia USA sovraperformava nettamente l’economia globale, attirando gli investitori esteri verso gli assets americani e gli investimenti diretti per beneficiare del “miracolo” economico.Vi è stata una sorprendente confluenza di fattori, tutti insieme. Molto importante, vari sistemi creditizi nel mondo erano in difficoltà dopo uno spettacolare collasso a catena: il sud-est asiatico era stato decimato (97) insieme a pezzi di mercati finanziari emergenti come la Russia (98), la Turchia fino all’america latina (argentina). La forte domanda di dollari (assets reali e finanziari) ha rinforzato la sovraperformance economica americana ed esacerbato l’eccesso di domanda di assets USA. A livello internazionale c’era un solo gioco che funzionava: il re dollaro.
Insieme a lui, gli USA si godettero i frutti dell’altro grande benefattore: la FED. Nessuna altra banca centrale al mondo poteva garantire mercati finanziari vibranti ed altamente liquidi. Nessun altra banca centrale aveva la capacità/audacia di far collassare i tassi d’interesse e inondare i sistemi finanziari di liquidità per contrastare un rallentamento economico. Certamente non c’era nessun altra banca centrale con l’immenso potere di mitigare le conseguenze negative dello scoppio della bolla, accendendone altre ancora più grandi. E sebbene lo scoppio di una bolla azionaria piuttosto cospicua abbia posto un rischio sistemico, Greenspan ha segnalato con forza che la Fed avrebbe tagliato aggressivamente i tassi. L’eccitazione da ciò generata negli speculatori era data dalla possibilità di un affare sulle obbligazioni da “una volta nella vita”. Specialmente dopo essere stata bruciata in così tanti altri mercati, la comunità speculativa globale ha apprezzato che ci fosse un gioco sicuro al casinò, e la fed ha dato credibilità a tutto ciò come nessun altra banca centrale nella storia , compiacendosene.
Un pezzo fondamentale del gioco orchestrato dalla Fed è basato sulle agenzie governative. Fannie mae, Freddie Mac e il sistema federale per i prestiti immobiliari, con il mercato prontamente favorevole all’implicita garanzia governativa sui loro debiti, hanno beneficiato di una capacità fenomenale di espansione delle loro passività, una capacità storicamente propria solo di chi può battere moneta. Le agenzie e Wall street si sono evolute al punto di creare un meccanismo per generare liquidità sistemica, e non si sono mai saziate. E’ stata questa capacità di espandere i bilanci del settore finanziario durante una crisi a fornire la pietra miliare per la percezione dei mercati che la Fed poteva così facilmente rendere liquido il sistema per mitigare i tumulti finanziari. Gli episodi del 1994 e del 1998, in particolare, hanno reso baldanzosa la comunità speculativa a leva: imparò che se i mercati si muovevano decisamente contro di loro e la liquidità fosse iniziata a ridursi, un compratore aggressivo felice di pagare era a portata di un colpo di telefono(a Fannie o a Freddie).
Così la psicologia del mercato e l’innovazione finanziaria si sono combinate procreando la Grande Bolla Credizia USA. Nel frattempo velocemente come il defcit commerciale, la liquidità in dollari si espandeva attreaverso il sistema finanziario globale, e questi “Bollari” venivano riciclati indietro negli assets USA. Si formava così la percezione, e si consolidava, che il re dollaro era un cardine permanente del sistema globale finanziario e che i deficit comerciali non avrebbero avuto più importanza. Gli USA potevano spendere dei soldi che poi e per sempre gli sarebbero tornati indietro; vivere gratis in pratica alle spalle del resto del mondo, basta solo stampare dollari, che meraviglia!
Ma le cose cambiano, e inevitabilmente il disincanto prima o poi arriva. Poiché tutti giocano al re dollaro senza alcuna cautela, il gioco si avvia alla conclusione. E’ certo che gli eccessi creditizi e speculativi nella Storia hanno finito SEMPRE per seminare i germi della propria distruzione. Da un lato, vi sono i conseguenti effetti sull’economia reale (distorsioni nei prezzi relativi, investimenti, natura della domanda,etc.); dall’altro, gli eccessi finanziari generano fragilità finanziaria. Entrambe cose deleterie che improvvisamente si ritrovano ad essere cospicue. Però agli scandali contabili del 2002, alla successiva crisi del mercato dei corporate bond, e mentre la crisi velocemente si approssimava sul vulnerabile settore dei consumatori indebitati, la Fed ha risposto portando i tassi fino all’1% e parlando di misure non convenzionali per preservare la bolla creditizia, con ciò incitando a una massiccia iniezione di liquidità amplificata dalla speculazione a leva. E’ riuscita così a mettere una toppa ma questa inflazione ha segnato il destino del re dollaro. Pur quietamente, ma con efficacia, le altre valute hanno iniziato a guadagnare sul dollaro man mano che l’inflazione di dollari accelerava.
Considerando il grado di eccessi che pervadono il sistema creditizio USA (ed i conseguenti squilibri interni ed esterni) ci si sarebbe aspettati un immediata crisi del dollaro. Ma quello di oggi non è il sistema finanziario dei nostri nonni: le agenzie governative sono evolute al punto da assumere il ruolo cruciale di compratori di prima ed ultima istanza, assicurando una liquidità infinita al sistema finanziario USA. E a questo punto sono state capaci di esercitare questo ruolo con più successo di molte banche centrali nella storia. Allo stesso modo, le banche centrali estere, soprattutto quelle asiatiche, sono diventate compratori di prima ed ultima istanza di Bollari, assicurando liquidità ai venditori dei medesimi, e provocando il risultante eccesso di liquidità globale. In pratica spalmano nel mondo la liquidità creata dal settore finanziario USA guidato dalle agenzie, assicurando il perpetuarsi della bolla che infatti si è estesa a tutti i mercati azionari e obbligazionari a oriente come a occidente, al sud come al nord. L’azione delle banche centrali ha dato libero sfogo alla bolla creditizia americana. E la speculazione prosperante, con un occhio sulle agenzie governative ed un altro sulle banche centrali ha potuto operare con fiducia ed in modo aggressivo. Eccessi non controllati – creditizi, speculativi, economici- sono andati ad estremi veramente incredibili. Nel frattempo gli ottimisti a oltranza hanno goduto, ma non hanno capito. Come analisti, oggi è fondamentale capire che il retroterra finanziario ed economico si è evoluto con le agenzie trincea finanziaria interna e le banche centrali estere trincea finanziaria globale.
Con gli eccessi creditizi che arrivano a nuovi estremi, mentre però la domanda per dollari inzia a ridursi, le banche centrali si trovano ad accumulare titoli in dollari(per un triliardo) come mai finora. La Banca del giappone ha comprato altri 100 miliardi solo nello scorso anno, seguita a stretta distanza dai cinesi e dalle altre asiatiche. Tutto questo è servito per favorire un ordinato declino generale del dollaro. Inoltre questi acquisti hanno giocato un ruolo cruciale nel mantenere i tassi USA bassi. Ed è solo un ulteriore ironia della sorte che questo ambiente aberrante abbia fatto sì che un dollaro debole supportasse il mercato obbligazionario USA (avrebbe dovuto essere il contrario in un mondo normale). Insomma una altra anomalìa che ripudia le leggi economiche basate sul prezzo di mercato e sull’auto regolazione. Altro che libero mercato, siamo in piena pianificazione sovietica vecchio stile. Abbiamo addirittura raggiunto il punto in cui la debolezza del dollaro stimola acquisti speculativi di strumenti creditizi USA. Per quanto possa apparire a prima vista un fatto costruttivo, questo enorme supporto artificiale serve solo a gonfiare sempre di più le passività delle agenzie e della finanza speculativa e la risultante fragilità finanziaria nonché gli squilibri economici reali.
Da questa simbiotica alleanza tra agenzie e banche centrali estere derivano una miriade di problemi, ma quello più spaventoso è che entrambe sono succubi delle dinamiche delle bolle. Oggi la parola d’ordine è : inflazionare o morire. In questa situazione il dollaro resterà però vulnerabile, e così come gli acquisti di re dollaro si autorinforzavano durante fine anni 90, appare chiaro che adesso tende ad avvenire l’opposto. Le banche centrali estere pertanto continueranno a non avere alternative: dovranno essere i compratori di ultima istanza del dollaro. Come ha detto Mc Teer: Noi abbiamo un enorme debito , loro hanno un grande problema!
In conclusione, non ci sono dubbi che si va verso una grande crisi del dollaro, il dubbio è solo sul quando. Non ci sono neanche dubbi sul fatto che la bolla delle agenzie governative americane scoppierà: loro ed il mercato stanno apparentemente facendo ogni cosa possibile per assicurare che questa inevitabile dislocazione finanziaria sarà storica. Ed ancora non ho dubbi che il “bollaro” delle banche centrali estere avrà uno spiacevole finale. L’interazione tra questi due ultra potenti meccanismi di finanziamento si è evoluta al punto da creare eccessi creditizi e speculativi senza precedenti attraverso tutto il mondo e andrà a finire con il peggiore degli scenari possibili: una crisi di fiducia sistemica. Nel frattempo c’è un enorme comunità speculativa che va facendo scommesse a leva su azioni, obbligazioni, valute, commodities, differenziali, crediti, e Dio sa cos’altro. Ci sarà una battaglia epica su come queste scommesse andranno a finire, assicurando solo un caos ancora più grande sui mercati in un ambiente incredibilmente instabile.






17- Metafora

Gli USA sono come un azienda che risiede in una piccola città, della
quale rappresenta l’attività economica più grande. L’intera città
dipende da lei. L’azienda è infatti la principale acquirente di beni
e servizi, i suoi impiegati sono i principali compratori nei
magazzini e nelle drogherie, i suoi dirigenti sono i migliori
clienti dei bar e dei ristoranti. L’azienda è anche la più grande
cliente della banca locale, da cui chiede e ottiene ingenti
finanziamenti. I proprietari dell’azienda danno delle magnifiche
feste, hanno una polizia privata e godono di una considerazione
speciale nella Chiesa locale di cui sono i principali donatori.
L’azienda però perde soldi ogni anno, perché spende più di quanto
incassa. Così di tanto in tanto va dalla banca e dai fornitori e
dice: datemi altri finanziamenti o sarò costretta a fermare
l’attività. Ed il credito le viene sempre accordato, perché tutti
temono di perdere i propri affari se si ferma l’azienda. Il
proprietario della taverna vuole che il giro d’affari cresca per cui
accetta di fare credito, così come il banchiere e perfino
l’ecclesiastico temendo di perdere i suoi benefattori si accontenta
di promesse su future elargizioni.
La gente della città si rende disponibile perfino a sostenere
direttamente l’azienda comprandone azioni “per il bene della stessa
città”, e si spinge anche a chiedere ai legislatori nella capitale
di fare uno sforzo per dare favori speciali a questa azienda.
Ma, essa continua a perdere soldi, fino a quando un bel giorno i
creditori iniziano a chiedersi: quando mai saremo ripagati e come?
Sarà nell’interesse dell’intera cittadina beneficiare delle spese
dell’azienda- pensa il barista- ma io sono stanco di dare via il mio
buon liquore in cambio di sole promesse. Alla fine tutti si
rivolgono all’azienda , ma non ci sono soldi per essere ripagati,
allora cercano di svendere i propri crediti a qualsiasi prezzo e….

La metafora sembra chiara.
Capovolgendo la morale biblica (i debitori saranno schiavi dei
creditori) oggi il mondo dei creditori è soggiogato dal più grande
debitore del pianeta. Si è diffusa , dalla Fed agli economisti ai
media, la nozione che la Cina e gli altri partner commerciali degli
USA debbano reinvestire i loro crediti per forza negli USA medesimi,
a qualsiasi costo. Hanno già perso miliardi di dollari tra
svalutazione dei cambi, crolli di borsa e delle obbligazioni, e
certo gli investitori stranieri non sono dei geni, ma perfino un
social comunista alla fine si chiederà come smettere di perdere
soldi.
Gli americani pensano per ora, ed i fatti danno loro ragione -fino a
quando lo vedremo- di avere messo tutti in trappola, come ha spiegato
papale papale Greenspan : se il resto del
mondo volesse disfarsi dei propri crediti, il prezzo di questi
(quindi del dollaro e dei titoli) crollerà e soprattutto non
potrà più vendere la gran parte della sua produzione negli USA,
ed in effetti senza il deficit USA l’intera economia mondiale
dovrebbe fare una bella cura dimagrante. Dunque si preferisce
ricevere in cambio i verdoni ed accumulare crediti cartacei verso
gli USA, anche perché ancora la massa non crede che sia realmente
carta straccia. Finchè un bel giorno….

PS: Sull’argomento, il prof. Francesco Arcucci in una sintetica
quanto chiara analisi nella sua newsletter, mostra come la crisi
del dollaro sia inevitabile, lui dice questione di mesi al massimo
qualche anno, nel frattempo il massimo dell’instabilità.




















Parte quarta: Anatomia della Superbolla

18- Il Grande Esperimento

La verità è che FED ha cambiato profondamente le regole del gioco per cui
negli USA il sistema finanziario contemporaneo è un animale molto diverso da quello convenzionale basato sul sistema bancario. In particolare la “moneta” non è più limitata alle emissioni governative e ai depositi bancari; soprattutto, l’emissione di passività monetarie e il sistema dei pagamenti non sono più dominati dalle banche. La Fed+Fannie + Freddie (le 3 F) si sono evolute al punto di avere imparato l’arte di liquefare (rendere liquido) il sistema americano ed internazionale, su domanda ed in eccesso. Il punto di volta di questa capacità senza precedenti e virtualmente illimitata delle citate agenzie di creare passività sta nella insaziabile domanda per titoli supposti garantiti dallo Stato americano, che dunque possono essere emessi in eccesso senza impattare sul merito creditizio percepito; a ciò si aggiunga l’audacia della Fed di inchiodare i tassi di interesse a breve termine ben sotto i tassi di mercato; nonché l’esplosione della speculazione ad alta leva sempre più aggressiva e naturalmente il ruolo del dollaro come moneta internazionale. Questi fattori insieme hanno formato una confluenza di forze potenti come mai sperimentato prima d’ora.
Oggi creano moneta anche le entità non bancarie come i due giganti sopra citati. Per capire gli importanti sviluppi sistemici della liquidità occorre pertanto monitorare le passività del settore finanziario in senso lato. Le agenzie hanno costantemente aumentato le proprie attività in titoli ipotecari e simili, fornendo liquidità alle stesse banche, agli hedge funds e alla comunità di Wall Street in genere, finanziandosi con l’emissione di propri titoli a lungo termine che non entrano nella definizione di offerta di moneta, ma che di fatto lo sono perchè hanno l’implicita granzia dello Stato. I loro debiti sono diventati sempre più un fattore predominante nella liquefazione del sistema americano, addizionale a quello ufficiale della FED. Infatti enormi quantità dei titoli emessi da Fannie e Freddie sono stati acquistati dalle banche centrali estere e dagli operatori internazionali, che così riciclano il surplus di dollari causato dal deficit estero americano. Per cui sul piano internazionale la creazione di liquidità riveniente dalla massa di dollari in circolazione continua senza soste. L’inflazionato e altamente speculato mercato azionario americano è solo uno dei percorsi della Superbolla di liquidità globale che si esprime: nei differenziali di credito collassati, nella domanda di titoli in dollari ormai emessi da aziende e paesi emergenti come fossero noccioline, nei prezzi crescenti delle commodities e delle valute considerate tali. Il rischio sono i tassi, e la situazione era scappata di mano solo a luglio 2003: da allora fino a settembre fannie e freddie hanno creato 160 miliardi (compresi i sopra citati 79,9 di settembre) di nuova “moneta”, problema risolto. Ma il sistema resta altamente vulnerabile ad un eventuale impennata dei tassi di interesse che potrebbe derivare proprio da una crisi del dollaro e dall’emergere dell’inflazione.
Questo sviluppo
ancora non è stato compreso dai più. La Fed manipola la curva dei
rendimenti per consentire profitti facili particolarmente al sistema
bancario; in pratica una forma di sussidio in grado di compensare i
buchi nei bilanci.Così impedisce che vi sia la restrizione creditizia
che altrimenti dovrebbe avvenire. Oggi, la comunità finanziaria
tutta, cerca facili profitti dalla generosità della Fed, e il Nuovo
Gioco viene fatto con un attenzione ed una ferocia mai sperimentata
prima.
Cosa comporta tutto ciò? Comporta che il grado di speculazione
finanziaria e le risultanti distorsioni economiche si espandono di
pari passo alla bolla del sistema creditizio. Ricordo che lo stock di
crediti è passato dai 13 trilioni di $ all’inizio degli anni 90, fino
ai quasi 32 della fine del 2002 cioè è aumentato di circa il 250% a
fronte di un PIL cresciuto nel frattempo di poco più del 30%. Così,
perfino con il collasso del Nasdaq, la Fed ha mantenuto un potere
straordinario nel manipolare i profitti finanziairi e incitare
all’attività di prestito. I tagli dei tassi hanno consentito alla Fed
la capacità di inflazionare il valore di mercato del massiccio stock
creditizio e la Fed ha beneficiato di una vasta audience formata
dagli speculatori a leva finanziaria e dai creatori di credito non
bancari(le varie fannie mae, freddie mac e simili). Paradossalmente,
e significativamente, a dispetto dello scoppio di una delle maggiori
bolle della storia, la caduta dei mercati azionari è stata più che
compensata dall’enorme crescita della speculazione creditizia. Con
fiumi di denaro affluenti agli hedge fund(cioè operatori con leva
finanziaria) e con i tagli dei tassi assicurati , la dimensione
complessiva della speculazione finanziaria non ha fatto altro che
crescere. Adesso però ci si trova con meno munizioni disponibili e
vicini all’esaurimento dei tassi d’interesse, per cui Greenspan sta
giocando la sua carta finale, con la complicità della comunità
finanziaria , sostenendo la bolla creditizia ed incitando un
incremento senza precedenti dei prestiti ipotecari. Ciò nonostante
non c’è dubbio che stia perdendo molto della sua flessibilità. Vi
sono stati alcuni sviluppi importanti lungo questa strada: lo
straordinario rigonfiamento dell’effetto leva e della speculazione
attraverso tutto il sistema finanziario americano ha enormemente
aumentato il rischio sistemico di “reflazione”. In effetti, mai come
ora il sistema si trova esposto ed estrememente vulnerabile ad un
rialzo dei tassi d’interesse, dai settori iperindebitati dei
consumatori e delle imprese all’arena degli speculatori e degli
intermediari finanziari esposti (basti pensare cosa succederebbe di
fronte a un crollo dei prezzi delle case: il castello di carte si
sgretolerebbe, leggersi il capitolo Parabola).
Nel contempo tocca fare i conti con la realtà economica, per cui un
sempre maggiore credito e gli eccessi speculativi, producono
rendimenti marginali decrescenti nella squilibrata economia reale.
E’ la storia dell’esperienza post bolla azionaria – cioè un economia
distorta che si è stabilizzata solo attraverso enormi eccessi
finanziari. E non c’è assolutamente via di fuga da tale realtà.
La Fed si trova all’angolo, senza alternative : deve continuare a
favorire prestiti, leva finanziaria e speculazione. Questo è un fatto
con cui io e pochi altri siamo fissati già da tempo, solo perché non
possiamo non considerare questo persistere della capacità di
manipolare i profitti finanziari ed incitare agli eccessi finanziari.
Per certi versi si può dire che la Fed non è mai stata tanto potente
come oggi: certamente non ha mai giocato con una simile folla enorme
ed in adorazione. E più grande è il rischio che questo castello di
carte finanziario crolli, più è la determinazione , l’aggressività e
la connivenza della Fed.
Continuo a leggere analisi che non considerano tutto ciò, nonostante
l’evidenza di bancarotte in crescita e disoccupazione in aumento
mentre altri sottolineano la divergenza atipica tra l’azionario, che
scommette sulla ripresa, e l’obbligazionario che sconta la deflazione
e la recessione. Apparentemente, si dice, uno dei due mercati
sbaglia. Invece questo modo di ragionare manca completamente di
centrare il punto chiave. Qualcosa di molto significativo sta agendo,
visto il collasso dei rendimenti e dei premi per il rischio. Sta
divenendo sempre più diffcile contrastare l’idea che l’azione
di “liquefazione” del sistema da parte della Fed sia stata di
successo. Soprattutto non si capisce appunto che la
Fed ha cambiato le regole del gioco. Da dieci anni è stata forzata a
usare i tassi a breve termine per favorire i profitti nel tentativo
disperato di evitare il collasso del sistema e la depressione
conseguente. I suoi comportamenti hanno avuto troppo successo: ne è
conseguita una corsa all”innovazione” verso un sistema creditizio
basato sui titoli(la famosa securitization), con la proliferazione di
speculazione a leva, ingegneria dei derivati, intermediazione del
rischio, assicurazione dei crediti, e conseguenti bolle storiche
degli asset, che a loro volta hanno forzato la Fed a garantire una
crescente liquidità al mercato finanziario. A ogni passo di questa
evoluzione, la Fed ha nutrito gli eccessi e “l’evoluzione” è
accelerata; ora non può tornare indietro. E’ proprio vero che le
dinamiche delle bolle hanno radici profonde.
Nel 2002 sembrò a un certo punto che la Fed fosse vicina alla
fine: diveniva sempre più chiaro che la Grande Bolla Creditizia stava
per scoppiare . La Fed non aveva altra scelta che giocrare la carta
finale e muoversi dalla garanzia di tassi a breve bassi, verso la
garanzia di anche tassi a lungo bassi, assicurando al contempo che
quelli a breve sarebbero restati vicini allo zero . Per giustificare
questa alterazione clamorosa delle regole del gioco ha iniziato a
parlare di una sofisticata lotta preventiva contro la deflazione. Per
cui diviene ovvio che ci si deve spostare dalla semplice congettura
se le politiche Fed sono o saranno efficaci, al cercare di capire
piuttosto, le ramificazioni e le conseguenze del Grande esperimento.
Prima di tutto, pare che siamo tornati a una situazione in cui azioni
ed obbligazoni condividono un interesse comune: il diluvio di
liquidità. Paiono andati via i giorni in cui questi due mercati
avevano opposti o divergenti bisogni e desideri. Ci dovremo
aspettare che i gestori di obbligazioni si asterranno dal predire
disastri dell’azionario, così come i gestori di quest’ultimo non
parleranno della bolla sui rendimenti. La Fed ha disegnato un
percorso che può nutrire entrambi. Con il Nuovo Gioco che garantisce
una potente confluenza di abbondante liquidità, tassi ultra bassi a
breve, tassi bloccati a lungo, gli speculatori a leva (insieme ai
prestatori aggressivi, ai giocatori sui derivati, e al sistema
creditizio in genere) improvvisamente tutti non hanno più bisogno di
contrastare l’azionario. E’ finita la trepidazione del mercato
obbligazionario circa il fatto che i rally dell’azionario
infondessero fiducia nella ripresa economica con conseguente calo dei
loro assets. In effetti Wall Street è velocemente venuta alla
gloriosa convinzione che un mercato azionario rampante è ora positivo
per il business delle banche senza neanche danneggiare le loro
enormi quantità di titoli detenuti con leva. Dovremo scusarli per
essere ancora una volta ricaduti nelle grinfie del nirvana
finanziario!.
D’altronde la Fed ha creato un ambiente straordinario per il settore
fianziario, e chi se ne importa se tocca ripudiare l’interazione tra
domanda e offerta e il suo impatto sul prezzo del credito, il cui
rubinetto è aperto a manetta senza sosta. Ma con una Lucent che
raccoglie 1,5 miliardi di $, ed i prestatori disposti a dare
altrettanto per finanziare Adelfia communications, come potrà
combinarsi la crescita del credito alle imprese con l’indebitamento
record del governo e delle famiglie? Ecco perché la mia analisi si
conclude con l’idea che siamo entrati nella fase finale,quella
parabolica, della Bolla creditizia, di fronte a cui anche il Nasdaq a
5 mila sarà destinata a passare in secondo piano.
Anche se non è tipico, i “tori” dovrbbero cercare di controllare
la loro euforia. Dopo tutto c’è una
lunga storia su come questi stadi terminali finiscono, e questo
disastro annunciato, farà Storia. Non c’è assoluamente alcuna
possibilità che il diluvio di liquidità finisca per sistemare gli
squilibri dell’economia USA. Il mercato immobiliare, il settore con
il più evidente processo inflazionistico in atto – ha iniziato una
fase pericolosa. Località con poche scorte di case esistenti,
sperimenteranno ulteriori distorsioni nei prezzi, mentre le aree con
possibilità di nuove costruzioni sperimenteranno eccessi di offerta.
La situazione per ora chiaramente risente del selvaggio influsso
della finanza speculativa, e ne risulteranno eccessi , come capitò al
settore delle telecomunicazioni nel 1999. Analogamente non vi sarà
possibilità di evitare la carneficina finanziaria e la distruzione
all’ingrosso di ricchezza provocata da simili enormi dislocazioni di
mercato.
E perché finanziare o costruire altra capacità produttiva quando i
profitti sono così facilmente fattibili giocando con la bolla della
finanza ipotecaria? Ma forse una porzione del selvaggio eccesso
creditizio troverà la strada di qualche investimento produttivo, nel
frattempo però la bolla ipotecaria fomenterà eccesso di consumo e
quindi deficit estero maggiore. Questo meccanismo continuerà a
iniettare liquidità nel mondo. Il dollaro sarà sotto pressione da un
lato, vi sarà una pressione di mercato continua affinchè questo
eccesso di liquidità in dollari venga cambiato in valute locali;
dall’altro, questo cataclisma di liquidità globale amplificherà la
paura di inflazione spingendo a detenere assets non in dollari. I
flussi speculativi cercheranno costantemente di uscire dal dollaro,
la cui vulnerabilità proverà il fallimento finale del Grande Esperimento.
Infine non dimentichiamoci del mercato azionario. Poiché la Fed non
ha il potere di dirigere la liquidità verso gli investimenti
produttivi, o anche solo di diffonderla equamente attravereso
l’economia reale, così essa non può far niente per trasformare il
mercato azionario anche solo in una parvenza di un meccanismo capace
di allocare efficacemente le limitate risorse economiche. Anni fà il
mercato azionario fu trasformato in un brutto gioco di speculazione
insensata, e neanche 3 anni di mercato orso sono stati in grado di
cambiare questa triste realtà. La speculazione destabilizzante si è
risvegliata dall’ibernazione e questo è un problema reale per il
sistema finanziario e l’economia, così come per la Fed che di nuovo
negherà l’esistenza di eccessi, finchè non sarà troppo tardi. Dopo
aver con successo incitato a prendere rischi tutto il mercato
creditizio, adesso è il caso che anche le aziende finanziariamente
deboli abbiano la loro boccata d’ossigeno, anche se non la meritano.
E poichè queste sono esattemente quelle aziende su cui si sono
accumulate ingenti posizioni scoperte durante l’Orso, le impennate
più assurde diventano possibili, per cui diviene addirittura più
profittevole comprare queste azioni che non quelle che abbiano
valore!.
Il Nuovo Gioco può procedere, ma alla fine ci saranno pochi vincitori
e molti perdenti. Le perdite saranno catastrofiche. La Fed, ancora
una volta perderà il controllo del suo “esperimento”. L’ammontare di
credito ed eccesso speculativo richiesto oggi per sostenere o anche
solo stimolare, la distorta economia USA è realmente spaventoso. E
mentre tutti i segnali oggi indicano una enorme disponibilità per
l’economia reale, il processo monetario disfunzionale renderà
l’allocazione delle risorse un lavoro particolarmente povero. Ci
possiamo scommettere. Io all’orizzonte vedo solo maggiori quantità di
finanza speculativa destabilizzante, endemici alternarsi di boom e
sboom, un economia erratica e senza speranze,un sistema creditizio
completamente alla deriva, ed un dollaro disastroso. E’ realmente una
deprecabile Bolla ed è un deprecabile Gioco quello che la Fed sta
giocando. Ma per ora, quello che io vedo così, per altri è l’alba di
una nuova era di benessere e ricchezza. Ai posteri l’ardua sentenza.




19- Derivati

Dicesi derivato un contratto finanziario il cui valore è derivato da qualcos’altro. Un opzione su un azione è un derivato perché il suo valore dipende dal valore dell’azione sottostante (anche se non solo da esso). I futures sul grano sono dei derivati del prezzo del grano. Gli ETF (exchange trade funds) sono derivati del valore degli indici cui si riferiscono. Un contratto a termine su valute è un derivato.
Perché sono nati i derivati?
La crescita nella ricchezza delle nazioni e del commercio è sempre ed ovunque stata accompagnata da un aumento nell’abilità degli operatori a controllare il rischio. Quando gli uomini sono capaci di controllare il rischio, ironicamente succede che essi possono prendere più rischi. Lo sviluppo di strumenti matematici per predire le probabilità di certi eventi è stato un fattore principale nella crescita.
Facciamo un esempio, e immaginiamo di essere degli armatori. L’esperienza ci dice che 1 nave ogni 10 non torna indietro. Sappiamo inoltre che potremmo avere un periodo particolarmente sfortunato in cui perdiamo 3 navi di fila. Se noi scommettiamo 1/3 del ns. patrimonio su ogni nave, potremmo perdere tutto se solo capitiamo in un periodo sfortunato. Ma se troviamo qualcuno disposto ad assumersi il rischio della nave, siamo disposti a pagargli una commissione in modo da non preoccuparci di eventuali eventi sfortunati. Naturalmente ciò comporta una riduzione dei profitti pari all’assicurazione pagata e che, con il senno di poi, avremmo potuto risparmiare se le navi invece tornano sane e salva. Ma, pagando l’assicurazione, possiamo investire di più nell’attività che ci interessa, per cui alla fine il profitto complessivo aumenta non diminuisce.
Questo è quello che successe a Londra più di 300 anni fa. Edward Lloyd che aveva un bar a Londra nel 1688, iniziò a prendere appunti sulle navi, sui porti e sulle condizioni all’estero, che erano usati dagli investitori per valutare i rischi, comprare navi, organizzare spedizioni e commerci,etc. Si rese conto, da buon appassionato di matematica attuariale, che esistevano i margini per offire un servizio assicurativo. Da lì nacquero i Lloyds di londra poi diventati mitici; nacquero sulla base di una forma pioneristica di derivato. Senza derivati, assicurazione e gestione del rischio, è impossibile immaginare una moderna società commerciale. Il ritmo del commercio e degli investimenti sarebbe troppo lento se imprese e individui non potessero controllare il rischio e quindi non potessero correre dei rischi in modo razionale.
Ogni Spyders, Oats, Cubs, Steers, Suns, strips, options, futures, swaps e centinaia di altri acronomi per un contratto che scambia il rischio tra due controparti sono forme di derivati, oggi indispensabili al mondo economico attuale.Naturalmente potremmo anche farne a meno, così come potremmo rinunciare a tante altre cose. Ma molti sarebbero sorpresi dalllo scoprire quanto di ciò che mangiano, vestono, etc. dipende dall’uso di derivati.
Dunque i derivati in sé sono una buona cosa, ma…..come sempre troppo di una buona cosa diventa un male. Il recente rapporto sul valore nozionale dei derivati oggi esistenti, rende lecito il dubbio che si sia sorpassato il limite: negli ultimi 5 anni il ritmo di crescita annua è passato da 180 miliardi di $ a oltre 2 trilioni di $(il totale dello stock esistente è stimato in oltre 100 trilioni di$ pari cioè a oltre 10 volte il PIL USA per dare un un punto di riferimento).
Il problema è che mentre una parte , delle due che contraggono un contratto derivato, copre il suo rischio, ve ne è un’altra che se lo sta prendendo. Se quest’ultima sottostima la natura del rischio, può incorrere in perdite molto grosse. Gran parte delle perdite di assicurazioni e banche nei mesi recenti sono state realizzate sui derivati dei rischi di prestito. Le assicurazioni hanno comprato questi rischi, usando modelli che adesso giudicano non adeguati all’effettiva valutazione dei rischi. Avrete notato che è esploso il boom delle cartolarizzazione dei prestiti : sono dei titoli derivati dai prestiti che le banche hanno concesso. Invece di tenersi il rischio di insolvenza dei medesimi, ed aspettare la loro scadenza per ritornare in possesso dei propri soldi, le banche cedono ad altri (investitori, risparmiatori, etc.) tale rischio sui prestiti offrendo in cambio un tasso di interesse lievemente più alto di quello di mercato(ma non pari a tutto il ricavo che ottengono dai medesimi, e che resta da loro percepito). Dal loro punto di vista è un operazione conveniente (soprattutto se hanno dubbi sulla qualità dei prestiti): sacrificano un po’ di reddito, ma si coprono totalmente dal rischio di insolvenza, e rientrano in possesso della liquidità. Il rischio passa a chi compra questi titoli, a fronte in un rendimento maggiore rispetto ai tassi di mercato, ma se poi le cose vanno male….peggio di quello che succede con le obbligazioni corporate che il caso Cirio ha riproposto anche agli italiani: qui vi è teoricamente la possibilità di controllare i bilanci (se sono veri) e valutare l’azienda e il suo mercato di riferimento; nelle cartolarizzazioni tutto questo è impossibile.
Guardiamo due casi spettacolori degli ultimi anni. Il primo riguarda il fallimento del long term Capital management(LTCM), un fondo in derivati gestito da due premi nobel ; questo fondo si specializzò nel trading delle convergenze tra titoli di stato, e raccolse una somma enorme da investire; pensarono che diversificando tra i titoli di diversi paesi fossero stati in grado di eliminare quasi totalmente il rischio. Per cui, sfruttando l’effetto leva dei derivati arrivarono a muovere 80 miliardi di $ per ogni miliardo che avevano disponibile come capitale. Ma quando scoppiò la crisi russa del 1998, la diversificazione non aiutò, e con perdite percentualmente piccole LTCM si mangiò tutto il capitale, data l’altissima leva cui era sottoposto. Nel frattempo le banche che avevano investito in LTCM(tra cui la Banca d’Italia) conoscevano la propria esposizione ma non sapevano qual’era l’esposizione totale del fondo, tenuta rigorosamente segreta dai gestori. Probabilmente non avrebbero investito se avessero avuto un quadro completo della situazione che era così enorme da mettere in pericolo la stabilità dell’intero sistema finanziario quando esplose. Fu il presidente della Fed di new York a salvare la situazione convocando i massimi responsabili i tutte le banche , le quali non poterono evitare la perdita dei propri fondi in LTCM, ma almeno si evitò l’effetto domino di insolvenze a catena tra le stesse.
Il secondo caso è quello della Barings bank: le cronache raccontano che la banca della regina fu rovinata da un trader singolo, Nick Leason; questi scommise sui futures dello yen e, attraverso l’effetto leva, l’intero capitale della banca fu spazzato via (la banca venne comprata per un cent dalla ING). In realtà la Barings fu rovinata dalla carenza delle sue procedure di controllo del rischio che avrebbero dovuto essere tali da impedire a monte che un singolo operatore potesse muovere (anche fraudolentemente) cifre di quel genere. Entrambi i casi sono serviti di lezione, e tutto il sistema da allora ha migliorato le proprie capacità di controllo. Ma, è evidente, se l’ammontare complessivo si impenna rapidamente, in marcati con la volatilità estrema che conosciamo, è difficile sentirsi tranquilli. Naturalmente fin quando si tratterà di default singoli, con l’aiuto delle banche centrali, il sistema sarà messo in condizione di sopportarli senza eccessivi traumi. Però, non sappiamo cosa potrebbero fare se avvenissero ad esempio più LTCM contemporaneamente.
Dunque, poiché non si può buttare il bambino con l’acqua sporca, e poiché non è lo strumento in sé ad essere un male (si potrebbe fare il parallelo con le armi), bensì l’uso scriteriato che alcuni possono farne, si torna alla grande problematica dei sistemi di controllo e vigilanza, ma soprattutto dei limiti quantitativi. Un espansione crescente come quella avvenuta negli ultimi 5 anni, non può continuare all’infinito. Soprattutto perché questo mondo di transazioni in gran parte è puramente telematico, e se dovesse avvenire un mega black-out informatico sarebbe letteralmente impossibile ricostruire chi doveva cosa a chi.
In conclusione il consiglio per il privato che vuole operare in derivati, resta quello di fare sempre operazioni mirate, senza tenere costantemente soldi esposti; sulle valute ad esempio molto meglio un contratto a termine (in cui non si escono soldi) piuttosto che un future (dove si esce il margine di garanzia) o un opzione (dove si paga il premio). Laddove ciò sia impossibile, sempre meglio far rientrare il margine versato, quando non si opera. L’idea insomma è: visto che non ci si può fidare di nessuno (come innumerovoli episodi mostrano) evitare il più possibile di lasciare soldi in giro. Magari non succederà mai niente, però un eccesso di prudenza non guasta, soprattutto se si ascolta Buffett .

Buffett sui derivati

Warren Buffett il 21 febbraio del 2003 ha rilasciato la consueta lettera annuale agli azionisti della sua società la BERKSHIRE HATHAWAY INC, in cui tra l’altro dichiara che le azioni sono ancora troppo
care. All’interno della lettera c’è un paragrafo sui derivati che è
un autentica perla in grado di far capire anche ai meno esperti la
situazione drammatica che si cela in questo settore. Ve la traduco e
ve ne raccomando un attenta lettura.

”Voglio illustrare cosa penso dei derivati e delle attività di
trading connesse: penso che sono una bomba a orologeria, sia per le
controparti coinvolte che per il sistema economico.
Lasciatemi spiegare cosa siano i derivati, anche se in termini
generali visto che questa parola copre uno spettro straordinariamente
grande di contratti finanziari.
Essenzialmente questi strumenti implicano il cambio di mano del
denaro a qualche data futura, con l’ammontare determinato da uno o
più voci di riferimento, come ad esempio tassi d’interesse, prezzi
azionari, cambi esteri, etc. Se per esempio uno si trova ad essere
lungo o corto di un future sullo S&P500, è parte di una molto
semplice transazione in derivati, con i guadagni o le perdite che
scaturiranno dal movimento dell’indice. I contratti derivati possono
avere durate le più disparate (alcune anche di 20 anni o più) e il
loro valore è spesso legato a diverse variabili (volatilità, tempo,
interessi, oltre al sottostante).
A meno che non si abbia a che fare con delle Casse di Compensazione
ufficiali, il valore ultimo di questi contratti dipende dal merito
creditizio della controparte. Nel frattempo, però, prima che il
contratto sia onorato, le controparti coinvolte registrano profitti e
perdite spesso di enorme ammontare, nei loro bilanci annuali anche se
non si è spostato neanche un cent.

Lo spettro dei derivati è limitato solo dall’immaginazione umana ( o
qualche volta, così pare, dei folli). Alla Enron per esempio furono
scritti sui libri contabili derivati sulla banda larga da regolarsi
dopo molti anni. O, altro esempio, uno potrebbe fare un contratto in
cui si specula sul numero di gemelli che nasceranno nel Nebraska
nell’anno 2020: nessun problema, ad un certo prezzo, troverà
facilmente una controparte.
Quando ho comprato la General Re, al suo interno c’era il settore
delle securities e scoprì che era un dealer in derivati, cosa che a
me non piaceva giudicandola pericolosa. Non sono riuscito ancora a
liberarmi delle operazioni pregresse, anche se le sto riducendo. Ma
liberarsi del business dei derivati è facile a dirsi, non a farsi. Ci
vorranno molti anni prima che potrò essere completamente fuori da
queste operazioni pur riducendo l’esposizione quotidianamente. Di
fatto, l’attività riassicurativa e quella dei derivati sono simili:
come l’inferno, per entrambe è facile entrarci ma quasi impossibile
uscirne. In entrambe, una volta che si è sottoscritto un contratto,
che può richiedere cospicui pagamenti decenni più tardi, normalmente
ci si ritrova incatenati. Certo, vi sono metodi con cui ridurre i
rischi trasferendoli ad altri, ma quasi tutte le strategie comportano
sempre che residuino delle passività.

Un’altra cosa in comune a riassicurazioni e derivati è che entrambe
generano utili di bilancio spesso molto gonfiati. Il che dipende dal
fatto che tali utili sono basati su stime future la cui fallacia può
venire nascosta per molti anni. Di norma gli errori sono fatti
onestamente, perché riflettono la tendenza umana ad avere una visione
ottimistica dei propri impegni. Ma le controparti hanno anche enormi
incentivi a essere ottimisti. Coloro che commerciano in derivati sono
usualmente pagati (in tutto o in parte) sugli utili calcolati a fine
anno sul cosiddetto valore di mercato del momento. Ma spesso non
esiste nessun reale mercato (si pensi all’esempio dei gemelli), ciò
nonostante si utilizza il modello del “mark-to-market”, che può
portare a alterazioni su vasta scala. La regola generale è che i
contratti coinvolgano molteplici riferimenti e date di scadenza
lontane, il che aumenta la possibilità che le controparti usino
valorizzazioni fasulle ogni fine anno. Nell’esempio dei gemelli, le
due controparti potrebbero benissimo usare ciascuna criteri diversi
così portando entrambe degli “utili” fittizi per molti anni, anche se
per definizione uno dei due perderà se l’altro guadagnerà. In casi
estremi questi criteri degenerano in quello che io chiamo:
contabilizzare il mito (mark-to-myth).
Naturalmente gli auditors sia interni che esterni controllano i
numeri, ma non si tratta di un lavoro facile. Ad esempio, General Re
securities a fine anno (dopo dieci mesi in cui ho cercato di ridurre
l’esposizione) aveva 14384 contratti in essere, coinvolgenti 672
controparti nel mondo. Ogni contratto ha una plus o una minus
derivante da uno o più parametri di riferimento, inclusi alcuni di
complessità mostruosa: valutare un portafoglio simile, per quanto gli
auditors siano esperti potrebbe facilmente e onestamente comportare
una miriade di opinioni molto diverse. Il problema della valutazione
non è accademico: in anni recenti alcune enormi frodi o quasi frodi
sono state facilitate dai derivati. Nell’energia e nelle utilities,
ad esempio, aziende aduse alle attività sui derivati hanno
portato “grandi utili “ fino a quando il tutto non è crollato nel
momento in cui hanno cercato di convertire tali utili contabili in
cash effettivo. Ecco come il mark-to market si trasforma in mark-to-
myth.
Posso assicurare che gli errori contabili sui derivati non sono
stati simmetrici. Quasi sempre, hanno favorito sia i trader con
incentivi multimilionari sia i CEO che volevano impressionare il
mercato con gli “utili”; i bonus sono stati pagati e i CEO hanno
beneficiato da queste valutazioni: solo molto dopo gli azionisti
hanno appreso che questi utili erano una bolla di sapone.

Un altro problema con i derivati è che possono esacerbare i problemi
di una impresa, per motivi completamente diversi. Un effetto domino
poi capita , perché molti contratti richiedono alle aziende che
vengano degradate nel merito creditizio, un aumento delle garanzie
collaterali. Immaginate, allora, che un azienda sia degradata a causa
delle condizioni generali di mercato e che i suoi derivati richiedano
un immediato aumento delle garanzie, imponendo un inatteso
fabbisogno di cash: questa necessità può portare l’azienda ad una
crisi di liquidità che può in alcuni casi a sua volta provocare
ulteriori degradi. Il tutto crea una spirale che può portare al
fallimento.
I derivati possono anche creare una rischiosa catena, come il rischio
corso dagli assicuratori che girano molta parte del loro business ad
altri. In entrambi i casi, enormi passività verso molte controparti
tendono a costruirsi nel tempo. Alla General Re noi ne abbiamo ancora
6,5 miliardi di $, pur avendo cercato di eliminarne il più possibile
da quasi un anno. Un partecipante può ritenersi prudente,credendo di
aver diversificato le sue esposizioni creditizie più grandi, e
pertanto non in pericolo. In certi casi, però, un evento esogeno che
causa il fallimento della azienda A coinvolgerà anche l’azienda B
fino alla Z. La storia ci insegna che una crisi spesso causa
problemi correlati in una maniera impensabile in tempi tranquilli.

Nell’attività bancaria, proprio l’esistenza di un problema di
collegamenti è stata una delle ragioni per la formazione della FED.
Prima che la FED fosse creata, il fallimento di una banca debole a
volte creava improvvisi e imprevisti bisogni di liquidità a banche
altrimenti forti, trascinandole verso il fallimento. La FED adesso ha
il compito di isolare i forti dai deboli, ma non c’è nessuna banca
centrale che abbia il compito di prevenire questi effetti domino
nell’attività assicurativa e nei derivati. In questi settori,
aziende che sono fondamentalmente solide, possono divenire deboli
semplicemente a causa dei travagli di altre più a valle nella catena.
Quando esiste la minaccia di una “reazione a catena” in un industria,
conviene minimizzare i collegamenti di ogni tipo. Per questo motivo
nel nostro business riassicurativo cerchiamo di ridurre i “links” e
stiamo uscendo dai derivati.

Molti sostengono che i derivati riducono i problemi sistemici
(Greenspan ), nel senso che i partecipanti che non possono sopportare
certi rischi possono trasferirli ad altri con le spalle più larghe.
Si ritiene quindi che i derivati stabilizzino l’economia, facilitino
i commerci, ed eliminino i problemi per i singoli partecipanti. E, a
livello micro, ciò è spesso vero. Ma io credo che a livello macro, la
situazione sia pericolosa e lo stia divenendo sempre di più. Ampi
ammontari di rischio, soprattutto rischio creditizio, si sono
concentrati nelle mani di pochi dealers, che inoltre fanno trading
intenso l’un con l’altro. I problemi di uno, potrebbero velocemente
infettare gli altri. Per giunta, questi dealers sono debitori di
enormi importi con controparti nondealers. Alcune di queste sono
collegate in modi che potrebbero causare loro la contemporanea caduta
in difficoltà per a un singolo evento (come l’implosione
dell’industria delle telecomunicazioni o il precipitoso declino di
valore nei progetti di merchant banking). I collegamenti, quando ciò
succede improvvisamente, possono provocare seri problemi sistemici.

Infatti nel 1998, le attività pesantemente derivate e altamente
leveraged di un singolo hedge fund , LTCM, provocarono molta ansia
alla FED che organizzò un salvataggio in piena regola. Nelle
successive testimonianze al Congresso, Greenspan riconobbe che se non
interveniva, la crisi di LTCM – un fondo poco conosciuto e con solo
qualche centinaio di impiegati – avrebbe posto una seria minaccia
alla stabilità dei mercati americani. In altre parole, la FED agì
perché aveva paura di quello che sarebbe potuto accadere alle altre
istituzioni finanziarie se l’effetto domino si fosse innescato. E
questo caso, pur avendo paralizzato il mercato del reddito fisso per
settimane, non era uno dei peggiori. Uno degli strumenti derivati di
cui LTCM facevo ampio uso era il cosiddetto “total-return swap”
contratto che consente il 100% di effetto leva in vari mercati,
incluso quello azionario. Ad esempio, la controparte A – di norma una
banca - mette il capitale necessario all’acquisto di un azione,
mentre la controparte B, senza metter alcun denaro , è d’accordo che
a una data futura incasserà o pagherà l’eventuale guadagno o perdita
che la controparte A realizza. Questi swaps servono a eludere gli
obblighi di marginazione (cioè si può speculare su un corso azionario
senza metterci un soldo). Oltre a ciò altri tipi di derivati aggirano
la possibilità che le autorità di controllo possano contenere il
grado di leverage, ed in generale alterano i profili di rischio di
banche, assicurazioni e altre istituzioni finanziarie. Perfino
investitori esperti incontrano grossi problemi quando devono
analizzare le effettive condizioni finanziarie di un azienda che sia
coinvolta con i derivati. Quando finisco di leggere le lunghe note a
piè di pagina che descrivono le attività in derivati delle
principali banche, la cosa che capisco è che non capisco quanto
rischio questa istituzione stia correndo.

Il genio derivativo è ormai ben fuori della bottiglia, e questi
strumenti certamente si moltiplicheranno nelle forme e nelle quantità
finchè qualche evento non ne farà capire la loro tossicità. La
conoscenza di quanto siano pericolosi siano, è stata già resa
necessaria da quello che è successo nel settore elettrico e del gas,
in cui l’eruzione di enormi problemi ne ha provocato la diminuzione
netta. Ma altrove i derivati continuano ad espandersi senza
controlli. Le banche centrali e i governi non hanno finora trovato il
modo di controllarli, o anche solo monitorarli.
Io provo a stare attento a ogni sorta di rischio mega catastrofico, e
ciò mi rende apprensivo circa la quantità di derivati a lungo
termine, e la massiccia quantità di passività non garantite che
stanno crescendo ogni dove. Penso che i derivati sono un arma per la
distruzione di massa, finanziariamente parlando, comportanti pericoli
che – per ora latenti – sono potenzialmente letali.”


Finanza Strutturata

Durante il boom, bastava il pensiero di un taglio dei tassi per
innestare un cocktail speculativo nei mercati finanziari e aumentare
all’istante il Credito disponibile: era il “meraviglioso” sistema del
credito garantito da titoli, tuttora vigente.
Oggi però, dopo anni di abuso creditizio speculativo ci ritroviamo
con un sistema economico e finanziario distorto che inizia a
rispondere agli stimoli in modo molto diverso. Prima di tutto, i
tagli dei tassi non riescono più a incitare risposte speculative
(dopo anni di iper-stimolazione). Inoltre, vi è un impatto marginale
sul credito disponibile, minimo o quasi nullo. Infine, tagli corposi
dei tassi tendono solo ad esacerbare il rischio inflazionistico nei
settori affetti da eccesso di credito disponibile.
Possiamo vedere queste dinamiche in piena azione attraverso
la maniacale finanza ipotecaria che sta impattando sui prezzi delle
case così come sui prezzi dei titoli garantiti da mutui, per non
parlare dell’ aumento del deficit commerciale (perché si riversa nei
consumi), che per essere finanziato deve attrarre capitali che spesso
e volentieri finiscono per acquistare proprio i titoli garantiti dai
mutui ipotecari: si è creato così un’altro circolo vizioso , la Bolla
della Finanza Strutturata (cioè dei titoli costituiti da strutture ,
come le emissioni garantite da mutui).
Negli USA, alcuni settori in piena inflazione ( ad esempio
il mercato immobiliare californiano o la sanità o l’energia)
assorbono credito a danno di altre regioni o settori. Non c’è modo di
evitare, a questo stadio e andando avanti così, che l’espansione
creditizia si diffonda in modo iniquo nell’economia reale.
Certamente aumenteranno invece gli eccessi già esistenti e
l’instabilità complessiva della sfera finanziaria.
Come sopramenzionato, vi è anche il riflesso macro scaturente dal
comportamento delle autorità americane impegnate a sostenere i
consumi, già in eccesso, e cioè il sempre crescente deficit
commerciale. Oggi un enorme quota dell’inflazione creditizia
viene “esportata”. E’ un classico caso di ulteriore espansione
rischiosa della finanza che non riesce a dare alcun beneficio alla
depressa economia del dopo Bolla. L’iper-indebitato consumatore
rappresenta anche un rischio di credito crescente per la qualità
degli asset del settore finanziario. Inoltre così si finisce per
dare più carburante alla già irresponsabile comunità speculativa ad
alto leverage.

Questa fornitura di credito addizionale pareva funzionare finchè i
flussi speculativi venivano subito riciclati dal mercato azionario e
obbligazionario: dunque, aumento del credito – mercati in rialzo –
economia in ripresa e dollaro forte. I flussi speculativi auto
rinforzatesi sono stati ampiamente responsabili della grande
illusione di un Re Dollaro immortale, non scalfibile neanche
dall’eccesso di moneta e dalle difficoltà macroeconomiche. Invece,
alla fine, l’illusione si è rivelata pericolosa e auto distruttiva;
andando avanti, l’esportazione di inflazione creditizia fornirà
crescenti manifestazioni dannose.
Val la pena di ripetere che ritengo la destituzione di sua maestà il
dollaro uno spartiacque nella storia finanziaria ed economica.
Seguendo un evoluzione simile ad altri grandi mercati toro, la sua
fine si concretizzerà in un periodo finale selvaggio e dirompente di
eccessi creditizi. Come minimo, la crisi del dollaro segnerà una
svolta fondamentale nella natura delle conseguenze della grande bolla
creditizia. Vale a dire sfocerà in una situazione di grande
instabilità sistemica, in prezzi erratici sia delle cose reali che
di quelle finanziarie, negli USA e nel mondo.
E’ opportuno pertanto riflettere su cosa comporterà tutto ciò per i
fabbricatori e gli intermediari della sempre crescente montagna di
assets finanziari.
Come sopra ricordato, abbiamo raggiunto lo stadio in cui si richiede
una massiccia e continua formazione di eccessi creditizi per non far
scoppiare la Bolla della Finanza Strutturata, che è divenuta per
necessità la dominatrice del processo di creazione del credito. Solo
questo meccanismo infatti può oggi trasformare grandi quantità di
rischi creditizi in titoli ad alto rating e appetibili al mercato. La
Finanza Strutturata in sostanza ha vinto il comando del sistema
monetario e creditizio con conseguenze ancora sconosciute, non ci
sono precedenti storici di questa ampiezza.
Però, stanno iniziando a venire a galla i problemi nell’ambiente
della Finanza strutturata. Quest’ultima si basa sull’atto di fede che
nel lungo termine non muteranno le correlazioni scaturenti dai dati
storici, dalle analisi statistiche, dalla modellistica econometrica:
insomma tutto riposa sull’idea che il futuro sarà simile al passato
(recente per di più). L’incertezza è tenuta fuori dall’equazione.
Ed invece l’incertezza regna sovrana: non vorrei trovarmi nei panni
di chi ha fornito le garanzie alla cartaccia che gira.

Cosa provocherà lo scoppio di questa Bolla? Il rialzo dei tassi, ed ogni riduzione della
liquidità potrà avere effetti analoghi. Oggi negli USA la principale
fonte di liquidità sono i mutui ipotecari, il che è problematico a
vari livelli. E’ semplicemente incredibile che alle famiglie sia
stato consentito di caricarsi di così tanti debiti, provocando
squilibri reali e fragilità finanziaria.
La Finanza Strutturata ha trasformato carte di credito, prestiti per
acquisto auto, mutui, etc. da elemento periferico a motore centrale
dei meccanismi creditizi, creando le premesse per la propria
autodistruzione.
Non possiamo neanche consolarci che il tutto sia
equilibrato da una diminuzione dei debiti delle aziende.
L’instabilità finanziaria è generale ed è molto probabile che alla
fine la Finanza Strutturata entri in crisi portando al circolo
vizioso: meno credito disponibile- riduzione sistemica della
liquidità – crollo dei prezzi degli assets e del dollaro.
Non possiamo sapere quanto velocemente ciò avverrà, ma è importante
capire che si tratta dell’anello più debole della catena finanziaria
costruita negli ultimi disgraziati anni. Il 2002 è stato un anno record per i fallimenti aziendali nel mondo e anche in Italia abbiamo avuto il primo(Cirio).
Le banche ringraziano i derivati sui prestiti, che a quelle americane hanno consentito di evitare una grande debacle. Perciò la “moda” si è immediatamente trasferita ovunque, e anche in Italia.
Se facciamo un passo indietro, scopriamo che questo tipo di derivati ha contribuito grandemente all’espansione senza limiti del credito a fine anni 90, negli USA. Invece di migliorare i sistemi di misurazione del rischio, questa scappatoia ha incoraggiato l’adozione di di metodi di analisi creditizia che stanno contribuendo alla volatilità finanziaria senza precedenti oggi sotto gli occhi di tutti. Nella classica operazione derivata sui prestiti, swap (scambio) o securitization(cartolarizzazione) , troviamo le banche(soprattutto americane) come venditori del rischio e le assicurazioni (soprattutto europee) come compratori del medesimo. Pensate che negli USA nonostante default aziendali per circa 20 miliardi di $, le perdite su prestiti riportate dalle banche commerciali sono appena il 10% del patrimonio(mentre nella recessione del 1991 erano il 35%). Qualcuno dice che ciò che è buono per le banche è buono per l’economia; con la cartolarizzazione dei prestiti, le banche evitano di entrare in crisi, e così salvano il ciclo economico. Infatti impacchettano le sofferenze in titoli che rifilano agli altri, così possono dirci che non hanno sofferenze.
Ma questo scenario roseo tiene fin quando coloro che assorbono le perdite, continuano a farlo. E vi sono diversi motivi per ritenere improbabile che le assicurazioni e gli investitori individuali continueranno a incassare perdite come finora. Primo, perché vengono pagati troppo poco per il rischio che corrono; gli assicuratori finora hanno regalato capitali alle banche, che pur non essendo perfette nella valutazione dei rischi sui crediti almeno sono dotate di professionalità specifiche; ma quando sono apparsi gli asssicuratori, cui rifililarli, le banche hanno perso interesse a impegnarsi nella valutazione della qualità di un prestito lungo tutta la sua vita. L’unica cosa che hanno dovuto fare è stata dare vita al prestito, e poi rivenderlo: senza un incentivo alla prudenza, diviene inevitabile che la qualità dei prestiti si deteriori, e le banche iniziano ad avere un ruolo troppo grande in quel gioco folle che si chiama “creazione del credito”. Le banche centrali, particolarmente la FED hanno chiuso tutti e due gli occhi, anche quando –nel caso di marchi noti – le banche hanno fatto lo stesso giochino con i risparmiatori privati, facendo emettere obbligazioni alle aziende invece di finanziarle loro(come da noi con Cirio).
Secondo, in futuro sarà difficile che , assicurazioni o altri, abbiano le risorse necessarie. Le assicurazioni si sono riempite di questi rischi in una fase in cui i loro bilanci erano gonfiati dalla bolla azionaria; in quella fase molte compagnie hanno aumentato la percentuale di azioni nei propri portafogli dal tradizionale 10% fino al 50%; per cui il loro anomalo ruolo crescente nel processo creditizio è venuto a dipendere dal livello della Borsa. Come gli studenti giapponesi di economia bancaria sanno bene, questa situazione genera meraviglie nelle fasi di boom, e orrori in quelle di sboom. Durante l’Orso le assicurazioni hanno visto i loro coefficienti di adeguatezza patrimoniale crollare, e sono state forzate a vendere azioni, ed ora non vogliono più sentir parlare di accollarsi il rischio sui prestiti delle banche ( almeno così dovreebbero fare, escluse quelle che fanno parte di gruppi bancari-assicurativi in cui la proprietà scarica dalle une alle altre la patata bollente, come conviene loro in quel determinato momento: dunque meglio stare alla larga dai gruppi misti, tanto alla moda).
Nel passato le banche sono state responsabili per la loro quota di follìa, e come esperti creditizi avevano il vantaggio di conoscere i loro clienti e i prestiti venivano concessi (di norma) in modo significativo solo in caso di una relazione di lungo termine. Inoltre l’esistenza di molte banche produceva una varietà di opinioni e valutazioni; ed è proprio in questa varietà che si ritrova l’essenza dell’efficienza del mercato. Con i derivati sui prestiti, la valutazione del rischio di fallimento si allontana dalle banche e si disperde tra le compagnie assicurative, , di cui non è il mestiere: non avendo alcuna relazione diretta con i debitori, gli assicuratori adottano dei metodi standard per l’analisi del rischio creditizio, alla stessa esatta stregua di quanto fanno con le obbligazioni. E questo crea la grande inefficienza: tratttare come fossero obbligazioni, i meriti creditizi aziendali.
Durante il Toro, la capitalizzazione borsistica crescente di un azienda è divenuta una giustificazione sufficiente per dargli credito crescente. Così è potuto accadere che le varie Telecom(tedesche, francesi, italiane) ottenessero più di un trilione (mille miliardi) di $ di prestiti tra il 1998 e la fine del 2001.
Lo stesso processo si inverte quando c’è l’Orso: capitalizzazioni borsistiche decrescenti vengono servite con meno credito e a costi maggiori. Addiruttura può capitare che un azienda priva dei favori del mercato azionario scopra che le compagnie assicurative si coprono dai suoi prestiti cartolarizzati che le banche hanno loro rifilato,vendendo le sue azioni(questo è quello che è successo alle varie Deutsche telecom e che ne spiega la violenza e la rapidità del crollo in borsa). Ovvio che questo meccanismo può facilmente mettere in ginocchio chiunque in una spirale perversa.
Appare evidente che questo sistema, creatosi sotto gli occhi benevolenti delle autorità, è proprio quello che ci vuole per far andare in tilt il tutto: durante le bolle , le gonfia a dismisura; durante lo scoppio ne amplifica mortalmente gli effetti. E’ l’esaltazione del mercato inefficiente.




20- PARABOLA
Immaginate una quieta e tranquilla città vicina ad un fiume. Nella sua storia questo fiume è stato occasionalmente fonte di disastrose esondazioni in grado di spazzare via le case circostanti. Prudenza e rispetto per i precedenti storici fanno sì che ben pochi individui si sentano di costruire una casa in prossimità del fiume. Ma dopo diversi anni senza esondazioni, in un periodo anzi di siccità costante, e forse spronata dalla situazione stagnante sia nel settore immobiliare che in quello assicurativo, un assicurazione locale che chiameremo Morgan, inizia a offrire limitate protezioni assicurative sul rischio di esondazione. Cautamente, questa iniziale copertura viene offerta solo per le case costruite fino a 100 metri dal fiume e con un premio costoso. Qualcuno tra i residenti meno avversi al rischio, coglie l’opportunità : si cominciano a costruire immobili, inclusa una bella villa per il sig. Morgan l’assicuratore. La notizia che esiste un assicurazione per l’esondazione non passa inosservata all’azienda rivale che chiameremo Goldman. Nel giro di poco la Goldman inizia a offrire la medesima polizza e la estende anche all’interno degli ultimi 100 metri. Non sorprende che questa offerta diventi appetita, e subito iniziano altre costruzioni a bordo del fiume, inclusa la più grande casa della città, un castello costruito dal sig. Goldman. Nasce un boom economico nella comunità cittadina, per i costruttori, i carpentieri, i fornitori di bagni, gli agenti immobiliari, per non parlare delle banche locali estasiate dalla crescita dei mutui e relativi profitti. Le compagnie assicurative prosperano perché i premi vengono incassati senza alcun costo immediato, non verificandosi alcuna esondazione dopo molti anni di siccità. In breve, la sottoscrizione di polizze per l’esondazione diviene l’affare migliore in città: Morgan e Goldman vengono riveriti come geni, i giovani aspirano a divenire venditori di polizze. Altre compagnie arrivano a offrire il prodotto; le banche locali pure (fanno bancassicurazione). Si inizia a sviluppare il mercato della ri-assicurazione: Morgan e Goldman infatti iniziano a voler ridurre la propria esposizione e rivendono in parte le polizze da loro sottoscritte, quindi i rischi da essi assunti, ad altri assicuratori. I residenti che hanno costruito le case lungo il fiume, investono a loro volta nelle azioni delle assicurazioni che vendono queste polizze o che le riassicurano: tutti vogliono incassare il reddito proveniente dalla scommessa che non vi sarà un esondazione. D’altronde la disponibilità delle polizze provoca un vero e proprio boom immobiliare lungo le rive del fiume. Tutti sono d’accordo sul fatto che l’invenzione di queste polizze rappresenti la miglior cosa successa in città, e tuti estrapolano i recenti aumenti di ricchezza nel futuro, mentre l’economia locale prospera come non mai. Dopo tutto, ogni anno le case divengono più grandi e più belle, mentre i profitti di assicuratori, banche e costruttori crescono esponenzialmente. Non solo. Vivere lungo il fiume, diviene la cosa più appetita e ognuno che sia “qualcuno” lo desidera: lo status migliore appartiene a chi ha le case più grandi e più vicine al fiume nei punti più belli. Con le banche che assicurano finanziamenti facili, i prezzi delle case iniziano a salire, creando fiducia nei proprietari che rifinanziano i propri mutui usandone il riavato anche per altre spese. Tra l’altro arrivano anche banche da fuori che aprono filiali attratte dal doppio business mutui-polizze, provocando un calo dei costi e quindi dei margini sull’attività, ma non importa si punta alla quantità. Il rivenditore di BMW fa affari come mai, e così il gioielliere, insomma si prospera tutti, un vero e proprio circolo virtuoso (diviene anche di moda comprare le vecchie modeste case preesistenti, per abbatterle e ricostruirle ex-novo, con rifiniture di lusso). Man mano che questa “nuova economia” si afferma la comunità cittadina perde interesse nella “vecchia economia”: molte vecchie attività vengono chiuse e ci si ricicla nelle nuove, molti lasciano i precedenti posti per divenire venditori (di polizze, o dicase o di prestiti, o di correlati).
La percezione generale è quella di una vena aurifera senza fine, e non parteciparvi farebbe sentire idioti. Cresce una nuova mentalità, i cui comportamenti sembrano perfettamente razionali. Resta solo qualche anziano che diffida perché si ricorda che nel passato lontano erano successe tremende esondazioni, ma i media locali bombardano dicendo “ora è diverso”, il clima è definitivamente cambiato in questa zona. Dopo anni di siccità hanno gioco facile, mentre banche ed assicurazioni hanno iniziato a dominare tutti gli aspetti della comunità: decidono quali industrie o aziende hanno accesso al capitale, e fanno sì che i loro amici e clienti entrino nei migliori affari.
Le banche più prudenti, che in passato si erano ben guardate dagli eccessi, vengono acquisite o messe fuori gioco; quelle che invece si convertono, per recuperare il tempo perso diventano tra le più aggressive anche nella ri-assicurazione.Per stare dietro al crescente volume di polizze e prestiti, banche ed assicurazioni riducono anche l’ammontare di riserve precauzionali; nel frattempo iniziano ad assumere brillanti matematici e previsori del tempo con alti salari che sviluppano sofisticati modelli e strategie per assicurare che saranno in grado di prevedere in tempo improbabili cambiamenti climatici. Per anni, tutto funziona. Certo c’erano occasionali tempeste che alzavano il livello del fiume, creando subito momenti di panico tra assicuratori e riassicuratori: quando la folla di quelli che volevano trasferire i rischi aumentava, c’erano i più aggressivi che si trovavano in difficoltà e qualcuno falliva. Ma complessivamente le tempeste passavano rapidamente senza creare danni; a volte nei casi peggiori, vi era un blocco del mercato e dei momenti di tensione. Allora intervenivano le autorità di controllo, ritoccando qualche regolamento in senso restrittivo; ma ciò nonostante non appena passato il momento di crisi, si riprendeva a indebitarsi, assicurare, costruire più di prima. Soprattutto, la convinzione che le fasi di crisi erano occasioni d’oro, occasioni di acquisto per sfruttare la paura degli altri, regnava sovrana.

Concludo la parabola con la notizia di un cambio di clima, previsto solo dai più astuti e sofisticati: questi inziarono subito a liberarsi delle posizioni assunte, e subito successero cose strane per i più. Misteriosamente, il prezzo delle riassicurazioni andò alle stelle, mentre allo stesso tempo, la liquidità iniziò a sparire. La gran maggioranza degli speculatori, che aveva incassato i premi assicurativi mensilmente per tanto tempo, non si accorse che il vento stava cambiando, per cui iniziò a trovarsi con improvvise e inspiegabili perdite, che aumentavano di giorno in giorno. Ma erano così condizionati dalle precedenti convinzioni che scelsero di tenere duro mentre si confortavano con numerosi previsori metereologici che li tranquillizavano, incassando laute commissioni per le loro previsioni. Il fondo pensione della città, provò a ridurre a tutti i costi la propria esposizione ai rischi concentrandosi solo sugli investimenti più sicuri, essendosi reso conto che dopo anni di eccessi c’era il rischio di una crisi generale, nel qual caso non avrebbe potuto pagare le pensioni. Qualcuno infatti cercò di calcolare se esistevano davvero i soldi necessari per mantenere gli impegni assunti, nel caso un esondazione avesse spazzzato via tutti gli immobili costruiti: e si scoprì che c’erano forti dubbi, anche se risultò impossibile capirlo dai bilanci delle assicurazioni.
Però si capì che, dopo anni di eccessi, un eventuale esondazione avrebbe causato molti più danni di quanto non avrebbe fatto prima che iniziasse il boom: adesso sarebbe stata una catastrofe che avrebbe ridotto in miseria l’intera città.
Può bastare, avete afferrato l’idea: non c’è bisogno che descriva cosa successe quando l’esondazione arrivò davvero.








21- Debiti e Nuvole
Ricordate la sostituzione di O’Neil al ministero del tesoro USA? Bene è venuto fuori che poco prima che ciò avvenisse, il mitico ex-contabile dell’ALCOA, noto per essere un fedele amico di Bush senior, aveva avuto un incauta quanto giusta idea(diamo a cesare quel che è di cesare). Precisamente aveva commissionato una stima sul debito effettivo consolidato del Tesoro, ritenendo poco affidabili le valutazioni ufficiali dell’Ufficio per il Budget e la gestione , OMB (ad esempio, l’OMB proietta una vita media costante di 75 anni per le stime previdenziali e sanitarie, anche se già oggi la vita media è salita a 78 anni, e sta aumentando al ritmo di 3 mesi l’anno).
La definizione esatta di ciò che è stato valutato è la seguente.
Il debito federale corrente detenuto dal pubblico, più il valore attuale di tutte le spese future federali con esclusione solo della spesa per interessi, meno il valore attuale di tutte le entrate future federali.
Ebbene, partendo dai valori di fine 2002 e ipotizzando costanti le politiche fiscali in essere, il debito totale del governo federale degli USA viene stimato pari a 44,2 trilioni di dollari (cioè oltre 4 volte, il 400%, del PIL attuale).Oppure 10 volte l’attuale debito nazionale ufficiale (pari a 4 trilioni di dollari).
Se si volesse mantenere l’attuale grado di solvibilità, il governo dovrebbe alzare le tasse del 68,5% iniziando da oggi. In alternativa, dovrebbe tagliare la spesa previdenziale e sanitaria del 54,8% immediatamente e per sempre. Naturalmente entrambe queste cose sono molto improbabili per non dire impossibili. E’ invece molto probabile che non succederà niente, anzi le ultime decisioni di Bush – riduzioni di tasse – vanno in senso opposto e così l’insolvenza governativa crescerà sempre più : nel 2008 dai 44 stimati oggi, si passerà ai 54 trilioni di dollari (e a quel punto per rimediare l’aumento delle tasse dovrebbe essere del 73%!).
Fare promesse politicamente è più facile che pagarle. In teoria questi debiti possono essere svuotati in termini reali con l’inflazione, stampando dollari, ma legalmente occorrerebbe modificare il Social Security Act del 1972 che prevede espressamente l’indicizzazione all’inflazione. Quindi non sarà una facile via d’uscita neanche l’inflazione. Peggio, questo disastro finanziario proviene direttamente dalla redisitribuzione di ricchezza da una generazione all’altra, e costituisce un disincentivo per risparmi ed investimenti: aumenta la crescita oggi, provocando la bancarotta in futuro. Ironia della sorte, le persone più minacciate da questo mostro finanziario e politico a più teste, sono le stesse che dovrebbero avvantaggiarsi delle spese sociali: la classe media. Quest’ultima, rappresentata dal tipico cinquantenne di oggi, si ritrova gravata anche dei propri debiti personali, tra cui svettano i recenti incrementi dei mutui ipotecari (aumentati di 3 trilioni negli ultimi 5 anni). Se prima del 1997 si contraevano mutui mediamente per 50 miliardi a trimestre, oggi siamo passati a 200 miliardi al trimestre, il quadruplo. Il debito complessivo delle famiglie è di 8 trilioni di dollari e continua a crescere a doppia cifra; non solo a causa dei mutui, ci sono anche i prestiti al consumo che crescono del 12% l’anno; il servizio del debito (interessi più quote capitale) incide ora per il 14% del reddito disponibile, nonostante gli interessi così bassi.
Dunque il governo fa promesse alle famiglie che non potrà mantenere, le famiglie fanno promesse alle banche che non potranno mantenere; per non parlare delle aziende. Le più grandi tra loro sono sommerse dai debiti. La discussa IBM, ad esempio durante gli anni 90 ha preso a prestito 20 miliardi di dollari, usandone 9 per il riacquisto di azioni proprie. Perché indebitarsi per riacquistare proprie azioni ? per abbellire la facciata dei profitti, incrementando cioè quelli per azione (avendo ridotto il numero di azioni, lo stesso ammontare di utili provoca un incremento dell’utile per azione). Il che ha reso bene ai suoi dirigenti pagati in stock option, direttamente influenzate dalla crescita degli utili per azione; peccato che il bilancio si sia per contro appesantito di debiti. E così via, possiamo parlare della Ford il cui debito è 24 volte il capitale, etc. Ovvio che i tassi ai minimi stanno consentendo una bella boccata d’ossigeno a questi debitori, e la gente torna a ributtarsi sulle obbligazioni , ma il denaro che arriva non si converte in nuovi investimenti; serve per sostituire i prestiti precedenti più costosi. Il rapporto tra passività a lungo termine e passività totali è salito al 68%il livello più alto dal 1959, mentre anche le attività a breve depurate dalle passività a breve (la liquidità) sono ai massimi. La combinazione di cash e debiti lunghi è l’altra faccia della Bolla creditizia. Ma tutta questo disponibilità finanziaria non sta creando nuova domanda, né aumentando l’utilizzo della capacità produttiva che resta intono al 75% uno dei livelli più bassi storicamente.
Nel lungo termine la moneta facile non serve a migliorare i fondamentali economici: i tassi più bassi non provocano nuovi investimenti o nuova domanda. I maggiori debiti non eliminano le nuvole dall’orizzonte, servono solo a rimandare il giorno della resa dei conti e questo è uno straordinario, affascinante, periodo storico per l’analisi delle Bolle creditizie. E se vi fossero dubbi circa il fatto che la Bolla creditizia americana è entrata nel precario stadio finale, la lettura del flusso dei fondi Z1 (il rapporto della Fed in materia) durante il secondo trimestre 2003, li cancella totalmente .
Per cominciare, va ricordato che nei 21 trimestri precedenti quello che esaminiamo (dunque a partire dal 1998), il totale dei crediti finanziari e non finanziari è salito del 51% passando da 21,2 a 32,1 trilioni di dollari. Dopo questo lungo periodo di eccesso storico, la crescita dei crediti è ora diventata parabolica. Nel secondo trimestre del 2003 infatti essa è stata del 10,9% annuo cioè 3,3 trilioni di dollari, il che vuol dire un ritmo del 27% maggiore rispetto al precedente record del quarto trimestre 2002.
Vediamone le varie componenti.
Il debito non finanziario (cioè quello dei soggetti che non sono istituzioni finanziarie) è salito del 12% il doppio rispetto al primo trimestre. In valore assoluto sono 631 miliardi nel trimestre arrivando a uno stock totale di 21,6 trilioni di dollari. A partire dal 1998 la crescita è stata di 6,4 trilioni, mentre il PIL è cresciuto di 2,5 trilioni; pertanto negli ultimi 22 trimestri il debito totale non finanziario è passato dal 184% al 200% del PIL(nel 1980 era il 140%).
Se andiamo poi a vedere il debito del settore finanziario dal 98 scopriamo che è salito di 5,3 trilioni raddoppiando a 10,7 e divenendo oltre il 100% del PIL.
Pertanto, la somma totale dei debiti accumulati negli USA dal finanziario e dal non finanziario è salita di 11,7 trilioni, in 22 trimestri, passando dal 250% al 300% del PIL.
Dallo stesso commento al rapporto Z1 si legge: “ l’incremento del debito nel secondo trimestre è stato distribuito omogeneamente in tutti i settori principali…”. Infatti il settore delle Famiglie ha aumentato il suo fardello di 1 trilione annualizzato, cioè l’11,5% (non ci sono precedenti se non il solito 1985); per capire cosa significhi 1 trilione per le famiglie, occorre vedere che l’incremento era stato di 330 miliardi nel 97 di 450 nel 98 di 498 nel 99 di 558 nel 2000 di 614 nel 2001 e di 771 nel 2002: come si vede crescita continua , impressionante, ma ora il salto è stato clamoroso da 771 miliardi a 1000 (cioè un trilione).
Poi c’è il settore statale i cui debiti sono saliti del 12%; l’indebitamento del governo federale è salito del 24,3% (sempre tassi annualizzati).
Poi le emissioni delle aziende non finanziarie i cui titoli obbligazionari sono stati aumentati di 309 miliardi, la crescita più forte dal secondo trim. del 2001 ad un tasso annuo del 6,3%, il doppio rispetto al primo trimestre e 6 volte quello del 2002.
Ancora.
Il totale del credito ipotecario è cresciuto di 1,1 trilioni (+14% anuo) cioè il 30% di più rispetto al precedente record stabilito nel 2002 che era stato di 879 miliardi, dopo i 700 del 2001 ed i 570 del 2000, i 568 del 1999, i 510 del 98 (nel 1997 la crescita era di 337 miliardi, per cui si vede come nella prima fase della bolla c’è il salto del 98 che viene mantenuto fino al 2000, e poi mentre scoppiava la bolla azionaria questa faceva un altro salto fino a raddoppiarsi adesso). Sin dall’inizio del 98 il debito ipotecario totale del paese è cresciuto di 3,7 trilioni arrivando ad uno stock in essere di 9 trilioni (di questi 7 sono quelli relativi alle case residenziali), che è dunque passato dal 62% al 90% del PIL.
Il settore finanziario continua ad espandersi aggressivamente.
Le banche commerciali hanno fatto acquisizioni nette di assets finanziari per 819 miliardi (11%) cioè il 72% di più di quanto avevano fatto nel 2002. Sempre partendo dal 1998, questi assets delle banche commerciali sono saliti del 47% arrivando a quota 7,6 trilioni. Nel secondo trimestre del 2003 si nota però che sono diminuiti i prestiti alle aziende per 74 miliardi e sono stati sostituiti dai mutui ipotecari cresciuti di 355 miliardi. Le banche poi detengono titoli delle agenzie di credito ipotecario (le famose fannie mae e freddie mac) , in crescita di 284 miliardi nel trimestre in esame: se sommiamo mutui e titoli ipotecari delle agenzie vediamo che l’esposizione delle banche al settore delle case è arrivata a 3 trilioni, aumentando di 640 miliardi, rispetto ai 409 miliardi del 2002, ai 185 del 2001, e complessivamente sempre negli ultimi 22 trimestri l’incremento è stato dell’80% arrivando a 1 trilione per i titoli delle agenzie, e del 76% peri mutui arrivando a 2 trilioni.
Uno sguardo alla finanza strutturata( cioè titoli emessi con garanzie collaterali come mutui, e altri titoli, principalmente obbligazioni dirette delle agenzie citate), che io chiamo la finanza al quadrato nel senso che si fanno debiti su altri debiti, ebbene: nel secondo trimestre si è espansa di un altro 10% arrivando a 8,5 trilioni (di cui la metà fatti dal 1998 ad ora); va notato inoltre come la componente mutui delle garanzie collaterali è adesso all’82% del totale, quando nel 2000 non raggiungeva il 40%. Dunque appare evidentissima la piramide rovesciata di debiti costruita sulle case, e si capisce quindi come tutto questo castello di carta sia in balìa dei prezzi delle case.
Andiamo infine al pompaggio di moneta diretta della Fed.
Il “flusso dei fondi”, questo rapporto Z1, include una categoria denominata : fondi federali e e pronti contro termine, cioè la somma dei due meccanismi chiave usati allo scopo. Dato che abbiamo visto il clamoroso balzo di tutti gli altri aggregati creditizi avvenuto nel secondo trimestre, dobbiamo aspettarci di trovare un uso estremo di questi meccanismi che ne sono alla base. Ed infatti: nel trimestre in esame salgono di 564 miliardi una crescita annua del 43%, contro incrementi di 105 miliardi nel 2002, di 22 nel 2001, di 113 nel 2000, di 170 nel 1999 e di 91 nel 1998. Se ne deduce che il settore finanziario ha usato questa fonte di finanziamenti per assorbire il boom di emissioni del tesoro e delle agenzie ipotecarie, avvenuto nel secondo trimestre ai tassi più bassi della storia : come sempre avviene gli speculatori si appesantiscono ai massimi del mercato.
Un ulteriore conferma dello straordinario incremento della speculazione a leva avvenuta nel secondo trimestre , l’abbiamo dall’espansione degli assets delle imprese di Wall Street. I Brokers e i Dealers in titoli, hanno aumentato i propri assets finanziari al ritmo di 500 miliardi di dollari annui(cioè +38%): i prestiti ai clienti per l’acquisto di titoli, i titoli spazzatura , le obbligazioni aziendali , delle agenzie e del Tesoro, questo insieme spiega i tre quarti dell’incremento citato; il resto sono non meglio specificate altre attività. Nel complesso degli ultimi 22 trimestri gli assets degli operatori in titoli di Wally si sono quasi raddoppiati arrivando a 1,5 trilioni.
E con la Bolla creditizia americana ai suoi apici, il mondo sta venendo inondato da liquidità in dollari. Non c’è molto interesse internazionale verso investimenti reali nella costosa economia americana, per cui i partner commerciali esteri, attraverso le loro banche centrali, stanno accumulando carta finanziaria americana come mai prima. Sempre da Z1 si vede che nel secondo trimestre le acquisizioni nette di assets USA da parte dell’estero sono aumentate di circa un trilione annualizzato (+15%). La composizione di questi acquisti è interessante: gli strumenti di mercato creditizio sono raddoppiati rispetto al record precedente stabilito nel quarto trimestre del 2001; i titoli governativi (tesoro +agenzie) sono aumentati del 35% cioè +700 miliardi quando nel 2002 erano saliti della metà, nel 2001 di 230 miliardi e nel 2000 di 129 miliardi. Invece , fate attenzione, gli investimenti diretti dell’estero negli USA per attività reali sono saliti di appena 53 miliardi (+3,4%) quando nel 2000 ad esempio salivano di 320 miliardi l’anno.
Ricapitolando, fin dal 1998 il resto del mondo ha aumentato la propria detenzione di assets finanziari USA di 3 trilioni, + 64%, passando così ad uno stock totale del 71% del PIL (quindi 7 trilioni) mentre nel 98 era al 57%.
E i derivati? Nel secondo trimestre le posizioni in derivati totali detenute dalle banche USA sono cresciute di 4,4 trilioni (+27% annuo) arrivando a uno stock di 65 trilioni. Per categorie, 57 trilioni sono derivati sui tassi di interesse(crescita del 24%), 7 trilioni sui cambi(in crescita del 48%), 1 trilione per altri vari. Per prodotti, i futures ammontano a 12 trilioni(+24%), gli swaps a 38 trilioni(+25%), le opzioni a 14 trilioni(+34%). Tra i principali operatori, le posizioni di JPMorgan sono a 33 trilioni (+25%), di Bank of America a 13 trilioni(+23%) e Citibank a 11 trilioni (+33%).
Conclusione. I dati di Z1 mostrano gli eccessi speculativi creditizi, insieme alla conseguente inflazione degli assets sottostanti, senza precedenti e di dimensioni inusitate; pertanto nessuna sorpresa che vi sia stato anche un sobbalzo dell’attività economica reale; la sorpresa semmai è che non sia ancora più forte. In ogni caso, con i debiti che crescono a ritmi ben superiori a quelli dell’economia reale, è ovvio che i prezzi delle azioni e delle case in particolare per ora crescano: sempre l’eccesso di liquidità sfocia in inflazione degli assets. Ma, avendo la montagna di debiti raggiunto estremi record, con un eccesso di 32 trilioni o tre volte il PIL , ed espandendosi al ritmo del 10% , ci troviamo di fronte a una bolla da manuale.
Ciò che non è chiaro è quanto può durare questa situazione prima dell’inevitabile scoppio. Ci sono certamente forze potenti che sostengono questa bolla storica. Per troppi anni abbiamo visto il sistema finanziario globale ed americano, instabile, provocare boom miracolosi e conseguenti sboom devastanti; abbiamo visto l’esistenza di questi cicli misurata in trimestri e non anni. Oggi abbiamo di fronte la madre di tutte le bolle e sappiamo solo che non c’è modo di evitare, prima o poi, lo stadio dell’implosione.
















22 – Deficit Gemelli
All’alba dell’11 settembre 2001 c’erano le torri gemelle a new york, e non c’erano i deficit gemelli americani.
Sparite in un colpo le torri, in poco tempo si è ricreato il fenomeno dei deficit gemelli: cerchiamo di capirne l’implicazione per l’economia mondiale. I
Anche se gli USA crescono solo del 2%, di gran lunga eccedono i tassi di crescita europeo e giapponese. Consideriamo inoltre che la propensione ad importare statunitense è ancora crescente e che non a caso gli USA sono diventati il maggior debitore netto verso il resto del mondo : si capisce che il deficit nei conti con l’estero continuerà a salire più rapidamente del PIL e si ritroverà presto a livelli record del 6-7%.
Teniamo a mente che:
- nel passato già il livello del 5% si è rivelato un limite diffcile da valicare, ed ha sempre indotto una caduta del cambio;
- molti si meravigliano per quanto a lungo ancora gli USA possano essere capaci di attrarre i capitali necessari a finanziare questo buco crescente.
In realtà la questione non va vista così: un deficit è quasi sempre finanziato in qualche modo. Esso infatti implica che il flusso di beni e servizi genera una costante offerta della valuta in questione sui mercati dei cambi. Nel caso degli USA ciò significa per ora circa un miliardo e mezzo di dollari al giorno che può essere convertito in altra valuta dai venditori di quei beni e servizi comprati dagli americani; se decidono di tenersi i dollari, e fin tanto che così fanno, il problema non si pone; qualora invece offrano i dollari sul mercato dei cambi per comprare altre valute, il prezzo del dollaro tenderà a scendere se non incontra acquirenti (al limite fino a zero: ed in questo caso si potrebbe dire che il deficit è divenuto non finanziabile). Costoro non fanno altro ogni giorno che valutare l’appetibilità dei dollari, in base al tasso di “ritorno” che può essere ottenuto investendo in strumenti USA rispetto a quelli esistenti in altri paesi.
Pertanto paragonano i probabili movimenti sui mercati mobiliari e immobiliari americani, con quelli verificabili altrove: se vedono prospettive migliori negli USA, allora saranno indotti a comprare dollari (ovviamente, non solo gli investitori esteri fanno tali ragionamenti, bensì anche quelli interni: ultimamente proprio i rimpatri di soldi degli americani all’estero, ha aiutato il dollaro a mantenere il suo valore di cambio).
Inoltre, una considerazione cruciale resta sempre la previsione sul tasso di cambio in sé: per un giapponese o un europeo, un tasso di ritorno relativamente più alto negli USA può benissimo essere cancellato dall’attesa di una maggior perdita sul cambio (molti giapponesi hanno imparato sulla propria pelle questa lezione, negli anni scorsi). Proprio questo è il motivo per cui un cambio non scende mai a zero: a un certo punto infatti , a furia di scendere, raggiunge un livello di sottovalutazione tale (in termini di parità nei poteri d’acquisto) che gli operatori iniziano ad aspettarsi una sua rivalutazione futura, e quindi non vendono più.Dopo tutto, con un cambio molto basso le esportazioni aumenteranno e le importazioni freneranno per cui anche la quantità offerta sul mercato si contrarrà.
In altre parole un deficit di conto corrente è sempre finanziato per definizione: la domanda è invece, quale sia il livello del cambio che consente di riportare in equilibrio il disavanzo commerciale, che a sua volta dipende dalla misura in cui l’economia – americana in questo caso – sovraperformi le altre.
E qui entra in gioco, il gemello: la riduzione delle tasse e l’aumento delle spese (militari, in primis) hanno prodotto rapidamente un ampio deficit del bilancio pubblico, che viaggia verso il 4-5% del PIL. In primo luogo, ciò significa meno capitale disponibile per gli investimenti; a sua volta un minor livello di investimenti, significa performance relative inferiori nel futuro. Per cui, diviene meno appetibile per gli investitori esteri tenere i propri soldi negli USA, e ciò proprio nel momento in cui essendo l’altro deficit a livelli record, vi sarebbe bisogno del contrario.
Ecco perché il tasso di cambio del dollaro è destinato inesorabilmente a scendere con il tempo, io stimo di almeno il 30%. E se un dollaro svalutantesi surriscaldasse l’economia (tramite un miglioramento delle esportazioni, ad esempio) o spingesse in alto l’inflazione (tramite i prezzi dei beni importati), ecco che la Fed dovrebbe rispondere alzando i tassi, ma così facendo metterebbe in crisi il crescente deficit pubblico (e tutti gli altri debitori , famiglie, imprese). In breve, la caduta del dollaro una volta avviata non è facilmente contrastabile.
Un problema aggiuntivo da non dimenticare è che molte nazioni asiatiche – che sono poi i principali partner commerciali degli USA – hanno chi più chi meno legato le proprie valute al dollaro; inoltre l’economia giapponese è così debole che non può coesistere con uno yen in rivalutazione sul dollaro (e sulle altre asiatiche, dunque). Ciò significa che la caduta del dollaro sarà soprattutto nei confronti dell’euro; il che potrebbe non essere tragico per le nazioni europee se esse potessero compensare con tassi d’interesse molto più bassi. Ma vi sono pochi spazi residui in questo senso, ed in ogni caso l’effetto non durerebbe a lungo nella misura in cui la rivalutazione dell’euro avverrebbe simultaneamente nei confronti delle monete asiatiche oltre che del dollaro. Per questo motivo probabilmente la BCE ci va piano con i tassi: se scoppia la crisi del dollaro, avrà bisogno di quante più munizioni possibili.
Questo bel pasticcio, concludendo, mostra come i deficit gemelli sono una minaccia non solo per gli USA ma anche per il resto del mondo. Di più: il problema dollaro può quindi essere visto dagli USA come una pistola alla tempia dei creditori esteri. Se inseriamo quest’arma nel complesso quadro geopolitico che si va a ridisegnare proprio in questa fase, capiamo come potremmo vedere cose fino a oggi assolutamente inimmaginabili: ad esempio una dichiarazione di inconvertibilità del dollaro (come nel 1971, in pieno Vietnam, limitatamente all’oro) in altre valute, cioè l’imposizione del dollaro come moneta unica internazionale (consentendo così agli USA il signoraggio completo sui risparmi internazionali). Potrebbe non essere fantascienza: nei caveau di fort knox, forse già esistono i prototipi di stampa del dollaro gemello!
Il sistema del gold standard del 19° secolo fu la più importante conquista monetaria del mondo civilizzato , e ad esso non si arrivò con una conferenza o con una pensata geniale di qualcuno, bensì come risultato di secoli di esperienza .
Il moderno sistema bancario viene spesso spiegato in analogia con le pratiche dei prestatori d’oro all’inizio del 17° secolo in Inghilterra. In entrambi i casi si crea nuova moneta facendo prestiti a clienti . Una banca commerciale privata quando riceve linee di credito dalla banca centrale può a sua volta fare prestiti per circa 6 Euro per ogni Euro che ottiene ( questo moltiplicatore dipende dall’entità della riserva obbligatoria vigente, per ora il 15% ) . Come fa a creare 6 Euro da 1 ? Semplicemente scrivendo nei suoi libri contabili come depositi l’Euro ogni volta che il cliente a cui è stato prestato lo mette in circolazione, il che avviene circa 6 volte con un coefficiente di riserva del 15% (100/15) . In altre parole, le banche centrali creano nuova moneta semplicemente facendo una promessa di pagamento ; ne possono fare tante quante gli pare perché non c’è nessun sottostante dietro alle loro promesse. Questa è la natura del sistema : la moneta è debito , ed ogni unità fisica esistente rappresenta 6 unità dovute da qualcuno, più gli interessi. La banca centrale gestisce questo flusso di debito, cosi come una lavatrice gestisce il suo ciclo : qualche volta il getto d’acqua esce troppo forte e la lavatrice trema , ma per la maggior parte del tempo tutto scorre normalmente. Esiste però una quantità di flusso che la lavatrice non è in grado di sopportare: in quel caso si rompe.
Sfortunatamente non viene mai ricordato che il 19° secolo fu un periodo di prosperità e di crescita economica senza inflazione : le più importanti monete furono stabili per lungo tempo , ad esempio il Franco francese mantenne lo stesso potere d’ aquisto dal 1814 al 1914 e la Lira Sterlina dal 1821 al 1914 . Non a caso eravamo nell’epoca del Gold standard : ogni unità di moneta rappresentava una quantità fissa di oro. In altre parole , invece di rappresentare una quantità di debito come oggi , rappresentava una specifica misura di oro . Le monete di carta erano convertibili in oro in ogni momento , e le riserve valutarie di una nazione consistevano di solo oro .
Purtroppo per finanziare la 1° guerra mondiale i governi scelsero di distruggere il legame con l’oro , perché non ce n ‘era a sufficienza per sostenere le massiccie spese belliche . Meglio centralizzare , creare debito a volontà e poi gestire la quantità di debito.
L’oro fu invece depositato presso gli USA, che se ne appropriarono, rinforzandosi, e riuscendo a mantenere la convertibilità fino al 1971, quando stremati dal Vietnam, diedero l’ultimo colpo di piccone al gold standard residuo.
Infatti la storia mostra che vi è una stretta relazione tra i sistemi monetari e le guerre ; ad esempio, gli USA non potrebbero oggi affrontare il peso di mandare le loro armate in ogni angolo del globo se non avessero il potere di battere moneta( il $ costituisce il 76% delle riserve delle banche centrali nel mondo, e non è convertibile in nulla) . Ma vi è anche una stretta relazione con le capacità di consumo: all’epoca del Gold standard il deficit della bilancia con l’estero doveva essere saldato in oro; oggi gli USA non potrebbero consumare il 5% in più di quello che producono , anno dopo anno, a meno che non avessero questa enorme quantità di oro disponibile .


Naturalmente tutto ciò provocherà anche pulsioni protezionistiche. La decisione USA di imporre dazi doganali del 30% per 3 anni sulle importazioni d’acciaio provenienti da Europa, Giappone, Corea del Sud, Cina, Australia, Russia, Turchia, e Brasile (notare invece non il Canada), è stato qualcosa di più di uno spunto di trading sul mercato dei cambi, e ha lasciato l’amaro in bocca a tutti coloro che esaltano gli USA come patria del libero scambio. A questo riguardo, c’è il dubbio di ulteriori azioni analoghe in altri settori (ad esempio le automobili) e nei confronti in particolare della Cina, prima delle elezioni che si terranno a Novembre.
Senza una conoscenza di prima mano dell’intensità con cui i produttori di acciaio non-USA sono aiutati dai rispettivi governi, cosa che invece gli USA non hanno fatto, forse non si dovrebbe correre a giudicare la validità intellettuale del provvedimento americano. Gli USA hanno imposto i dazi per proteggere un industria che ha bisogno di ristrutturazione, e ciò è contemplato dalle regole WTO , ma anche si richiede che l’industria in oggetto possa dimostrare di essere stata vittima di una crescente penetrazione delle importazioni. L’Europa sostiene invece che le importazioni americane di acciaio sono scese del 30% dal 1998. Comunque la National Steel che ha richiesto la procedura di bancarotta , ha imputato tale necessità ai prezzi bassi, alla domanda debole e al livello record di importazioni; questo caso cade perfettamente in tempo per testimoniare il bisogno di difesa degli americani. Se comunque, la principale difesa degli USA è la forza di penetrazione delle importazioni, allora ciò potrebbe riguardare ovviamente anche altre situazioni più signficative. In particolare, il settore delle automobili che ha visto le importazioni salire dal 15 al 30% in 3 anni. Lo spettro di una folla di amministratori delegati che marciano sulla Casa Bianca gridando “anche io signor Presidente”, diviene realistico. Di fronte alle elezioni di novembre, la forza dell’Amministrazione per rigettare queste domande potrebbe progressivamente diluirsi nel contesto di una ripresa senza posti di lavoro, man mano che novembre si avvicina.
La prima risposta all’azione americana, dell’Europa e delle altre nazoni interessate, a parte la protesta ufficiale presso la WTO che può prendere mesi prima di una deliberazione, potrebbe essere imporre dazi in ritorsione per un ammontare simile ai danni stimati per le proprie industrie rivenienti dai dazi USA. Il che sarebbe legale, nell’attesa fiduciosa di un verdetto WTO favorevole. Uno studio citato sui giornali, sostiene che l’azione USA potrebbe colpire i produttori europei soltanto, per un ammontare di circa 3,8 miliardi di dollari nei 3 anni.
Il sospetto che circola in vari ambienti è che l’azione USA rappresenta un tentativo di modificare un industria chiave che ha sofferto il peso del dollaro forte, compensando un tasso di cambio non competitivo appunto tramite un pezzo di protezionismo, e la misura del 30% fornisce un idea proprio di quanto sia sopravvalutato il dollaro. Pertanto, si tocca con mano il danno provocato dalla follìa del dollaro forte che ha contribuito non poco alla recessione del settore manifatturiero tuttora in corso, e che minaccia di rendere tiepida la ripresa eventuale. La politica del cambio che ha servito gli USA così bene durante gli anni del boom, è ovviamente meno attraente durante il rallentamento, e allorquando minaccia di impedire una ripresa vera e propria. Che gli USA sentano il bisogno di tali azioni, che in molti ritengono il massimo dell’ipocrisia in una politica economica che sbandiera al mondo la sua fede nel libero mercato, può essere la dimostrazione che siamo vicini al momento in cui la politica del dollaro forte sarà abbandonata.
La prospettiva di una ripresa che inizia quando già c’è un deficit estero pari al 5% del PIL, un rialzo dei tassi d’interesse a lungo termine, e la convinzione che Wally inizi questa fase partendo da valutazioni elevate , giustamente solleva interrogativi sulla capacità USA di continuare facilmente a finanziare i suoi deficit(compreso quello statale). Nel gestire i sintomi del dollaro , gli USA per ora stanno scegliendo di preservare la loro devozione alla causa, che è poi il desiderio di continuare a investire ben più di quanto siano capaci di risparmiare, e consumare più di quanto producano.
Mentre qualche forma di ritorsione sembra inevitabile, probabilmente non ci troviamo di fronte all’inizio di una guerra commerciale globale. Piuttosto si spera che le teste economiche più sagge all’interno dell’Amministrazione, prevalgano. Nel contempo non si può dimenticare la probabilità di altri compromessi ad hoc sui principi del libero mercato, nel breve termine come espediente politico. Il che si estende a lamentele ufficiali per il livello del dollaro-yaun cinese, facendo contenta la Associazione Nazioanle dei produttori americana.
Con l’amaro in bocca per la comunità degli investitori fermamente convinta della bontà dei principi del libero mercato. Perciò non è da escludere che al netto di tutto, la disputa sull’acciaio possa minare il supporto psicologico di cui il dollaro ha goduto da così tanto tempo.





23-DOLLORO

Non è un errore, avete letto bene: con DOLLORO voglio sintetizzare la
grande operazione di vendita dollari ed acquisto oro che secondo me è
la più bella operazione a portata di mano, in termini di
rischio rendimento.
Negli stadi iniziali di un mercato toro(per l’oro ma tutto quello che
vi dico vale all’inverso per l’orso del dollaro che poi se volete è
un toro per l’euro) le mani forti accumulano lentamente e per un
lungo periodo di tempo. Nel frattempo i media fanno di tutto per
screditarlo e scoraggiare i nuovi entranti(analisti, speculatori,
etc.). Chi manovra i media vende sui primi rallies così che
l’investitore medio non possa cogliere il nuovo trend, o lo ritenga
finito (“è troppo tardi”). Dopo che le mani forti si sono riempite a
sufficienza, lasciano che il prezzo inizi a salire. In termini
tecnici, si ha prima una fase di accumulazione e poi avviene la
rottura al rialzo, quando chi doveva comprare ha finito di farlo. Le
mani forti a questo punto iniziano a far circolare sui media notizie
positive ed interpretazioni favorevoli alla prosecuzione del rally,
mentre le istituzioni entrano sostenendo i prezzi a ogni tentativo
di inversione. Una volta che l’onda inizia a salire, arrivano i
momentum traders che vedendo salire comprano.
Prima di proseguire è bene capire la catena: le mani forti
accumulano, le istituzioni poi provocano la fuoriuscita dal trading
range, seguite dai traders che provocano il rialzo. Una volta che
quest’ultimo diventa molto evidente, i media ne parlano con grande
evidenza. A questo punto arrivano le asset allocation dei fondi
d’investimento e dei fondi pensione che alzano le loro percentuali, e
spingono ulteriormente il mercato. Infine arriva il pubblico
spicciolo. Lì le mani forti iniziano a distribuire sui rallies. Il
mercato continua ad avanzare ma inizia ad incontrare più resistenza
prima di continuare a rompere sempre al rialzo. Le mani forti
aumentano le loro vendite al pubblico ignaro, il quale si convince
sempre di più e ogni ribasso gli sembra una occasione d’acquisto,
cosa che effettivamente provoca ancora picchi crescenti. Negli stadi
finali di un mercato toro, si verifica sempre una manìa che sorprende
anche le mani forti: lì si raggiungono livelli impensabili, ed è
l’anticamera del crollo. Come abbiamo visto con la bolla sulle
azioni o sulle case, nessuno può predire quando finisce e a che
livello i prezzi arrivano. Nella fase maniacale, le istituzioni
mantengono i loro assets ma le mani forti sono già fuori
completamente. Il pubblico e i traders tecnici continuano a vedere un
trend rialzista , iniziato anni prima che loro se ne accorgessero, e
tengono perché è tipico di questo stadio che nessuno faccia caso alle
valutazioni intrinseche. Traders ed investitori si preoccupano solo
che ci sia qualcun altro ancora così stupido da comprare ai prezzi
assurdi raggiunti. Poi la bolla scoppia, perché – dati i livelli
assurdi – l’offerta inizia ad aumentare in modo violento:offerte pubbliche (IPO),
emissioni secondarie, etc. per le azoni, nuove costruzioni per le
case; nuova produzione per le commodities. In una bolla, il costo del
capitale crolla. Badate bene che le mani forti uscite per prime, e
restate fuori dalla fase finale, a un certo punto iniziano a vendere allo scoperto
il mercato, così le prime correzioni – fin lì normali – iniziano ad
assumere il tratto del crollo, che si estrinseca non appena inizia il
fuggi fuggi generale.

Cosa c’entra tutto questo con il DOLLORO? io parlo
dell’oro da quando era a 280, e del dollaro da quando era sotto 0,90
(e lo chiamavo BOLLARO), per pura logica intrinseca scaturente dalle
analisi macro . Oggi credo che sia l’oro che il
dollaro si trovino nella prima fase caratterizzate dagli acquisti (e
vendite per il dollaro) delle mani forti che però dopo aver provocato
questo iniziale movimento tendono ancora a frenare i rallies,
così che l’accumulazione possa continuare, mentre nei media non si
parla ancora bene dell’oro, né male del dollaro.
Non resta che chiederci a quanto potremo arrivare con le quotazioni.
Bene, la lezione della storia è : una volta che il toro acquista
forza ed entra nella fase maniacale, solo il cielo è il limite e non
ha senso fare valutazioni fondamentali, che comunque per il dollaro
con euro io ho già identificato e confermo, intorno a 1,50 prevedendo
altresì che il ciclo durerà vari anni. Idem per l’oro, il cui rally
potrebbe tranquillamente arrivare ai massimi storici di 800 per
oncia. Ma entrambi questi livelli possono rivelarsi bassi il momento
in cui la FED accelererà ulteriormente le presse di stampa, alla tedesca anni 20,
come siamo stati già avvertiti (vedi Bernanke).
Una lezione della storia è che i proprietari di oro non hanno mai
sofferto molto. A volte non hanno prosperato, ma non hanno mai
sofferto per molto tempo. Avete mai sentito di un esempio- in tutta
la Storia -in cui l’oro sia andato a zero? O conoscete qualche caso
di fallimento per aver posseduto oro?
Vi pongo queste domande perché voglio essere molto chiaroi:
credo fermamente che ci stiamo imbarcando in un periodo storico che
sembrerà senza precedenti, e che sarà molto doloroso nei momenti
estremi, sia per il numero di persone interessate sia per l’entità
dei costi che si dovranno patire per un lungo periodo di tempo
(decenni). E la sola cosa su cui si potrà contare, guardando ai
precedenti storici, è l’oro : l’unica grande protezione, a meno che i
governi non lo confischino, il che probabilmente succederà alla fine,
ma si farà in tempo a beneficiarne. Perciò, sto consigliando di comprare oro.
Infatti perl’essere umano, in ogni tempo e ogni luogo, l’oro è stato un oggetto
di desiderio: può essere usato per gioielli ed ornamenti; ma è anche
un elemento che resiste alla corrosione, il più malleabile e duttile
tra i metalli, ideale per un ampia varietà di prodotti meccanici ed
elettrici. Non si rovina, si conserva facilmente, è un ottimo
conduttore termico ed elettrico, può essere facilmente nascosto e
portato in altri luoghi. E l’oro è altamente commerciabile, forse la
commodity più commerciabile nel mondo. Per tutte queste
caratteristiche, è stato da sempre un mezzo di scambio ed una unità
di calcolo del potere di acquisto (come visto negli apposti speciali,
possiamo calcolare esattamente cosa comprava un grammo d’oro ai tempi
dei romani), insomma gli uomini ne hanno fatto da sempre la loro
moneta. Per più di 2500 anni, dagli antichi greci alla moderna
america, le monete d’oro sono servite come standard. I governi nelle
varie epoche hanno avuto un rapporto di odio-amore. Per la maggior
parte del tempo hanno provato a monopolizzarlo, anche brutalmente. Le
guerre sono state finanziate con l’oro, che era l’unico mezzo di
pagamento in quei casi. Per ciò i governi hanno sempre cercato di
impedirne la circolazione, con multe, imprigionamenti, financo la
pena di morte. Durante la rivoluzione francese, centinaia di uomini
di affari furono ghigliottinati perché calcolavano i prezzi in oro,
e volevano oro in cambio. Negli USA dal 1933 al 1975, fu un crimine
punibile, possedere monete d’oro. Anche oggi, la Fed che ne ha
ammassate circa 8 mila tonnellate a Fort Knox, cerca di scoraggiarne
l’uso e di farlo considerare un metallo non importante. E già perché
i governi vivono della possibilità di emettere carta moneta, tramite
le banche centrali, il che consente loro di finanziarsi a costo zero.
Nel 1971 Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, per far
sì che il biglietto verde divenisse la moneta mondiale al posto
dell’oro, un temibile concorrente.
Dai dati risultano varie cose interessanti circa la situazione di
questo mercato. La Banca del Portogallo, ad esempio, nella sua
relazione del 2001 ha rivelato di aver prestato al mercato il 70%
delle sue riserve. E secondo Bill Murphy, capo del GATA (Gold anti
trust action committe) questo oro è andato, il che supporta la loro
idea che le banche centrali non hanno le 32mila tonnellate di oro a
riserva che dicono di avere.
Perché le banche centrali fanno così? Il motivo è che esse si
ritrovano con questa eredità del passato, e poiché costa soldi
conservarlo e proteggerlo, ed è infruttifero, per ricavarne qualcosa
lo prestano alle miniere aurifere che lo vendono ai clienti invece di
estrarne di nuovo. La cosa era conveniente , fin quando i prezzi
venivano tenuti bassi, costringendo le miniere a vendere a termine la
parte di nuova produzione necessaria a tenere in vita le miniere.
L’essenza di questa manipolazione del mercato era appunto la
disponibilità delle riserve nelle banche centrali che veniva
regolarmente immessa, o sotto forma di vendite o di prestiti,
mantenendone artificialmente basso il prezzo. Il GATA stima che oggi,
però, le banche centrali hanno solo 15-16 mila tonnellate residue di
riserve, circa la metà di quanto dichiarano (perché contano quello
prestato). Così che cosa? Bene, ora che il prezzo sta salendo,
l’enorme posizione corta(venduta allo scoperto)
accumulata sta divenendo un problema. Quanto
sono “corti”? Se si considera che la produzione nuova annua è di circa
2mila tonnellate, e si pensa che questa dovrà servire per chiudere le
posizioni corte, vuol dire che ci vuole l’intera produzione mondiale
per sette anni! Per dare un idea, le posizioni corte in azioni sul
NYSE in genere sono misurate (come percentuale del volume medio
giornaliero trattato sul mercato) in termini di 5 massimo 6 giorni ,
non settimane, né mesi, e certamente non anni.
Invece nel caso dell’oro stiamo parlando di 7 anni.
Sono stati capaci di mentire sulle riserve aurifere effettive
perché il Fondo Monetario Internazionale ha legalizzato il sistema di contabilizzare tra le
riserve anche l’oro prestato o swappato (cioè scambiato). In altre
parole il FMI ha detto alle banche centrali di praticare una variante
del sistema normalmente in vigore per le banche commerciali dove solo
una parte della quantità di moneta è a riserva rispetto ai depositi
dei clienti. Una nota a piè di pagina nel sito della banca centrale
Filippina, ad esempio, recita così: “da gennaio 2000 in osservanza a
quanto prescritto dal FMI, l’oro scambiato(quindi ceduto) con banche
commerciali viene contabilizzato come prestito collaterale, e dunque
resta tra le riserve ufficiali, mentre nel passivo viene iscritto un
debito corrispondente allo swap in essere”. Di fronte alle proteste
del GATA la BCE ha risposto di recente: “ seguendo le raccomandazioni
del FMI del 1999, tutte le transazioni reversibili in oro, inclusi i
gold swaps, restano tra le riserve aurifere del bilancio della banca”.
Immaginate adesso che il fallimento di qualche grosso gruppo
bancario – assicurativo, provochi una pur minima e frazionale perdita
di fiducia del pubblico, e che aumenti la domanda di oro a scopo
cautelativo (tra l’altro le legislazioni oggi consentono la
detenzione di oro a fini di investimento) diciamo anche solo per l’1%
della massa mobiliare esistente nel mondo (svariate migliaia di
miliardi di euro): il prezzo andrebbe alle stelle, perché la
produzione annua (pari ad appena 30 mld. di euro) è infima al
confronto, e le sopraccitate banche centrali dovrebbero ricoprirsi di
colpo a meno di non dichiarare – proprio in un momento di minore
fiducia nella loro carta – che in realtà ne hanno la metà di quanto
appare nei bilanci. E poiché per contrastare la depressione
conseguente, è molto probabile che si mettano a stampare moneta alla
grande, immaginate l’iperinflazione conseguente. Quindi mentre l’oro
andrà alle stelle, il denaro liquido o in obbligazioni o simili,
perderà velocemente valore .
Nel frattempo detenere oro, può voler dire rinunciare a un po’ di
miseri interessi o rischiare qualche fluttuazione negativa
nell’ordine del 10-20%. Ma si tratta di quisquiglie rispetto al
valore della copertura offerta in caso di scenario da incubo. Fatevi
i vostri conti.


Ma sopratutto vendete il dollaro, naturalmente. Vediamo perché stanno maturando i tempi.
Al G7 di settembre 2003 è stato fatto un accordo per la svalutazione del dollaro, iniziando dallo yen, ma non tutto è semplice come può sembrare.
Se il dollaro si svaluta con lo yen, si svaluterà anche con le altre monete asiatiche? Non è automatico, c’è un problema: non quello commerciale, che è un falso problema perché se il dollaro si svaluta contro tutti le quote di mercato restano inalterate, solo si restringe la torta disponibile, ma mal comune mezzo gaudio; bensì quello finanziario. Se gli asiatici comprano meno dollari quando riciclano il loro surplus commerciale, e si rivalutano nei confronti del dollaro, ciò di norma comporterebbe anche un aumento dei tassi di interesse USA. Non solo quindi i loro titoli del tesoro americano varrebbero meno in valuta locale, ma anche subirebbero una perdita in conto capitale dovuta al ribasso dei corsi obbligazionari. Una doppia legnata, frutto della vecchia legge della domanda e dell’offerta.
Ecco dunque il ruolo della FED negoziato nell’accordo di svalutazione: la Fed compra i titoli di Stato al fine di mantenerne il valore; i governi esteri non si mettono a vendere i medesimi titoli (magari smettono di comprarne altri come per ora continuano ancora a fare), e così si spera di poter svalutare il dollaro senza danni sui tassi a lungo, al fine di mantenere la crescita e ridurre il deficit estero americano solo via cambio.
Tutti sanno che il dollaro è destinato a scendere, il dibattito è solo sul quanto e sul quando oltre che sul come. Se la Fed permettesse ai tassi d’interesse di alzarsi man mano che il dollaro si svaluta, danneggerebbe il mercato ipotecario e quindi quello immobiliare: un calo dei prezzi delle case è l’ultima cosa che si vuole vedere. Se il mondo (Cina e Asia in particolare) affossassero il dollaro di colpo, cosa che potrebbero fare in 15 minuti, il risultato sarebbe una grande depressione mondiale che nessuno vuole. L’interesse di tutti è che il giocattolo non si rompa: che gli americani comprino le loro merci. Ma ora è diventato chiaro perfino ai banchieri centrali comunisti che non si può continuare a generare mezzo triliardo di debiti (per gli USA) o di crediti (per gli altri) all’anno, all’infinito. Come minimo ci vuole una speranza di rientro, questa speranza è la svalutazione. Dal momento che i governi esteri stanno comprando una sempre maggior quota del debito americano (siamo al record storico del 50%) l’attuale trend se non corretto porta gli USA ad essere nei guai, in breve tempo, soprattuto con la tanto agognata ripresa economica: infatti i tassi si alzerebbero e ciò significherebbe pagare ogni anno interessi per centinaia di miliardi di dollari e il debito si autoalimenterebbe in una spirale viziosa (all’italiana, quando il deficit era costituito soprattuto dagli interessi, con i tassi al 10% e oltre), e sconquasserebbe l’attuale struttura economica mondiale.
Insomma forse si sono decisi: occorre la “svalutation” del dollaro, e sperano di ottenerla in modo lento e graduale, in un contesto di tassi che restano bassi, sperando nel frattempo l’economia americana possa iniziare a produrre posti di lavoro.
Più in generale, non vi è dubbio che ci vorrebbe la forza di affrontare una recessione , una cura dimagrante, in grado di risistemare i conti e gli equilibri strutturali. Io resto sempre della scuola di pensiero secondo cui occorre prendere la medicina anche se amara. Ma ciò non succederà. La Fed e gli americani in genere sono “antropologicamente” programmati per fare di tutto pur di scongiurare una recessione, salvo poi essere travolti dagli eventi e finire nel disastro. Loro comunque non credono che le cose andranno male; però ammettono che la “svalutation” ci vuole, anche se preferiscono chiamarla rivalutazione delle altre monete, questo sì l’hanno finalmente capito (sono anni che lo scrivo mentre loro predicavano il dollaro forte). Come la Fed ha capito che la ripresa in atto dopo la più massiccia stimolazione fiscale e monetaria della storia mondiale, non è forte come sembra ed ha bisogno di essere sostenuta al massimo. Se avessero creduto quello che pensano le borse, nella loro ingenua corsa al bengodi, non avrebbero mai usato parole come “considerevole periodo di tempo” a proposito dei tassi bassi, né avrebbero continuato a parlare di “probabilità, seppur minore, di una malaugurata caduta dell’inflazione”, come hanno fatto per tutto il 2003.
Ne vedremo delle belle, meno male che c’è l’oro.
Nel frattempo che impatto avrà la svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro?
A livello micro, ovviamente gli effetti sono per il turismo (più europei negli USA e meno americani in Europa), ed in genere per le imprese che hanno costi in dollari e ricavi in euro (realizzano più utili) o viceversa (realizzano meno utili); naturalmente ciò a bocce ferme, perchè in realtà il cambiamento dei prezzi relativi modifica poi le quantità, e quindi il saldo finale in termini dinamici non è detto resti il medesimo.
Se si osservano i grafici sull’andamento dei profitti delle imprese USA (di cui il 20% circa realizzati all’estero) si vede che c’è una precisa correlazione: nelle fasi di dollaro forte i profitti scendono, e viceversa.Tra i motivi, ovviamente, l’aumento delle esportazioni ( ed anche la riduzione delle importazioni che consente un effetto sostituzione con i prodotti nazionali, che quindi ne beneficiano), e il semplice effetto contabile dei profitti realizzati in valuta estera : al momento della conversione generano più dollari.
Tutto il contrario avviene per le imprese europee, ed è per questo che si sentono già lamentele da questa parte dell’Atlantico. In realtà, la svalutazione del dollaro ha anche benefici per il potere d’acquisto europeo: provocando un calo dei prezzi delle importazioni (vedasi il petrolio, in primis) , a parità di salari, genera più risorse spendibili, e dunque una maggiore crescita della domanda interna che può più che compensare il calo della domanda estera.
In ogni caso non ci si devono attendere miracoli, e a livello planetario la situazione è ancora più controversa, perché ciò che potrebbe avvenire in Europa ad esempio non può avvenire in Giappone (che infatti cerca disperatamente di mantenere fisso il cambio con il dollaro).
Occorre ricordare che a causa della propria rigidità(salariale e normativa), l’Europa non è stata in grado finora di creare un sufficiente numero di nuove attività; il che significa che qualsiasi incremento di crescita riesca ad ottenere, sarà riservato alle industrie tradizionali; ma sono proprio queste che avranno in ogni caso problemi crescenti, derivanti dalla competizione degli asiatici esacerbata dal fatto che le loro monete si svalutano nei confronti dell’euro(vedasi euroyen). Difficilmente le imprese europee che beneficeranno dalla svalutazione del dollaro, tradurranno il beneficio in maggiori asssunzioni ed investimenti, anche perché la loro priorità resta il calo dei debiti.
Pertanto, la svalutazione del dollaro, nella somma macro relativa ai paesi del G7 potrebbe facilmente avere l’effetto di deprimere la crescita nel complesso, e quindi gli USA non potrebbero sfruttarla appieno. Molti pensano che il calo del dollaro forzerà Giappone ed Europa a fare le riforme e comunque ad applicare più stimoli alla propria domanda interna: sarebbe cosa buona e giusta, ma purtroppo improbabile perché in prima battuta le riforme provocano minore crescita e maggior disoccupazione: dove si trovano i politici disponibili a ciò? Insomma è la vecchia sempiterna morale della favola: per guarire occorre ingurgitare pillole amare, ma nessuno se la sente di prenderle , e dunque non si guarisce.
Un esempio preoccupante in materia è dato dalla Germania, dove le già modeste proproste di Schroeder stanno incontrando una formdabile resistesnza.Ma se la Germania non riesce urgentemente a fare le riforme, allora l’impatto della rivalutazione dell’euro avrà un effetto devastante: stagnazione e deflazione. La situazione tedesca zavorrerà l’intera europa, e la BCE che si basa sulle medie statistiche, dovrà tenerne conto, altrimenti la Germania avrà per giunta tassi reali d’interesse alti, che avviteranno la crisi; si aggiungano i problemi del sistema bancario tedesco, e il rischio che la Germania perda la tripla A sul debito sovrano, e si capirà la gravità della attuale contesto politico-economico: altro che andare spensieratamente a fare shopping in borsa!
Andando ad esaminare l’impatto globale della svalutazione del dollaro, non si può restare chiusi all’orticello europeo. La gran parte della popolazione mondiale risiede in Asia ed è con questa che si devono fare i conti. Attualmente gli asiatici stanno tenendo bloccate le loro valute con il dollaro, perché hanno paura di perdere quote di mercato negli USA. Il che significa che nei loro confronti finora le merci americane non hanno conseguito alcun vantaggio. Né si può pensare che solo il cambio eurodollaro possa consentire il riaggiustamento del deficit USA: attualmente solo 6-7 miliardi al mese sui 40-43 totali sono imputabili all’Europa. Gli asiatici, aspettano la Cina. Finchè questa non si deciderà a rivalutare lo yaun con il dollaro, le altre tigri (in stretta competizione con i cinesi) non molleranno; ed i cinesi non lasceranno andare lo yaun finchè non penseranno di avere un mercato interno in grado di compensare la minore domanda estera, cosa per ora ben lontana. In conclusione quindi, la svalutazione del dollaro pur muovendosi nella giusta direzione, e pur dovendo essere inquadrata nel contesto geopolitico , difficilmente potrà essere sufficiente a tirare fuori l’economia americana dalle sabbie mobili in cui è sprofondata. Anche perchè non va dimenticato che un dollaro in caduta, significa meno flussi di capitale estero in entrata, il che porta a un deterioramente nelle condizioni del mercato dei capitali interno proprio in una fase di deficit pubblico crescente.













Parte quinta: Crimini e misfatti


24- Distruzione di Capitale, produttività e conti edonici
E’ una ovvietà dire che se uno spende più di quanto guadagna, non diviene più ricco ma più povero.
Lo stesso vale per una nazione.
Ciò nonostante ancora ci tocca leggere che gli USA hanno beneficiato della creazione di ricchezza più grande di tutti i tempi negli utlimi dieci anni, ignorando il crescente debito interno ed esterno.
Come è possibile ? In breve, dobbiamo di nuovo distinguere tra micro e macro.
Dal punto di vista di un individuo, se i prezzi delle azioni che egli possiede salgono, indubbiamente lo fanno divenire più ricco.
A livello macro il punto cruciale da vedere è se questa ricchezza aggiunge qualcosa all’economia reale, e in particolare in termini di capitale produttivo(impianti, equipaggiamenti,etc.). Dal punto di vista nazionale, il solo modo per aggiungere ricchezza è costruire strutture produttive e abitazioni in grado di generare reddito. Questo è quello che si intende, in termini economici, per investimento di capitale (al netto dei debiti).
Piuttosto, se prezzi di borsa crescenti creano pretese sull’economia reale, può avvenire un impoverimento. Negli USA, ad esempio, proprio la bolla azionaria ha sostenuto il protrarsi dell’indebitamento dei consumatori e relative spese,ed in contropartita ha sostenuto la salita esponenziale dell’indebitamento del paese verso l’estero. Il buon senso, ci fa capire che una situazione simile è un classico caso di distruzione di capitale.
Nell’opinione di consenso, la brusca caduta degli investimenti fissi delle imprese americane è dovuta alla precedente situazione di eccesso di investimenti ed all’eccesso di capacità produttiva che ne è conseguita. Tale valutazione è basata sul fatto che gli USA ebbero un elevato rapporto tra investimenti lordi e PIL negli anni precedenti. Io credo invece che la caduta degli investimenti sia dovuta agli straordinari eccessi di spesa in consumi che essenzialmente hanno provocato un drastica contrazione della quota di PIL disponibile per gli investimenti netti.
Qual è la differenza tra queste due valutazioni?
In base all’impostazione convenzionale, gli investimenti fissi di di capitale delle aziende nel settore non finanziario hanno pesato per il 31% della crescita reale del PIL tra il 1997 ed il 2000. Si tratta del più alto peso nella storia USA. Ma se invece andiamo a calcolare questo stesso peso in base al criterio da me preferito, cioè senza gli aggiustamenti edonici , vediamo che esso scende al 7,3%. Si tratta di una differenza clamorosa. Quale dei due calcoli è più ragionevole?
L’investimento netto è l’investimento lordo meno i costi di svalutazione (ammortamenti, etc.) Normalmente i due si muovono di pari passo, ma se divergono vuol dire che le svalutazioni rallentano o accelerano.Quest’ultimo caso è esattamente quanto è successso negli USA durante gli ultimi anni. Man mano che gli investimenti delle imprese in computer e software a rapida obsolescenza sono aumentati come quota degli investimenti totali, i costi da svalutazione sono bruscamente accelerati, così una più grande parte degli investimenti lordi altro non sono stati che semplice rimpiazzo di capitale preesistente e rapidamente “morto”, senza aggiungere dunque niente allo stock di capitale nazionale. Un’altra principale fonte di differenze tra i due sistemi di calcolo degli investimenti, è quella già citata nello speciale trucchi statistici, vale a dire i prezzi edonici, cioè quelli applicati dagli statistici ai computers di nuova generazione. Nel 2000 le imprese spesero 93,3 miliardi di $ in nuovi computers, appena sopra i 90 dell’anno precedente. Misurandoli in termini edonici gli statistici hanno registrato una cifra enormemente superiore pari a 246 miliardi di $, e ben più elevata dei 207 dell’anno precedente.
La singola più elevata spinta statistica al peso degli investimenti sul PIL USA fu data nel 1999. Con un colpo di penna, il dipartimento del commercio eliminò le spese in sofware dai conti economici delle imprese e li mise nello stato patrimoniale tra gli investimenti. In un colpo solo, ci fu l’impennata del PIL e della produttività e dei profitti che si trova infatti nelle statistiche di quell’anno. Per dare un idea dell’impatto di questo cambiamento: nel 1997, le spese per “equipment” delle imprese risultavano di 620 miliardi di $; nelle statistiche attuali per lo stesso anno troviamo invece la cifra di 764 miliardi. In seguito il software è stato contato per il 45% degli investimenti totali in high-tech. Inoltre, dall’altro lato i prezzi dei computer sono stati drasticamente rivisti al ribasso.
Non c’è altro da dire se non che si tratta di una manipolazione statistica, ed è impressionante vedere come l’ampia armata di esperti economici del mondo finanziario possa essersi così facilmente fatta trarre in inganno. La miserabile realtà è che gli investimenti netti e lo stock di capitale sono nettamente diminuiti in rapporto al PIL sin da inizio anni 80.
Non stupisce quindi che la gran maggioranza , cioè gli ingenui ingannati, dica che i mercati azionari hanno finito di scendere dopo gli ultimi 3 disastrosi anni da loro non previsti. Avete notato che tutti sono bravissimi a spiegare il futuro, ma nessuno spieghi come mai si era sbagliato in passato, a parte ricorrere ai soliti alibi (11 settembre, scandali nei bilanci,irak)?

Un assioma economico base, dice che investimenti crescenti in beni tangibili (impianti, uffici, macchinari, etc.) sono il segnale di crescita economica e prosperità generale. Innanzitutto perché generano domanda, occupazione, redditi e ricchezza tangibile durante il periodo in cui vengono costruiti e prodotti. Poi, una volta che i beni capitali sono installati, iniziano ad aumentare l’offerta, l’occupazione, i redditi e la produttività. Il punto chiave è che l’investimento è il solo componente del PIL che aumenta sia la domanda che l’offerta.
Ma il pensiero economico contemporaneo sembra dimenticare questa verità. Prima di tutto infatti esso pone una enfasi eccessiva sul consumo come motore primo della crescita economica, ed in conseguenza tende a ignorare quello che succede al risparmio ed all’accumulazione di capitale. Quest’ultimo concetto è stato sostituito dall’enfasi messa sui cambiamenti autonomi nella produttività attraverso le nuove tecnologie, vista come la radice ultima della crescita economica e della redditività (Greenspan docet).
Si tratta di un radicale capovolgimento del pensiero dei vecchi grandi dell’economia. Ma soprattutto si tratta di una causa di errore fatale. Infatti, misurata con il tasso di crescita della produttività, l’economia USA ad esempio appare in ottima forma, certamente la migliore economia mondiale. Ma se la misuriamo con il suo minimo tasso di risparmio e di accumulazione del capitale, appare invece in pessima forma e certamente la peggiore.
Qual è l’interpretazione giusta?
Per Greenspan e soci, la crescita della produttività sembra essere quella grande bacchetta magica capace di risolvere tutti i problemi e di sostenere la ripresa economica. E’ divenuta un luogo comune l’affermazione – che si legge in migliaia di interviste a “economisti” – che la stellare crescita di produttività negli USA è la garanzia che la ripresa arriverà.
Il punto cruciale è capire che la crescita della produttività , in sé stessa, non è altro che il rapporto tra ore lavorate e PIL reale. Dunque se si produce lo stesso PIL reale con meno ore lavorate, la produttività è salita. Ma non c’è nessun merito economico in questo effetto a meno che non sia accompagnato da un miglioramento in qualche altro tipo di performance, come una crescita dell’output, dei profitti o degli investimenti. Nel caso degli USA, in realtà, ogni altra cosa si sta deteriorando e probabilmente è questo il motivo per l’attuale “mitizzazione” della produttività.
Se guardiamo all’intero periodo post-bellico, gli USA hanno in realtà avuto la loro migliore performance economica durante gli anni 60, quando il risparmio nazionale era ai livelli massimi di tutto il periodo, così come lo erano i profitti. A quell’epoca i consumatori si indebitavano poco e prevalentemente per le nuove case, idem per le aziende il cui scopo era il finanziamento di nuovi impianti, ed in generale di assets tangbili. In sostanza gli USA si indebitavano moderatamente al solo fine di trasformare il risparmio che avevano in capitale produttivo.
Le cose sono inizate a cambiare gradualmente già negli anni 70 e poi nettamente negli anni 80. Da quel momento la crescita dei debiti è divenuta esponenziale: quella dei consumatori + 437% , delle aziende +382%, il tutto a fronte di un PIL salito del 283%.
Ma il fattore più importante non è quello quantitativo, bensì quello qualitativo: un draSTICO CAMBIAMENTO NELL’USO DEI NUOVI DEBITI. I consumatori hanno iniziato a indebitarsi come matti per finanziare le loro spese correnti, e le imprese idem per finanziare transazioni di vario tipo (principalmente leveraged buyout, acquisizioni, fusioni, riacquisto di azioni proprie) tutte al fine di aumentare velocemente le quotazioni azionarie. Moralmente, si abbandonò l’etica del “ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte” cui si erano ispirati i padri, alla ricerca del guadagno facile e veloce.
Già negli anni 80, in verità, l’emorraggia di risparmio nazionale iniziò a provocare varie preoccupazioni tra gli economisti più attenti. Poi furono zittiti e durante l’ultima bolla degli anni 90 l’argomento non è stato neanche tirato fuori. Greenspan infatti andava dicendo che la creazione di credito rendeva obsoleto il vecchio risparmio, non ce n’era bisogno; ci avrebbe pensato la produttività!
Che bisogno c’era di risparmiare se la produttività saliva a ritmi stellari anche senza risparmio?
Ebbene questa concezione è totalmente sbagliata, sta alla base di tanti mali di cui ancora si devono pagare le conseguenze, ed è un non senso macroeconomico.
La crescita della produttività non è una panacea. Se vi è domanda insufficiente, la produttività crescente può solo provocare un aumento dei disoccupati, un minore utilizzo degli impianti, e dunque una crescita più lenta. Esattamente la situazione attuale.
Perché generazioni di economisti del passato concordavano sul fatto che il risparmio fosse una chiave indispensabile per la crescita economica? perchè è la materia prima degli investimenti in beni capitali. Poiché tutte le risorse naturali sono limitate, nuovi investimenti in beni capitali possono venire soltanto nella misura in cui qualcuno rende disponibili le risorse necessarie per la loro produzione. Questo qualcuno non può che essere il lavoratore-consumatore che risparmiando una parte di ciò che guadagna (e dunque non consumando tutto) rende effettivamente disponibili le risorse necessarie per gli investimenti.
In breve, il capitale si forma grazie alla quantità di prodotto non consumato: il risparmio non è sinonimo di formazione del capitale, ma è di norma l’indispensabile premessa affinchè si ottenga questo risultato. In matematica si direbbe “condizione necessaria ma non sufficiente” perché poi ci vuole lo spirito d’intrapresa per trasformarlo in investimento. Oggi, grandi menti si arrovellano intorno alla domanda: ci sarà o no un’altra recessione? Ma questa domanda è sbagliata. Ciò che realmente conta è se il tasso di risparmio risalirà dopo il suo crollo, e a questa domanda si può facilmente rispondere vedendo cosa fanno i consumatori: se questi ultimi inizieranno a stringere la cinghia, abbassando il tenore di vita, sopportando l’inevitabile recessione , allora l’economia USA avrà poi la possibilità di riprendersi in modo durevole e sano. Altrimenti avremo una stagnazione che durerà anni con crisi finanziarie continue, fino a sfociare in una Grande depressione. Purtroppo poiché la politica economica è tutta tesa (basti vedere anche l’ultimo piano Bush) a far spendere la gente sempre di più, sappiamo già quale è l’alternativa che si realizzerà.
Inoltre c’ è uno scandalo di cui nessuno parla. E’ il modo di fare i conti , americano.
Una manipolazione scandalosa riguarda le cifre dell’occupazione. Durante il secondo trimestre 2003 ufficialmente risultano persi 260 mila posti di lavoro, ma ciò nasconde il fatto che nello stesso periodo ben 556 mila lavoratori sono spariti dalla forza lavoro alla ricerca di un posto, perché hanno smesso di cercarlo, non trovandolo. Questo gruppo rapidamente in crescita, non viene considerato disoccupato, per cui ciò che le statistiche del lavoro USA misurano in realtà non è il cambiamento della disoccupazione, ma il cambiamento in coloro che risultano in cerca di lavoro. Se si includono i disoccupati che non cercano lavoro nel totale dei disoccupati abbiamo un tasso effettivo di disoccupazione simile a quello europeo ed in rapida crescita. Inoltre, il dipartimento del lavoro utilizza il sistema delle revisioni che serve a camuffare una verità politicamente molto scomoda. A luglio 2003, ad esempio, ha detto che le busta paga erano scese di 44 mila, mentre i posti persi per giugno erano stati rivisti al rialzo da 30mila a 70 mila, e per maggio la stessa revisione è stata ancora maggiore da 17 mila a 70 mila. Poiché queste revisioni al rialzo dei mesi precedenti sono divenute una regola, c’è il positivo effetto di abbassare corrispondentemente il tasso di dsoccupazione ogni mese, a parità di altri elementi, e lo stesso avviene anche per il dato settimanale dei sussidi disoccupazionali. Infine ogni mese il governo aggiunge 30-50 mila lavoratori immaginari al totale, basandosi sull’ipotesi che in una fase di ripresa economica – come ha battezzato essere quella attuale – vi siano nuove imprese individuali che partano. Tutto ciò che serve per attivare questa creazione statistica di posti di lavoro è una decisione unilaterale del governo, per la quale si dica che si è in fase di ripresa. Una volta all’anno, poi, gli statistici riconciliano le loro ipotesi con la realtà, come hanno fatto a maggio 2003 quando hanno detto che si erano sbagliati e 400 mila posti precedentemente riportati tra i nuovi creati, sono spariti come neve al sole, con un tratto di penna; però nel frattempo, nei dati che mese per mese muovono mercati e valutazioni degli economisti, essi c’erano!
Ecco dunque perché io resto scettico quando sento parlare di roboante ripresa, soprattutto se penso che tutti gli elementi espansivi sparati al massimo, sono ormai in fase di evaporamento se non di inversione.Cioè la droga dà un effetto iniziale forte, ma poi c’è l’assuefazione. Nel frattempo però la struttura fisica si deteriora e per ogni dollaro effettivo aggiunto al PIL, adesso occorre aggiungerne 6 di indebitamento del sistema che corre verso l’insolvenza. Mynsk avrebbe chiamato questa una Ponzi economia, dove i pagamenti dei debiti vengono fatti grazie a nuovi debiti mentre gli interessi non pagati si aggiungono al totale. E quando i tassi dovessero risalire….
Un altro scandalo è il modo con cui economisti e giornalisti affrontano queste tematiche. L’intera discussione oggi si basa sui dati economici della giornata con una sola domanda in mente: è meglio di quanto atteso? Un attenta e più dettagliata analisi in una prospettiva di lungo termine, manca completamente. Appare evidente che la gran maggioranza si limita a leggere i titoli di testa ed i sommari che reuters e bloomberg scrivono nei minuti successivi ai dati (inoltre i dati dell’indebitamento non risultano fra quelli dei calendari tipici- come mai?- per cui pochi li vanno anche solo a guardare una volta ogni tanto).



25- Kindleberger

Se c ‘è un libro che ogni investitore dovrebbe leggere, è “ Manie,
panico e crashes- una storia delle crisi finanziarie” di Charles
Kindlerberger(1910-2002) .

Prima che uno guidi una macchina o un aereo deve avere un certo grado
di allenamento e avere avuto un istruttore esperto; poi deve fare un
esame dove può essere bocciato, prima di ottenere la licenza di
pilota .E inoltre deve mantenere una continua pratica e per essere
qualificato a guidare di notte o con voli non visivi ci vuole un
istruzione aggiuntiva . Invece gli investitori neofiti, alcuni
incapaci di riconoscere un azione da un obbligazione, possono
pilotare i risparmi della loro vita senza alcuna forma di istruzione
o allenamento . Tutto quello che devono fare è andare in banca e dare
alcune ( molte volte confuse ) indicazioni sulle proprie risorse e
obiettivi . Poiché spesso il neofita inizia quando i mercati sono
favorevoli , si trova totalmente impreparato ad affrontare ciò che
può succdere quando arriva la tempesta . Inoltre si trova ad essere
condizionato dai vari mantra : “ comprare sui ribassi “ , “ tenere
per il lungo termine “ , e altri simili, accomunati dalla concezione
che a lungo andare non vi siano rischi ma soltanto volatilità a breve
termine .
Il libro di Kindlerberger può non impedire che la gente faccia follìe
finanziarie o perda soldi ; ma certamente rende cauto un investitore
e gli dà un senso della storia . Infatti le manìe non sono nuove e si
sono succedute regolarmente, anche se quella scoppiata il 10 marzo
del 2000 ( con il Nasdaq a 5048 ), costituisce la più ampia manìa
finanziaria di tutti i tempi .
Un nuovo investitore leggendo Kindlerberger si rende conto che
nessuna manìa va avanti all’ infinito , che qualcuna sfocia nel
panico, qualcun altra in veri e propri crash , e altre possono essere
seguite da anni , a volte decenni, di stallo . Ciò può non impedire
che un nuovo investitore venga preso dalla manìa ma almeno lo rende
consapevole di ciò che sempre succede ( e che mai “ questa volta è
diverso “ ), possibilmente può fargli ridurre i danni uscendo in
tempo .
Un altro mantra “ il mercato sempre rivede i prezzi “ non spiega che
ci son voluti ad esempio 25 anni prima che ciò si verificasse dopo il
picco del 1929 e non spiega che per molte azioni ciò non si
verifica ; ad esempio chi ha comprato nel 1928 le azioni di Radio
corporation of America quando era l’ azione “ growth “ del tempo,
l’avrebbe vista triplicare nel 1929 per poi non vedere mai più quel
prezzo perché sarebbe completamente sparita nei decenni succesivi e
così migliaia di altre meno note.
Il libro di Kindlerberger nell’ edizione del 1996 (circa 197 pagine
prima delle appendici), è accompagnata da una frase di Paul
Samuelson : “ i prossimi anni ci si può fare molto male per non aver
letto o riletto Kindlerberger “ . I primi 3 capitoli intitolati
rispettivamente “ crisi finanziarie : una dura costante “ , “
anatomia di una crisi tipica “ e “ manìe speculative “ , documentano
circa 4 secoli di cicli finanziari . In quest’ ultima edizione è
inclusa anche la bolla giapponese , azionaria ed immobiliaria, degli
anni 80 e lo scoppio che ne è seguito fino al 1996 . Nella sua
introduzione a questa terza edizione già Kindlerberger avvisava che
gli sembrava di riconoscere una bolla nelle azioni tecnologiche :
aveva visto giusto come sappiamo anche se ci sono voluti 4 anni prima
che scoppiasse.
Nel libro egli descrive il classico modello comportamentale di una
sequenza a 7 fasi “bolla –scoppio” : 1) un cambiamento fondamentale
come una guerra o una nuova tecnologia, crea nuove opportunità di
investimento 2) l’ investimento si espande, spesso favorito dal
credito facile 3) l’ investimento diventa speculativo , aizzato da
aspettative iperottimistiche di crescita degli utili 4) nell’ ultimo
stadio l’ investimento è totalmente separato dalla realtà, diviene
maniacale e si diffonde globalmente 5) l’ eccesso di indebitamento
per finanziare l’eccesso di investimenti sfocia in un eccesso di
capacità e in un collasso dei prezzi 6) alla fine la manìa termina
con un crash e con la repulsione degli investitori che scappano dal
mercato 7) le autorità si ritrovano con il problema di stabilizzare
il siteme finanziario e con la scoperta di estese situazioni di
corruzione e di manipolazione .
Suona familiare ?
L’ appendice B si intitola “elenco delle crisi finanziarie 1618-
1990” e ne conta 42 successe durante quest’arco di tempo . Solo 4
sono dopo la seconda guerra mondiale: oltre alla bolla giapponese del
1989, l’ esplosione del prezzo del petrolio nel 1973, la recessione
indotta da Volcker della Fed all’ inizio anni 80 , ed il panico del
19 ottobre del 1987 collegato al rialzo dei tassi americani. Il
crollo di 508 punti del Dow Jones ( che aveva toccato un picco a 2722
nell agosto 1987 ), record assoluto di perdita percentuale in una
sola seduta, fu dovuto a una combinazione di fattori tra cui i 90
miliardi di $ di azioni che erano “ protette “ da stop loss . Quando
sono scattate simultaneamente su quest’ enorme ammontare il sistema
andò in crisi e quel crollo sarebbe potuto essere peggiore se il
mercato non fosse stato sospeso .
In ogni caso quasi tutte le crisi pre-1945 elencate nell’ appendice
di Kinderberger sono del tipo bolla-scoppio ; mentre ogni recessione
dal 1945 in poi negli USA è stata creata dal rialzo del tasso di
interesse . Domanda : quante bolle azionarie sono avvenute negli USA
nel periodo post bellico ? Solo una, quella degli anni 90, da poco
scoppiata . Vi sono state altre manìe speculative ma confinate a
settori specifici (quasi sempre nella tecnologia: nell’ uranio, nelle
line aeree, nei Tv a colori ; quando sono scoppiate hanno danneggiato
soltanto i partecipanti a quel tipo di bolla ) .
Questa volta dunque non ci troviamo in una situazione analoga alle
altre post belliche . Come scrive anche l’ Economist il 28 settembre
2002 in un inserto dal titolo “ la recessione incompleta” a
proposito dei banchieri centrali: “ sembra non capiscano che questo
ciclo economico è diverso ; le altre recessioni sono state
principalmente il risultato di un aumento dell’ inflazione ;
quest’ultima invece è il risultato dello scoppio della bolla
azionaria ed economica “. Il che spiega anche perché il sistema non
ha risposto ai drastici tagli del tasso di interesse, che sempre
prima avevano avuto successo.
Non siamo in un ciclo normale, ma all’indomani dello scoppio della
più grande bolla di tutti i tempi: mai prima le azioni erano state
così sopravvalutate, mai prima tanta gente aveva posseduto azioni, e
mai prima vi era stato un tale eccesso di investimento
tecnologico.L’unico precedente che gli somiglia, negli USA, è quello
del 1929 e sappiamo cosa ne è seguito: la grande depressione; fuori
degli USA, l’altro precedente è quello giapponese: stiamo vedendone
ancora gli effetti 12 anni dopo.



Tra il 1971 e il 1985 le azioni giapponesi salirono del 500%. Poi nei
successivi 5 anni accelerarono ulteriormente triplicandosi alla fine
degli anni 80.

Negli USA le azioni sono salite di circa il 500% tra il 1981 e il
1995, e si sono triplicate nei 5 anni successivi.

Nel gennaio del 90 l’azionario nipponico iniziò a scendere, perdendo
il 30% nei successivi 18 mesi.

A gennaio del 2000 (se si guarda il mercato nel suo complesso, e non
solo il Nasdaq) l’azionario americano ha iniziato a scendere e 18
mesi dopo aveva perso il 30%.

Le famiglie giapponesi non si sono mai indebitate come quelle
americane, ma il trend dei risparmi è stato analogo. Il tasso di
risparmio dei gialli è sceso dal 20% al 10% durante gli anni del
boom. Lo stesso per gli americani solo che loro sono passati dal 10%
a zero.

In entrambe le situazioni vi sono state spiegazioni che
giustificavano il boom. I giapponesi nel 1989 erano considerati geni.
Nel 1999 i vari Welch, Lay, Bezos, Kolowsky e Case erano tutti geni.
In entrambi i casi nessuno si aspettava quello che è successo dopo.
Nel 1991 in Giappone si diceva che era una correzione temporanea.
Negli USA nel 2001 si diceva che entro l’estate sarebbe stato tutto
finito.

Se si guarda ai grafici delle rispettive borse si trovano gli stessi
falsi rally intermittenti, tipici dell’Orso di lungo periodo. Il
nikkey toccò un minimo importante all’inizio del 1992, superato al
ribasso solo nel 1995 e poi quest’ultimo venne superato nel 1998, e a
sua volta nel 2001. Oggi , dodici anni dopo l’inizio
della “correzione temporanea” si ritrova a nuovi minimi che riportano
l’indice ai livelli del 1983. E non sappiamo se è finita.
Se Wally continuerà nella sua imitazione i minimi del marzo 2003 potrebbero
anche tenere fino al 2005, e poi questi fino al 2008, ma nel 2012
dovremmo trovarci ai livelli del 1993. E non sappiamo se lì sarà
finita.

Se si osservano le politiche dei tassi entrambe hanno puntato verso
lo zero,spingendo la gente a spendere ancora di più.

Peccato che le persone diventino più ricche solo se risparmiano di
più non se spendono di più.
Non parliamo poi dei debiti. Io posso ottenere un milione di euro a
credito se volessi. E se lo spendessi, il mio standard di vita
inevitabilmente salirebbe. Ma quando dovrò restituire i soldi che
farò? E se me li abbuonano, in ogni caso come minimo dovrò ridurre
drasticamente il mio tenore di vita, perché non avrò un altro milione
di euro da spendere. Lo hanno ridotto i giapponesi, dovranno ridurlo
gli americani. E’ molto probabile che – come minimo – gli USA
subiscano nei prossimi dieci anni la stessa sorte dei giapponesi tra
il 1992 e oggi. L’economia farà fatica a stare a galla, e la borsa
continuerà a scendere, al netto dei vari rally intermittenti
dell’orso.


26- Borsa e PIL
“E’ pericoloso applicare al futuro argomenti basati sull’esperienza passata, a meno che non si sia capaci di distinguere le ragioni di fondo per cui la passata esperienza è stata quello che è stata; se non si è capaci di far ciò il rischio è cadere nella trappola di attendersi risultati futuri che invece si materializzeranno solo se le condizioni sono esattamente le stesse che furono nel passato” (J.M.Keynes, 1925).
Allora c’è chi dice che le borse saliranno, c’è chi dice che sono già salite troppo e troppo presto. Un anno fa idem, e nel 2001 ha avuto ragione chi era pessimista, perchè alla fin fine le borse sono sotto dal 10 al 30% a secondo degli indici di riferimento.
Il consensus, vale a dire la maggioranza, prevede per il 2004 borse in salita e obbligazioni in calo. Ma un certo dubbio serpeggia nell’aria, il disorientamento e la confusione sono elevati. Cerchiamo una bussola, e questa guida non può che essere quella delle leggi fondamentali dell’economia. Che certamente non servono per capire quello che le borse faranno tra un mese, o sei mesi, ma possono aiutare per capire qual’è la direzione di base nei prossimi anni.
Il PIL o prodotto interno lordo, non è altro che la misurazione statistica di quanto si accresce lo stato patrimoniale di un paese da un anno all’altro. Ciò può essere
misurato dal punto di vista dei redditi o da quello dell’uso che di questi redditi viene fatto.Nel primo caso il reddito si può suddividere in funzione dei due fattori base che lo producono: il capitale e il lavoro. Non esistono altri fattori , tutto si riduce a questi due che possono poi essere suddvisi in varie categorie: il lavoro, in dipendente ed in proprio, il capitale in finanziario(azioni, obbligazioni) e produttivo (impianti, attrezzature, etc,), ma alla fin fine tutto si riconduce a queste due categorie di base: lavoro e capitale. Dal punto di vista dell’impiego del reddito vi sono due possibilità: o si consuma o si risparmia dal punto di vista del lavoratore, o si consuma o si investe dal punto di vista del capitalista.Anche qui vi sono varie sottodistinzioni, ma alla fine queste sono le due possibilità di base. E vi è una correlazione ovvia tra fonti e impieghi del reddito: quando la fonte del reddito è il lavoro, è molto probabile che una gran parte di esso venga consumato, quando invece è il capitale che venga investito. Da qui la grande legge economica di base quella della domanda e dell’offerta: il reddito di lavoro alimenta la domanda, il reddito da capitale l’offerta.
Il sistema economico per crescere in modo equilibrato necessita che domanda ed offerta crescano proporzionalmente, quando la prima (cioè i redditi da lavoro) cresce più velocemente si genera una squilibrio, più domanda che offerta e dunque inflazione; quando avviene il caso contrario (cioè i redditi da capitale crescono di più dei redditi da lavoro) l’offerta soverchia la domanda e si genera sovrapproduzione.
Tenendo in mente questo, andiamo alla Borsa.
La Borsa rappresenta il prezzo delle azioni quotate. Quando la Borsa sale, vuol dire che tale prezzo aumenta, evidentemente perchè in quel momento vi è una maggiore domanda di azioni rispetto all’offerta. Ma tale prezzo deve avere, nel lungo periodo, una evoluzione coerente con il valore intrinseco delle aziende, che è rappresentato dalla crescita dei profitti.
E torniamo al PIL: poichè quest’ultimo è dato dalla somma di salari e profitti, una crescita costante della Borsa può avvenire solo se vi è anche una crescita costante dei profitti; ma questi ultimi possono crescere solo nella misura in cui cresce il Pil complessivo, altrimenti avremmo una aumento della quota dei profitti sul PIL che non può per definizione essere duratura, altrimenti dovremmo al limte arrivare ad immaginare un mondo in cui il PIL è formato per il 100% da profitti e per lo 0 % dai salari, ed in questo caso avremmo solo offerta e niente domanda, cioè un assurdo.
Dunque -al di là di periodici scompensi delle crescite relative- nel lungo termine i profitti devono crescere di pari passo con il PIL. La Borsa dunque può crescere solo in misura equivalente al PIL, sempre nel lungo termine. Poi è ovvio che possono esserci fasi in cui vi sono velocità di crescita nettamente diverse, l’importante è capire come per forza però alla fine vi deve essere un riequilibrio altrimenti il sistema economico mondiale capitalistico sballa, non funziona.
Dove ci troviamo dunque oggi sotto questo profilo?
Riferiamoci al mercato borsistico più sviluppato , quello USA; e riferiamoci in particolare al Dow Jones che rappresenta l’economia tradizioanle (così depuriamo il tutto dagli eccessi della tecnologia e della new economy, nel senso che se scopriamo che il Dow è cresciuto molto più velocemente del PIL, a maggior ragione ciò varrà per gli altri indici). Ebbene nel 1899 il Dow era a 66, e nel 1981 era a 875 (si tratta di valori nominali, ma poichè li RAFFRONTIAMO AL pil NOMINALE, EVITIAMO IL PROBLEMA DI DOVER DEPURARE DALL’INFLAZIONE CHE PER DEFINIZIONE è LO STESSO NUMERO PER CUI DOVREMMO DIVIDERE NUMERATORE E DENOMINATORE). Dunque il Dow negli 82 anni citati è salito del 1300%; ed il PIL? Per verificare il rapporto basta che vediamo l’andamento della frazione in cui a numeratore mettiamo il valore delle azioni ed a denominatore appunto il PIl: ebbene vediamo che tale rapporto è stato quasi sempre sotto il 50% con una punta del 100% nel 1929 (non a caso la famosa bolla speculativa poi scoppiata), ed è poi tornato negli anni 40 al di sotto del 50%, per risalire nel dopoguerra verso il 70% ridiscendere durante gli anni 70 al 50% dove lo troviamo nel 1981. Dal 1981 al 1990 il rapporto sale ma resta al 55%; tra il 90 e il 95 sale ancora ma resta al 70%; esplode dal 95 al 2000 arrivando al 190% nel marzo del 2000; crolla nell’ultimo anno e mezzo al 140%, per nuovamente adesso risalire al 150%.
In altre parole dal 1981 al 2001 il dow è passato da 875 a 10mila con una punta a 12mila pari cioè a un incremento del 1350%, mentre il PIl è salito dal 1981 appena del 185%; se allunghiamo il confronto a cominciare dal 1964 quando il dow era già a 875(in pratica tra il 1964 e il 1981 è rimasto fermo) troviamo che nei 36 anni considerati il PIl è cresciuto del 550% mentre il dow del 1350%. In definitiva quindi capiamo che, al dilà delle bolle irrazionali sulle nuove tecnologie, e dunque sul nasdaq e simili, la stessa valutazione borsistica delle aziende tradizionali è salita in misura oltremodo sproporzionata rispetto all’economia sottostante.
Certo il discorso va ulteriormente qualificato: la capitalizzazione di borsa è in parte aumentata in funzione delle aziende quotate che sono cresciute di numero; la domanda di azioni è aumentata in parte per il diffondersi dell’abitudine di acquisto nella popolazione, e soprattutto per l’effetto previdenziale privato più volte citato; ma ciò non toglie che oggi ci troviamo in un punto della storia in cui esiste uno squilibrio tra crescita dei valori azionari e crescita dell’economia sottostante.
E’ ovvio inoltre che le fasi di squilibrio dipendono anche dall’andamento dell’inflazione e dei tassi d’interesse. Un dollaro di profitto vale meno in un contesto di inflazione al 10% rispetto ad un altro di inflazione all’1%; ogni punto percentuale di dividendo vale meno in un contesto caratterizzato da TASSI D’INTERESSE al 10% rispetto ad un altro in cui i tassi sono al 3%. E ciò serve per capire come ad esempio, tra il 1964 ed il 1981 il dow sia rimasto fermo nonostante una crescita del PIL pari al 373%, mentre tra il 1981 ed il 1998 si è più che decuplicato nonostante il PIl fosse cresciuto solo del 177%: si capisce perchè mentre nel primo periodo i tassi d’interesse sul bond decennale sono saliti dal 4,2% al 13,6% nel secondo sono ridiscesi al 5%.
Ma poichè anche i tassi d’interesse fanno parte del PIL (sono i redditi del capitale finanziario), l’equazione generale può sì vedere una distribuzione diversa tra interessi e profitti a seconda della fase economica, ma non può vedere nel loro complesso una crescita continuata e smisurata della loro somma rispetto al PIL totale.

La conclusione è che oggi ci troviamo , osservando il grafico tra capitalizzazione di borsa e PIl, ad un livello elevatissimo, di poco inferiore al picco straordinario di inizio duemila: prevedere, come tanti fanno, che nei prossimi anni la borsa possa crescere del 10-20% all’anno significa postulare che questo rapporto possa smisuratamente continuare a squilibrarsi: possibile forse nel breve periodo, ma se ciò avvenisse nel lungo termine significherebbe che avremmo un mondo di soli profitti e nessun stipendio (sto estremizzando ma rende l’idea) cioè un mondo di soli investitori senza consumatori.
E’ impossibile.
Ecco perchè, invece, è possibile (senza essere maghi) prevedere che la direzione della bussola delle borse nel prossimo decennio è verso sud, cioè al ribasso; oppure ferme per tanti anni mentre il PIL cresce e recupera il divario creatosi; se poi a ciò aggiungiamo che vi sono grossi rischi di PIl stagnanticapiamo quanto ardua sia la futura strada delle borse.
NB: Charles Darwin , diceva che quando si imbatteva in qualche evidenza empirica che contraddiceva la sua teoria, correva a scrivere entro 30 minuti, altrimenti la sua mente avrebbe cercato di rigettare l’informazione discordante , così come il corpo in genere rigetta i trapianti : l’inclinazione naturale dell’uomo è quella di attaccarsi alle sue credenze, soprattutto se sono rinforzate dalle recenti esperienze.









27- Profitti
L’ultima grande bolla nei mercati azionari rappresenta la prima volta, da quando è iniziato il pensiero economico, in cui questo tipo di creazione di ricchezza – ottenuta tramite l’inflazione delle attività mobiliari ed immobiliari piuttosto che attraverso la formazione di capitale – ha trovato crescente attrazione ed ammirazione. I vecchi economisti non la presero mai in seria considerazione, considerandola pseudo ricchezza o ricchezza fantasma.
In realtà ciò che succede quando crescono i prezzi di queste attività è che aumentano le pretese sull’economia a spese di coloro che ne sono sprovvisti. Ma questa è redistribuzione della ricchezza, non creazione di nuova ricchezza. Di più, questo tipo di situazione non comporta alcun incremento dei redditi e nella misura in cui stimola i consumi a spese degli investimenti e della bilancia commerciale, il risultato netto da una prospettiva macroeconomica è un impoverimento della società.
Per la prima volta nella storia del pensiero economico, si sostiene (FED) invece il contrario: l’economia di carta come generatore di ricchezza reale. Mentre nel passato erano la produzione, l’esportazione e gli investimenti a creare prosperità tramite la creazione di nuovi redditi, per cui la ricchezza era dunque concepita come una porzione del reddito che veniva risparmiata e convertita in investimenti produttivi che consentivano lentamente l’accumulazione di nuova ricchezza durante generazioni, ora invece si ritiene di aver scoperto il modo di crearla direttamente: basta aumentare i valori di mercato delle attività. L’obiettivo dunque non è più aumentare i beni e servizi se non come effetto indiretto: le economie esistono per servire i mercati mobiliari, sono questi che creano ricchezza non i produttori di cose reali. Occorre dunque che salgano le borse, per intenderci, ed il gioco è fatto. Non è più la borsa a riflettere l’economia, ma sarà l’economia a riflettere la borsa: se quest’ultima sale migliora la prima e viceversa. Per questo motivo sono sorti tutta una serie di indici e indicatori dove borsa e moneta rappresentano la ricchezza.

E’ il caso di ragionare su questa ridicola teoria? Lo è, perché questo non senso economico riflette sinteticamente il pensiero confuso che si trova dietro alla nuova cultura dell’azionario ormai dilagata dagli USA al resto del mondo e che tanti danni ha fatto, sta facendo e farà, all’economia reale; e perchè spiega come mai azioni di giganti industriali vengono fatte raddoppiare in valore (e poi dimezzare nelle crisi) durante l’arco di pochi mesi come se niente fosse. E spiega perché la preoccupazione principale dei managers contemporanei sia quella di trovare sistemi per far aumentare i prezzi delle azioni anche a costo di manovre palesemente prive di logica economica come ad esempio il riacquisto delle azioni proprie, per non parlare degli innumerevoli trucchi contabili inventati a questo fine. E spiega come sia possibile che la legislazione americana consenta l’assurdo di considerare utili tassabili, meri supposti rendimenti teorici dei fondi pensione, anche se poi sono in perdita.
Il carattere effimero e transitorio di questo modo di ragionare si vede proprio nel modo in cui si calcola la ricchezza (di carta). Si considera che un azienda valga quanto l’ultimo prezzo di mercato delle sue azioni moltiplicato il totale delle azioni esistenti,come se non fosse ovvio che il prezzo di mercato è un prezzo marginale, concernente cioè solo quella quantità minima che viene realmente trattata (se Gates ad esempio mettesse in vendita il 70% delle azioni di Microsoft tutto di un colpo, il prezzo a cui si effettuerebbe la transazione sarebbe di gran lunga inferiore); tanto è vero che se si sommano le capitalizzazioni calcolate sull’ultimo prezzo di borsa delle aziende quotate negli USA si arriva ad un valore di gran lunga superiore al PIL.
La cosa grave è che il nuovo imperativo di far salire le quotazioni ad ogni costo provoca profondi cambiamenti nelle strategie aziendali(fusioni, acquisizioni, ristrutturazioni, outsourcing,tagli dei costi, oltre che buybacks e contabilità creativa). La propaganda, fomentata dalla Fed, inculca nella testa della gente che tutto ciò avviene grazie a miglioramenti tecnologici senza precedenti dimostrati dai guadagni nella produttività, per cui profitti che aumentano del 20-30% all’anno sono credibili anche se poi i fatturati restano fermi o salgono solo di qualche punto percentuale. E la gente ci crede! Per cui corre a comprare, i prezzi salgono e il meccanismo si auto avvita provocando appunto le bolle, e i disastri che ne conseguono.
In realtà bastano alcune semplici riflessioni macroeonomiche per capire che si tratta di “ammuino”:
ricordate, quando a bordo delle navi se arrivava l’ammiraglio in ispezione, i comandanti ordinavano ai marinai di prua di spostarsi a poppa e viceversa, in modo da dare l’impressione che l’attività fervesse a bordo.
C’è un solo modo da che mondo e mondo di creare ricchezza effettiva, vera, non quella fantasma dei pezzi di carta: aumentare i profitti basati su crescita degli investimenti e dei ricavi. Invece quello che è avvenuto proprio durante gli anni della bolla è che i profitti reali(così come calcolati dalla contabilità nazionale per il settore delle imprese nel suo insieme) si sono dimezzati: in rapporto al PIl negli USA

I dati mostrano come la crisi americana sia associata ad un
improvvisa contrazione degli investimenti fissi delle imprese.
Ma, che cosa precisamente ha provocato questa contrazione? La
risposta sintetica è il crollo dei profitti reali, non quelli
artificiali da vetrina. Infatti mentre Wally celebrava miracolosi utili proforma, la
realtà era la peggiore performance dei profitti reali dal dopo
seconda guerra mondiale. Ed il crollo inizia nel 1997, cioè proprio
all’apice del boom apparente. Nei successivi 4 anni fino al 2001, i
Prezzi alla produzione dei beni finiti crebbero dell’1,7% annuo
mediamente, mentre la produttività cresceva del 2,5% annuo.
Con queste eccellenti condizioni di prezzi e produttività,i profitti
sarebbero dovuti salire alla grande. E invece, nonostante il boom,
i profitti si sono dimezzati come quota del PIL passando dal 6 a
3,3% il livello più basso dal 1945. Indagando attentamente si scopre
che le cause di questa contrazione strutturale risalgono ad inizio
anni 80, anche se poi si manifestano violentemente solo alla fine dei
90. Il minimo comun denominatore causale è l’eccesso di spesa in
consumi che ha ridotto le risorse disponibili (come quota
percentuale) per la formazione di capitale.
L’ossessione per l’incremento dei valori azionari ha fatto crescere
una specie di anarchia virtuale in molti campi dell’economia.
Uno di questi è la macroeconomia, cioè lo studio del sistema
economico come un tutto. Per capire infatti la crisi dei profitti
occorre
esaminare la situazione in prospettiva macroeconomica.
Così facendo si può rispondere alla domanda di base: quali attività
impattano i ricavi delle aziende nel loro insieme?
Cioè quali cambiamenti nei consumi, risparmi, investimenti e
tassazione causano cambiamenti nei profitti tramite i loro effetti
sui flussi? Dal punto di vista di una singola azienda, ridurre i
dipendenti – ad esempio – sembra un ottimo espediente per ridurre i
costi e quindi aumentare i profitti. Ma se si guarda all’economia nel
suo complesso, l’esistenza di meno salari spendibili significa meno
consumi, e quindi meno vendite delle aziende e meno profitti.
Avere una prospettiva macroeconomica significa appunto capire questa
diversità di effetti, e capire un altra cosa fondamentale:i ricavi
delle aziende hanno una fonte principale che è di norma cruciale per
generare profitti, gli investimenti netti.
Questi ultimi sono la principale singola fonte di profitto perché –
se si guarda al settore imprese nel suo insieme – consentono di
creare ricavi senza costi operativi (e dunque creare profitti). Come
è possibile questo miracolo? Il motivo è che quando un azienda compra
dei macchinari (che sono ricavi per l’azienda che li vende),
ammortizza il costo in più anni, cioè capitalizza la spesa sostenuta
nel proprio bilancio. E fino a quando non registra la prima tranche
di ammortamento, nessun altro costo risulta. Ma per l’azienda
venditrice si tratta di una vendita il cui differenziale costi-ricavi
va subito a a profitti nel proprio bilancio. Dunque, guardando
all’insieme di un economia formata da due sole aziende (per semplificare
al massmo) in cui una vende e realizza profitto, mentre l’altra
compra ma non realizza il costo perché essendo un investimento lo può
ammortizzare su più anni, ecco che il livello dei profitti
complessivi è aumentato, parallelamente all’aumento degli
investimenti. Infatti, statisticamente, è facile osservare una
correlazione alta tra investimenti netti e profitti.
Avendo chiaro questo concetto, andiamo a rivedere perché i profitti
erano scesi durante gli anni 80, quando andava di moda la reagonomics:
in realtà non ci fu alcun miglioramento dal lato dell’offerta
nell’allocazione delle risorse; piuttosto, spinti dalla moneta facile
e dall’effetto ricchezza in Borsa, i consumi aumentarono la loro
quota del PIL dal 63 al 70% mentre gli investimenti netti scesero dal
4,8 al 2,9%. In particolare era successo un netto spostamento delle
imprese verso investimenti di breve durata (come quelli high-tech)
per cui gli ammortamenti divennero molto più rapidi, ed incisvi sui
profitti; e poiché come ricordato gli ammortamenti sono costi, i
profitti non potevano salire in presenza di ammortamenti cresciuti
del 100% durante gli anni 80.
Negli anni 90 gli investimenti netti ebbero una fase di ripresa , ed
infatti anche i profitti ricrebbero, ma poi iniziarono a crollare nel
1997 quando gli investimenti netti scesero da 407 miliardi a 208.
Una principale causa di questa contrazione è stata il deficit
commerciale: quando si è iniziato a spendere massicciamente in
prodotti importati, è venuta meno un importante fonte di redditi. Il
punto cruciale da capire è che - nell’aggregato macroeconomico -
tutti i redditi circolanti nell’economia sono sostanzialmente costi
delle imprese. Ma quando c’è un deficit estero,vuol dire che i costi
delle imprese in parte si trasformano in redditi all’estero. Per cui
vi è una perdita di ricavi (per le imprese americane) defluiti
all’estero, e poiché la moneta spesa in prodotti esteri proviene dai
costi delle aziende americane, non vi è compensazione e calano i
profitti; se non ci fosse un deficit commerciale, i soldi
ritornerebbero al sistema imprese americane che ne suo complesso
quindi non avrebbe perdita di profitti per questa via.
L’opinione comune sostiene che la moneta uscita per il deficit
commerciale, poi rientra quando l’estero compra assets USA. Il chè è
vero – macroeconomicamente – solo a livello di bilancia dei
pagamenti, non per l’economia reale. Gli acquisti degli stranieri
possono
spingere al rialzo le quotazioni degli assets americani, ma non
aggiungono nulla ai redditi interni.La brusca caduta dei profitti a
partire dal 1997, è avvenuta nonostante un retroterra monetario molto
lassista, con bassi tassi d’interesse ed un economia in crescita:
dunque si capisce che le sue cause sono di natura strutturale , non
congiunturale.

Ripeto:
troppi consumi, significano bassi risparmi che quindi provocano deficit
estero e consentono pochi investimenti netti. Eppure queste semplici
considerazioni macro , che ci hanno consentito di capire la falsa
storia della profittevolezza americana, e dunque ci hanno finora
difeso dall’abboccare all’amo di Wally, sono sempre valide e fanno
ritenere che il peggio debba ancora venire per i profitti e per
l’economia.






28- modello Fed e fattore q

Mentre Bill Gross della PIMCO prevede il Dow a 5mila , lo SeP a 650 e
il Nasdaq “Dio solo sa dove”, la famosa rivista Barron ha
intervistato un gruppo di strateghi di Wall Street: sono gli stessi
che all’inizio del 2000 prevedevano rialzo e si sono sbagliati, così
come di nuovo nel 2001 e infine nel 2002 (a meno di un clamoroso
recupero degli indici negli ultimi 3 mesi dell’anno). Ebbene il
verdetto dei 12 previsori è che la combinazione del mercato ai minimi
e dei tassi d’interesse ai minimi ha creato una grande opportunità di
acquisto. Come dice in particolare Kerschner della UBS : “non è che
le azioni siano così attraenti, è solo che i rendimenti
obbligazionari sono così bassi”. E madame Abby Cohen della Goldman
dice” il premio per il rischio insito nei prezzi attuali è il più
alto in 15 anni; ho sbagliato perchè avevo pensato che gli
investitori avrebbero accettato più rischio quest’anno, ma il mercato
azionario è sottovalutato”.

Come fanno questi signori a esprimersi in questi termini, buttano la
monetina per aria? Non esattamente. A parte il conflitto d’interessi
(resto convinto che non dicono esattamente quello che pensano), tutti
si riferiscono a una teoria di valutazione delle azioni conosciuta
come il Modello Fed, che paragona il rendimento sul titolo di stato
decennale al P/E(rapporto prezzo /utili) delle azioni. Se possiamo avere il 4% dal
bond e le azioni hanno un P/E di 25 ( cioè ad esempio un prezzo di
100 a fronte di 4 per gli utili) il Modello FED ci dice che le azioni
sono equamente prezzate, appunto perché gli utili sono il 4% come il
rendimento del bond.
Ma le azioni sono più rischiose dei bonds, così tipicamente gli
investitori chiedono un premio per il rischio, e quindi nell’esempio
sopramenzionato saranno ad esempio disponibili a pagare solo 80 o 60
per 4 di utili, prendendosi un pò di margine nel caso le cose
dovessero andare male per l’economia o per la singola azione.
Nell’anno di grazia 2000 dopo Cristo, con il mercato ai massimi
euforici, negli USA uscì un libro che ebbe molto successo e si
intitolava: “Dow a 36mila entro il 2010”. Gli autori ,
sostenevano che il premio per il rischio non era necessario, perché le
azioni sovraperformano sempre le obbligazioni nel famoso “lungo
periodo”. Ma dopo il crash del nasdaq, l’11 settembre, il collasso di
Enron, e così via, gli investitori hanno iniziato a credere che forse
il premio per il rischio non è dopotutto una così malvagia pretesa.
Ed ora scoprono che non solo molte aziende esagerano le loro
previsioni sugli utili, e qualcuna addirittura mente su di essi; ma
anche che circa il 50% dell’intero aumento negli utili durante gli
ultimi 40 anni è venuto da fonti “mistiche”: redditi operativi, conti
proforma, stock options, fondi pensione aziendali, ed altri trucchi
contabili.
Ma perfino se i numeri fossero certificati da Warren Buffet, il
Modello FED non regge sul piano teorico. Secondo questo modello
infatti quando i tassi di rendimento sul decennale scendono, i prezzi
delle azioni dovrebbero salire. E spesso lo hanno fatto, ma solo
perché eravamo in una fase comunque rialzista, in cui anche con
rendimenti in salita, i prezzi salivano: il credito a buon mercato
consente ovviamente a imprese e consumatori di indebitarsi e spendere
più liberamente, le vendite salgono e così i profitti aziendali, si
presuppone. Purtroppo però alla fine, scendendo sempre di più i
tassi, l’offerta di beni e servizi aumenta, la competizione sui
prezzi riduce i margini, e i profitti si comprimono.
Immaginiamo rendimenti sul decennale all’1%: secondo il modello Fed
il P/E equo dovrebbe essere, in assenza di premio per il rischio, di
100. Ma a questo livello gli investitori prenderebbero un rischio
enorme per avere cosa? Solo un misero 1% ? Questa infatti è
esattamente la situazione in cui si sono trovati gli investitori
giapponesi. Sui JGB i rendimenti sono all’1% sul decennale da anni,
ma invece di salire le azioni sono scese fino al loro minimo
ventennale. E la percentuale di azioni delle famiglie (sul totale dei
loro asset finanziari) negli ultimi dodici anni è scesa dal 10 al 4%.
Cioè alla faccia del modello Fed, tutto l’opposto. In realtà quando
gli interessi e l’inflazione scendono, come è stato negli ultimi
dieci anni, il rischio di deflazione cresce, e quando c’è deflazione
il rendimento reale delle obbligazioni sale , quale che sia il tasso
nominale. E le azioni? Normalmente vanno giù perché la deflazione
manda l’economia in recessione. Chi vuole spendere moneta quando
questa diviene sempre più capace di potere d’acquisto? E chi vuole
investire quando le vendite scendono e la disoccupazione sale? Questo
è il senso della lezione giapponese, ancora oggi ignorata dai più.
Il modello Fed può sembrare che funzioni durante un boom : se i tassi
vanno giù la gente preferisce le azioni che il cash. Ma in uno sboom,
il modello non funziona, i tassi vanno giù ed anche le azioni : il
cash diviene l’asset preferito. Yardeni(Prudential), riconoscendo che
il modello Fed non ha funzionato in Giappone ha detto ai lettori di
Barron di non preoccuparsi : l’economia USA è più dinamica, ha
spiegato. Ma che significa? Non lo so e non conterei su questo tipo
di spiegazioni: il Giappone è stata la più dinamica economia del
mondo, prima della bolla .

Ciò nonostante gli strateghi di Wally restano positivi: “sanguinanti
ma ancora rialzisti” come scrive Barron. Gente come Yardeni
(Prudential) Kerschner (Ubs) Applegate (Lehman) e naturalmente la
Cohen (Goldman), tutti sono diventati celebri durante gli anni 90 per
le loro invincibili previsioni rialziste. La loro fama è salita
durante il mercato Toro come se essi effettivamente sapessero
qualcosa in più circa la direzione del mercato di quanto un orologio
rotto sappia circa il tempo. Questi rialzisti permanenti, abituati ad
apparire alla televisione CNBC con le loro sempre più rialziste previsioni, ora
si trovano discreditati. Sfortunatamente le loro indicazioni a
partire dal 2000 non solo sono state sbagliate, ma devastanti per chi
aveva fiducia in loro. Le loro previsioni irresponsabili e utili solo
per gli interessi delle case madri, sono servite a devastare milioni
di portafogli e a rovinare milioni di vite finanziarie. Gli
investitori, a cui veniva detto e viene tuttora detto ripetutamente
che il “giusto valore” dello SeP500 era 1600, poi 1300 o comunque sempre il 30% più alto di dove si trova hanno imparato a
credere che le azioni DEVONO salire, non importa quanto siano care.
Questa credenza li ha spinti a comprare azioni sopravvalutate e
continua a fargli mantenere le stesse anche se sono in discesa.
Quello che dicono questi superpagati guru, è comunque utile per
divertirci alle loro spalle.

Purtroppo c’è ancora chi ha il coraggio di scrivere che Wally è
sottovalutata. Non è così, e l’ho spiegato con varie argomentazioni,
alle quali adesso aggiungo l’analisi del fattore Q o rapporto Q,
postulato dal premio nobel 1981 James Tobin .
Ma andiamo con ordine.
A parte i bilanci aziendali illeggibili e truccati, un evidenza
importante si ricava dai dati di contabilità nazionale da cui si
vede che i profitti per l’aggregato imprese americane, già
segnalavano bandiera rossa ben prima dello scoppio della bolla nel
2000. Questi dati mostrano che i tassi di ritorno sul capitale hanno
avuto il loro picco nel 1997 e che gli aumenti degli investimenti
portavano a ridurre i profitti, una cosa senza precedenti negli anni
del dopo guerra, e in definitiva il segnale più chiaro dell’eccesso
di investimenti (drogato come sappiamo dal credito facile e
dall’euforia in borsa).
I dati sui profitti disponibili dalle “Survey of Current
Business”, offrono anche i dati storici sulla
profittabilità delle aziende americane non finanziarie tra il 1960 e
il 2001. Tali dati confermano che i tassi di ritorno sul capitale (il
ROE) sono scesi precipitosamente dal 1997. I profitti ante imposte
in rapporto ai patrimoni netti sono arrivati nel 2001 al 4,7% dal
picco del 7,8% , e sono molto bassi rispetto alla media quarantennale
che è del 6,6%. Perfino nel 1997 il rendimento del capitale non ha
mai toccato quello registrato nell’anno più debole del primo decennio
(anni sessanta). Lo studio citato mette in correlazione il rendimento
del capitale con la produttività e trova una significativa relazione
fino all’inizio degli anni 90, che poi sparisce negli ultimi 10 anni,
soprattutto nella parte finale. La rottura di questa correlazione non
può che provenire dalla cattiva allocazione del capitale durante la
bolla, anche se certamente riflette altri fattori incluso l’aumentato
grado di concorrenza internazionale (che ha eroso i guadagni di
produttività relativa, comprimendo il rendimento del capitale).
Proprio il collegamento tra produttività e tassi di rendimento e
quindi prezzi azionari, è stato l’argomento preferito da Greenspan
per giustificare la crescita anomala della Borsa. Ebbene questo
collegamento si era in realtà interrotto, precisamente nel primo
anello di congiunzione della catena, perchè una produttività più alta
non ha portato a rendimenti più alti del capitale.
In aggiunta nel 2001 i profitti ante imposte hanno raggiunto il punto
di minimo come quota del reddito nazionale fin dal 1960: il 9,8%
contro una media del 14% nei 40 anni esaminati e del 13% nell’ultimo
decennio. Il che significa che la quota dei redditi da lavoro è
aumentata al 90,2%. Questo mix di basso rendimento
del capitale e di una forte crescita del reddito da lavoro parallela
alla diminuzione della disoccupazione(scesa nel decennio dall’8 al
4%), indica che probabilmente persisterà il tentativo di contenere i
costi del lavoro, sia come salari che come occupati, per cercare di
migliorare i margini di profitto.

Ma andiamo al fattore Q, su cui la Survey citata fornisce dati
interessanti. Q fu definito da Tobin come il rapporto tra il valore
degli assets nei mercati finanziari e il costo corrente di rimpiazzo
dei medesimi (impianti, software, strutture,etc.). Ebbene questo
rapporto “impazzisce” durante la bolla, segnalando appunto la
sopravvalutazione delle quotazioni rispetto al sottostante costo di
rimpiazzo dei capitali che le quotazioni rappresentano. Il Q è
calcolato in 3 modi diversi nella Survey, ma essenzialmente sempre si
arriva alle stesse conclusioni con riguardo alle quotazioni attuali.
Alla fine del 2001 la misura ortodossa di Q era ancora il doppio
della media di lungo termine, coerente con un mercato azionario che
si deve dimezzare per tornare ai livelli della media storica.
Chiaramente questa è solo una alternativa agli altri indicatori come
i rapporti Prezzo/utili, dividendi/prezzo etc. ma è coerente con un
mercato azionario che rimane caro da tutti i punti di vista: sia,
come ho mostrato all’inizio, se guardiamo ai tassi di ritorno del
capitale, sia se guardiamo alle quotazioni rispetto ai valori di
rimpiazzo del sottostante.
Quindi prevedere un calo significativo ulteriore delle quotazioni
azionarie, non vuol dire “essere pessimisti”, bensì semplicemente
sapersi fare i conti e ipotizzare che la razionalità economica alla
lunga si affermi.



29- Bilanci USA

Vi è un grande bubbone che deve venir rimosso ancora dai bilanci, oltre a quello delle stock options ( peraltro rimosso solo da alcune aziende) che se contabilizzate come costo annullerebbero totalmente ,
ad esempio, gli utili che riporta Intel (Cisco sarebbe in perdita).
Si tratta dei rendimenti dei fondi previdenziali che le aziende contabilizzano tra i profitti appunto per gonfiarli.
Le aziende possono precalcolare quello che guadagneranno nel futuro da questi fondi pensionistici, e contabilizzarlo. Il problema è che è divenuta una prassi corrente ipotizzare guadagni molto elevati.
Warren Buffet nota che la General Electric assume di ottenere il 9,5% dagli investimenti del suo fondo pensione: ebbene ciò ha consentito di inserire tra gli utili del 2000 la cifra di 1,7 miliardi di dollari, che è ben il 10% degli utili totali. General Motors ed IBM ipotizzano di fare ancora di più: il 10% di rendimento sui loro fondi pensione. Potete scommetterci che la maggioranza delle imprese fa ipotesi analoghe anche perché utilizzano gli stessi consulenti esterni e che servono per dare una patina di obiettività per supportare la ragionevolezza delle loro ipotesi. Naturalmente è enorme la pressione che viene fatta su tali consulenti affinchè diano all’impresa i numeri che essa desidera.
Vi siete mai chiesti come mai le aziende raggiungono quasi sempre le attese degli analisti? Perché hanno tali e tante voci manipolabili a proprio piacimento – fra cui questa di cui stiamo parlando – per cui una volta che sanno qual è il consenso (ad esempio: 9 cents per azione), cucinano queste voci in modo da far quadrare i conti come vogliono. Infatti si passa da situazioni in cui hanno sempre perfettamente centrato le previsioni, a crolli poi improvvisi che lasciano i buchi e i fallimenti, quando non gli resta materialmente più nulla cui appigliarsi.
D’altro canto i consulenti esterni, se non dessero alle aziende i numeri che vogliono, che possibilità avrebbero di continuare a lavorare?
Ora, come dimostrato da numerose ricerche, rendimenti del 9,5% -10% medi annui, per i prossimi anni, sugli investimenti finanziari sono irrealistici. Se, come minimo trattandosi di fondi previdenziali, hanno un terzo in obbligazioni, da questo terzo nella migliore delle ipotesi non possono ricavare che il 5%; ma allora per avere un risultato medio totale del 10% significa che sui due terzi in azioni, occorre avere almeno il 12% di rendimento; il che è praticamente impossibile, se si considera come media annua, perché ci sono gli anni in cui invece vi sono perdite di quell’ordine di grandezza. La gran maggioranza dei rendimenti storici sulle azioni sono arrivati dai dividendi reinvestiti e non dalla crescita delle azioni sottostanti . I dividendi storicamente sono stati nell’ordine del 4-5%; oggi sono meno del 2%. Si potrebbe sostenere che le aziende che non pagano dividendo, ma ricomprano le proprie azioni o investono invece che remunerare gli azionisti, poi ricavano un aumento di valore delle azioni. Ma i dati non supportano questa conclusione. La verità è che i dividendi non mentono: non sono utili “pro forma”, o contabilità magica, sono soldi reali che entrano nelle tasche degli azionisti.
Morale della favola: nei prossimi anni le aziende dovranno iniziare ad abbassare le stime di crescita futura per i loro fondi pensione. Ciò significa che essi dovranno ridurre i profitti rispetto alle attuali ottimistiche previsioni, e per qualcuna si tratterà di perdite grosse; e più a lungo manterranno queste ipotesi irrealistiche, peggiore sarà la resa dei conti.
A questo punto faccio una scommessa. Quando queste aziende prenderanno il colpo, riaggiusteranno i profitti degli anni precedenti, non di quelli futuri. Si lamenteranno dell’economia, della Borsa etc., licenzieranno i consulenti e ne assumeranno di nuovi che dovranno fare proiezioni più realistiche: ma i profitti futuri “pro forma” saranno ancora positivi; tutte le perdite verranno scaricate sul passato, a causa delle previsioni sbagliate, così il popolino non penserà di vendere le loro azioni.
Chiamatemi cinico, ma se il grosso del vostro profitto è basato sulle stock options, come si verifca con la maggioranza delle grandi aziende, non lo fareste anche voi?
Questa storia, comunque, è destinata a provocare vari sussulti musicali nelle orchestre aziendali.
Ad esempio il CEO di Microsoft è intervenuto per spiegare quello
che, modestamente, avevamo già colto: vale a dire che negli utili
riportati vi sono delle “anomalie una-tantum” come
le definisce lui. BENE. Allo scopo di vaccinarvi ulteriormente
rispetto a ciò che leggete nelle agenzie di stampa quando si
affollano i vari risultati aziendali, e dunque al fine di farvi
capire come occorre sempre andarsi a studiare i dati direttamente
prima di farsi un opinione, mi dedico ora a un altro dei
tanti trucchi contabili in voga.
Spesso Il management delle aziende,
così come i media, insistono sul fatto che il miglioramento sia avvenuto a livello di
UTILI PER AZIONE (Earnings Per Share) e rispetto all’anno prima.
Il che mi ha messo sulla pista giusta. Infatti ho rilevato che gli
utili operativi magari sono SCESI, ad esempio, dell’ 1% rispetto a un
anno prima; e, peggio, l’utile netto – che tiene conto di tutto – è
SCESO del 18% ma gli
UTILI PER AZIONE (EPS) sono saliti di ben 2 cents per azione
rispetto a un anno prima, cosa che fa entusiasmare i polli di norma.
Come è possibile?
Semplice, si diminuisce il numero delle azioni, riacquistandone
durante i dodici mesi (buyback). Infatti se si va a vedere il numero di
azioni in circolazione risulta diminuito in modo che gli utili pur
SCESI venendo spalmati su un numero inferiore di azioni in
circolazione risulti cresciuto! Et voilà le jeux sont fait!
Altro trucco di moda è quello di vendere
gli immobili di proprietà (i gioielli di famiglia) e metterne i proventi
tra i redditi operativi!
Oggi gli investitori pagano oltre 30 volte gli utili stimati per lo
S&P500, un atto di fede di proporzioni bibliche. Sperano che
pagare già oggi 30 volte tali utili si
riveli un “affare”. Pertanto il recente rally di Wally può essere
definito il classico trionfo della fede sulla realtà, della speranza
sulla sostanza.Il problema è che si tratta di una fede cieca. Ci si
rifiuta di vedere le travi negli occhi.
Prendiamo il caso della General Motors, colosso automobilistico: le
sue condizioni dovrebbero ispirare più paura che avidità, eppure da
inizio marzo 2003 la sua quotazione è salita del 18% contribuendo ai
duemila punti di rally del Dow Jones.
La crescita degli utili di GM si basa solo sulle sue operazioni
creditizie, ed anche queste cominciano a mostrare segni di
affaticamento. Nel frattempo cresce sempre più il debito
pensionistico.
Molti pensano giustamente che GM sia un azienda automobilistica, ma
in realtà se si guardano i dati di bilancio sembra una società
finanziaria: delle tre fonti reddituali principali, solo GMAC
(l’unità per le operazini finanziarie e assicurative) ha prodotto
utili nella misura del 70%. Invece gli utili della divisione
auto sono scesi quasi a zero....è come se le banche
regalessero forni a micro onde per attrarre i clienti, GM regala
auto. Il contributo al fatturato di GMAC si è radoppiato dal 16% del
1996 al 31% del 2002, ma il trend più recente mostra che adesso
potrebbe perdere lustro. La qualità del credito è nettamente
peggiorata nell’ultimo anno, con il meno affidabile reddito
proveniente dai mutui divenuto l’operazione più importante per GMAC:
il 64% del reddito è venuto da lì nel 2002, il che vuol dire il 29%
dell’utile netto totale di GM (non male per un industria
automobilistica!). Inoltre questo trend sorprendente ha accelerato
nel primo trimestre del 2003: siamo al 38%
dell’utile netto di General Motors che proviene dai prestiti
ipotecari di GMAC.

Il boom di tali prestiti maschera le difficoltà in cui si trova la
produzione di auto. Chi compra azioni GM deve quindi credere che il
boom dei prestiti durerà abbastanza a lungo finchè il business delle
auto torni a essere redditizio. Sfortunatamente però vi sono nuvole
sull’orizzonte della qualità dei crediti e le sofferenze in
percentuale dei ricavi finanziari si sono raddoppiate negli ultimi 3
anni.
Nel frattempo le partite incagliate nel 2002 sono arivate a 1,4
miliardi di $ cioè il 160% di più dei 532 milioni del 1999, mentre i
ricavi totali da operazioni finanziarie ed assicurative sono salite
solo del 32% da 20,5 a 27 miliardi di $. In altre parole, le
sofferenze crescono 5 volte più velocemente che i ricavi.
Un’altra sfida per GMAC proviene dal minor rating: è stato abbassato
a tripla B da tripla B+; sebbene sia ancora in una
categoria accettabile, e questo degrado ha comportato un aumento dei
costi di finanziamento, riducendo il margine finanziario: la stessa
società dichiara che “gli spreads pagati sono aumentati a livelli
senza precedenti”.
Il margine operativo della General Motors si si è contratto in gran
parte a causa dell’aggressivo programma di incentivi alle vendite:
ormai il finanziamento allo 0% è divenuto un accessorio standard
sulla gran parte dei nuovi modelli prodotti da Detroit in questi
giorni, ed infatti come dichiarato dal CEO Richard Wagoner è atteso
continuare nonostante il danno reddituale perché altrimenti “il
mercato si riduce e perdiamo quote del medesimo”.
Infine andiamo all’incubo pensioni: GM lo scorso anno ha aumentato il
fondo apposito a 76,8 miliardi di$ dai 60,2 di fine 2001. Per capire
cosa significhi basti pensare che è circa 20 volte il reddito annuo
netto di 3,9 miliardi registrato negli ultimi 7 anni. Il rapido
deterioramento del fondo pensioni ha portato GM a togliere 13,6
miliardi agli azionisti, cioè il 70% di quanto loro dato al
31.12.2001, ed altri 9,5 miliardi l’anno dopo per un totale di 23,1
miliardidi $.
A causa della tortuosa complessità degli standard contabili in
materia, entrambi questi ricarichi non sono passati dal conto
economico e sono stati direttamente imputati al patrimonio. Ne
consegue che molti azionisti probabilmente non hanno capito che sono
stati sottratti loro 23,1 miliardi di dollari che hanno decimato il
valore di libro del patrimonio portandolo dai 30 miliardi del 2000 a
circa 7 di fine 2002. In pratica GM sta dando via l’argento di
famiglia per soddisfare i diritti acquisiti dei suoi
pensionati.L’escalation di questi diritti dipende anche dai costi
sanitari, che paiono intrattabili data la loro continua acesa, e che
non possono non preoccupare i dirigenti di GM (dalla rivista
aziendale si legge che “GM spende 1,3 miliardi di $ l’anno per le
sole prescrizioni mediche, ed i costi sanitari stanno crescendo nel
loro complesso a ritmi del 15-20% l’anno”).

Nonostante dica ai suoi dipendenti queste cose, in bilancio GM
abbassa le stime sui fondi necessari in futuro: assume solo un 7,2%
di aumento dei costi sanitari per il 2003 (ma non erano del 15-
20% ?) . Naturalmente mentre GM si preoccupa di sottostimare la
crescita dei costi sanitari, non si preoccupa affatto di giocare con
i numeri quando si tratta di ipotizzare gli utili derivanti in futuro
dal fondo pensione. Come altre società importanti, ipotizza un
generoso 9% anno per il 2003, in calo dal precedente 10%, bontà sua!
Il problema è che questa ipotesi consente di contabilizzare utili
operativi – come fossero veri : nel 2001 di 8,7 e nel 2002 di 8,1
miliardi di $ anche se in realtà il fondo pensioni ha perso 5,3 e 5,4
miliardi di $. Come è possibile,una cosa del genere? Semplice, è
perfettamente legittimo all’interno delle regole GAAP(generally
accepted accounting principles), che consentono a un azienda di
contabilizzare gli utili attesi invece di quelli effettivi, purchè
poi l’eventuiale gap venga colmato abbattendo il capitale per
rifinanziare il fondo(e quindi senza passare dal conto economico).

Ancora più preoccupante è il fatto che la maggior parte dei soldi
andranno a persone che non lavorano più per GM. Il debito proiettato
è calcolato sui costi degli impiegati attuali così come sui
pensionati attuali, che contano per circa due terzi soltanto delle
persone aventi diritto. In base ad un rapporto della stessa GM dal
significativo titolo “Responsabilità dell’azienda e sua
sostenibilità” la società è “il più grande acquirente privato di
sanità negli USA e nel 2001 ha fornito sanità a 1,2 milioni di
impiegati, pensionati ad un costo di 4,2 miliardi di $”.
Poiché gli attuali impiegati sono 349mila non occorre essere geni
matematici per capire che se è stata fornita assistenza a 1,2 milioni
di persone significa che i tre quarti sono pensionati. Al settembre
2003 il piano pensioni aveva 720 mila beneficiari, cioè circa il
doppio delle 349 mila persone risultanti impiegate al 31.12.201

Questo vuol dire che le proiezioni di bilancio basate solo sui
dipendenti in carico a una certa data, sono di gran lunga
sottostimate.
Per cui vi sono poche probabilità che GM potrà rispettare i suoi
impegni: a un certo punto il buco nero di pensioni e sanità
inghiottirà l’intero capitale sociale e la capacità di investire si
ridurrà a zero.Certo qualcuno può sempre pensare che nel tempo
intervengano fatti nuovi in grado di consentire a GM di superare la
miriade di difficoltà qui illustrate.E ci vorrà la fede di Mosè e la
pazienza di Giobbe, per aspettarsi qualche profitto dalle azioni di
General Motors, presa qui a simbolo della corporate america, perché
non è la sola in queste condizioni. E’ bene ricordarlo mentre Wally
sale e sprizza ottimismo da tutti i pori.
Business Week è il settimanale economico-finanziario per il grande pubblico, più diffuso negli USA e ha parlato del caso Cisco.
John Chambers insiste che la sua azienda può crescere del 30% l’anno. Ma i critici non sono d’accordo, e mettono in dubbio l’aggressiva contabilità di Cisco. Alcuni perfino dicono che gli utili negli anni del boom erano largamente gonfiati. Ma Cisco vale veramente 95 volte gli utili?
A chi possiamo credere? Nei passati 3 anni, 400 aziende hanno ricalcolato i loro utili, devastando gli investitori. Grazie a standards sempre più laschi, ora anche un super specialista, un contabile di tribunale, fatica a capirci qualcosa nei bilanci della Corporate America.
Un risultato è il disastro della Enron: un implosione che ha velocemente distrutto un azienda e cancellato decine di miliardi di dollari degli investitori. Un pericolo più grande può risiedere nell’erosione della credibilità di molte aziende che usano sistemi opachi per nascondere la verità circa i loro utili, e lasciano gli investitori al buio. La reputazione di Cisco, ad esempio, di una macchina altamente tecnologica a rapida crescita, si basa su pratiche contabili perfettamente legali finora ma così disinvolte che lasciano il dubbio sulle passate performances e sul roseo futuro previsto. Cisco quota veramente 95 volte gli utili stimati per il 2003 ? Cosa rilevante visto che Microsoft ed Oracle che non usano i malleabili criteri dell’utile proforma, hanno rapporti prezzo utili di circa la metà. Il problema è che nessuno lo sa, e ciò può creare le condizioni per una grande ritirata degli investitori. Poiché la ginnastica contabile si diffonde al di là del settore tecnologico, gli investitori stanno diventando sempre più nervosi circa la qualità dei dati diffusi ogni trimestre. Si vedono ricavi generati manipolando le riserve, gli interessi e altri redditi non operativi. Il reddito viene pompato vendendo scorte in eccesso precedentemente azzerate di valore. Sta prendendo forza la fuga verso la qualità degli utili, da parte degli investitori, e qualcuno inizia a chiedere i dividendi come prova tangibile di un effettiva capacità di reddito di un azienda. Le imprese lamentano che i principi contabili tradizionali non tengono sufficientemente in conto il cash flow ed il reddito operativo. Hanno ragione. La SEC (Consob americana) e le cinque grandi aziende di revisione contabile devono assolutamente stabilire uno standard uniforme che risolva questi punti importanti.
Ma finchè non lo fanno, le aziende che giocano con i loro numeri corrono il rischio che gli investitori portino i loro soldi da qualche altra parte.
Howard Schilit, conosciuto come lo Sherlock Holmes della contabilità, direttore del centro per la ricerca finanziaria del Maryland, con il suo team di esperti forensi ha tentato di capire i conti di Cisco, ma quelli dell’ultimo trimestre lo hanno “confuso” (figuriamoci che possibilità abbiamo noi). Ad esempio il 5 novembre 2002, nella conferenza con gli analisti, Cisco rivela che le sue normali riserve contabili a fronte dei crediti, sono scese dal 15 al 9% nonostante l’economia in peggioramento. Schilit fa i conti e scopre che l’utile dichiarato da Cisco (+3,5% nel trimestre, e che farà correre il popolino a comprarne le azioni) dipende interamente dal calo delle riserve: se Cisco avesse mantenuto fermo il livello delle riserve gli utili sarebbero scesi del 3,3%.Chiaro?
Impressionante il racconto di come alla fine del 2° trim., il 31 luglio 2001, sfruttando una norma contabile che permette di imputare a vendite la produzione caricata a mezzanotte di quel giorno sui camion per essere consegnata, tutta la Cisco fu coinvolta in una corsa sfrenata per riempire quanti più camion possibili, e ottenere così che contabilmente il fatturato ufficiale restasse in linea con le previsioni. I camion poi ci hanno messo vari giorni prima di realmente consegnare la merce.E così via.
Michael Porter , l’insigne professore della Harvard Business Schol, sta completando una ricerca su questa epoca di massiccie distorsioni nei dati finanziari. Lui e i suoi non sono in grado di calcolare quanto abbia effettivamente guadagnato Cisco durante gli anni 90 e sospetta” quando gli storici riusciranno effettivamente ad avere tutti i dati veri, probabilmente scopriranno che perfino nei momenti di maggior gloria Cisco non era così redditizia come è stato fatto credere ai più”.
Insomma qualcuno negli USA sta combattendo una battaglia affinchè il mercato azionario più importante del mondo, cui milioni di persone affidano i loro soldi dando per scontato che i bilanci siano veritieri, non degradi come sta avvenendo da qualche tempo nella più assoluta mancanza di trasparenza e affidabilità, alla stregua di un paese del terzo mondo.



30- 1929
Un ingrediente chiave in molte bolle è quello della novità, di norma
una nuova invenzione. L’auto, la radio, il telefono ed altre simili
innovazioni tecnologiche, sono sempre state accompagnate dalle
bolle. Una delle più grandi nella storia americana, è stata quella
delle ferrovie. La caratteristica della cosa nuova consente
l’abusata affermazione “questa volta è diverso”: la novità cambierà
il modo di vita e dunque tutte le vecchie regole non valgono più.
La storia dei tulipani merita essere
ricordata, perché dimostra che le bolle possono formarsi anche senza
una nuova invenzione, è sufficiente che vi sia l’elemento novità.
Quando i bulbi di tulipano furono importati per la prima volta in
Europa dall’Asia, erano una novità. Improvvisamente una manìa si
sviluppò in Olanda: si poteva ottenere un tulipano nero? Sarebbe
stata una rarità e chissà che valore avrebbe potuto avere. In poco
tempo, molte persone divennero disposte a pagare prezzi enormi per
un bulbo che promettesse di divenire un tulipano nero. La manìa si
autoalimentò. Intere proprietà furono date in cambio di un bulbo di
tulipano nero, e con questo dopo poco se ne potevano acquistare due,
tre di proprietà. Successero fatti incredibili.
Un marinaio che era stato in viaggio per vari mesi tornò con un
importante messaggio per un mercante benestante, e glielo diede. In
cambio ricevette un fiorino e l’invito a farsi un panino mentre lo
aspettava nello studio per la risposta. Il marinaio prese pane e
formaggio, e credendo fosse una cipolla, vide un bulbo di tulipano
e lo mise nel suo sandwich. Quando il mercante tornò, nel vedere il
suo pregiato bulbo, finito dentro al panino e allo stomaco del
marinaio, uccise quest’ultimo.
Di episodi simili, le cronache del tempo ne raccontano a decine. La
bolla dei tulipani durò infatti circa un anno, ma fu così frenetica
che quando scoppiò mise in ginocchio tutta l’economia olandese.
Ma andiamo alla recente bolla del nasdaq. Per comprenderne le cause
occorre capire il contesto in cui si è generata. All’inizio degli
anni 90 il problema dei fondi della sicurezza sociale americana era
sulle prime pagine dei giornali. Si parlava molto della possibilità
di investire tali fondi sul mercato azionario, ma c’era il problema
del rischio; furono proposti studi accademici che dimostravano
come “nel lungo periodo” le azioni salivano sempre e rendevano più
di ogni altro investimento. Fu detto alle persone prudenti di non
preoccuparsi, contemporaneamente iniziò a proliferare la previdenza
privata integrativa. A metà del decennio, l’economia si riprese
pienamente dalla recessione di inizio anni 90, grazie – fu detto –
al miracolo della produttività, a sua volta dovuto alle nuove
tecnologie. Arriviamo così alla novità, cioè alle nuove tecnologie,
principalmente Internet.
E così si ritrovano tutti gli ingredienti: un diminuito senso del
rischio, il coinvolgimento pubblico e la novità. Ma ciò che diede la
scintilla finale fu il famoso passaggio di millennio. Infatti già
dal 97 ognuno ne parlava, e si temeva che con la cifra 2000 nei
computer e relativi software sarebbe potuto succedere un disastro
(si temeva per tutto, dagli ascensori agli aeroplani). Ogni persona
ed ogni azienda avrebbe dovuto comprare un nuovo computer. Le
vendite dei tecnologici si impennarono, e gli analisti estrapolarono
tassi di crescita futuri analoghi a quelli di quel particolarissimo
momento. Inoltre si iniziò a temere un collasso dei sistemi di
pagamento e la Fed che per salvare il mondo finanziario dal
fallimento di LTCM e dalla crisi del rublo russo, aveva già inondato
di liquidità , aprì ancor più i rubinetti. Ma già a metà del 99 si
capì che la paura per il millennio era stata appositamente creata
per vendere computer, e non appena passato l’evento, la Fed non potè
far altro che iniziare a stringere, e alzare i tassi. Sei mesi dopo
il gioco era finito, le vendite di tecnologia iniziarono a declinare
e con loro i prezzi delle azioni. La bolla iniziò a scoppiare.
Ciò che conta capire sono gli effetti del dopo bolla, tanto
facilmente liquidati con superficialità dai più.
L’analisi del dopo bolla, così come si sta svolgendo, è l’aspetto
più dibattuto del ciclo economico. Storicamente infatti i boom
portano a costruire capacità produttiva a fronte della nuova “super”
domanda, e non solo nel prodotto specifico ma in tutti gli aspetti
del processo. Per non abusare del caso di internet, facciamo
l’esempio delle ferrovie che furono anche loro viste come portatrici
di un cambiamento culturale: durante il boom ci si indebitava per
costruire binari, locomotive, stazioni, etc. Nonostante che le nuove
ferrovie erano tante, il denaro non mancava mai, e non mancava
neanche per costruire tutti i supporti collaterali, così fu aggiunta
tutta la capacità produttiva necessaria a servire quelli che
producevano direttamente le componenti del sistema ferroviario.
Improvvisamente a un certo punto ci si accorse che tutte le ferrovie
costruite non potevano prosperare economicamente, né dunque lo
potevano tutti i servizi di supporto alle medesime che erano stati
preparati. In questi casi succedono due cose.
L’eccesso di debito fatto a fronte dell’eccesso di capacità
costruita, deve essere ripagato. Ma come? Si inizia a vendere a
prezzi più bassi, anche in perdita; contemporaneamente si lavora di
più e più duramente (aumenta la produttività). Ma ancora troppi
producono troppo in rapporto alla domanda effettiva. I prezzi
tendono a cadere , mettendo in moto la spirale deflazionistica
illustrata all’inizio.
L’altra cosa che succede è che resta un eccesso di capacità
produttiva, per cui le imprese non investono più, non ce n’è bisogno.

Tutto ciò richiama una pagina di storia *, che vale la pena rileggere insieme.

Sebbene i fondi d’investimento emettessero una quantità record di nuove quote, a Settembre il mercato azionario rimase fermo dopo aver raggiunto il suo picco il 3.9.1929. Iniziarono ad arrivare alcune notizie negative: a metà mese la Clarence collassò con l’accusa di frodi; la Banca d’Inghilterra alzò i tassi; il capo della General Motors osservando un improvviso calo nelle vendite di auto, annunciò che la fine dell’espansione era vicina; il Massachussets negò la richiesta di split delle azioni avanzata dalla Edison; si diffusero voci che il famoso speculatore Livermore si stesse preparando a vendere tutto e quest’ultimo fu costretto, dalle minacce di morte ricevute, a smentire pubblicamente. Ma come si vede, niente di veramente forte: a differenza di precedenti crolli borsistici, quello del 1929 non fu preceduto da ristrettezza monetaria o da fallimenti di banche, finanziarie o imprese industriali. Il 24 ottobre ad un ora e mezza dall’apertura molte azioni cadevano come pere mature, per molte non vi erano offerte di acquisto a nessun prezzo; all’una di quel giorno il ticker dei prezzi era sovraccarico ed in ritardo di un ora e mezzo. Churchill (accanito speculatore) stava passeggiando a wall Street quando un estraneo lo invitò ad entrare nella galleria dei visitatori della Borsa (due mesi prima ci era stato con il Sindaco che aveva esaltato l’ottava meraviglia del mondo “il mercato rialzista continuo”); questa volta vide uno spettacolo molto diverso che passò alla storia con il nome del “Giovedì Nero”.
La calma tornò dopo che i banchieri principali si riunirono negli uffici della Morgan e decisero di mettere a disposizioni soldi per acquistare le azioni e stabilizzare il mercato.
Sebbene l’indice Dow Jones non fosse poi caduto molto alla chiusura (-6% a quota 299), circa il triplo dei volumi normali era stato scambiato nuovo record assoluto.
Il Giovedì Nero fu appena l’inizio dello smobilizzo generale di valori finanziari inflazionati dalle precedente bolla. I seguenti due giorni furono tranquilli, ma gli staff delle case di brokeraggio passarono il weekend a fare i conti delle richieste di margini che i loro clienti dovevano versare (essendo sceso il valore delle azioni aumentavano i depositi a garanzia da versare). Ed il lunedì 28ottobre 1929 il disastro: il Dow Jones cadde 38 punti a 260 nuovo record di caduta massima (12%). Il martedì 29 un altro diluvio di vendite perchè gli speculatori non avevano i soldi da versare per i margini di garanzia e fuorno forzati a vendere le azioni: altri 30 punti di caduta con l’indice a 230.
L’America affrontò inizialmente il crack con senso dell’umorismo. Ed il mercato si stabilizzò il 30 ottobre quando Rockefeller annunciò che lui stava iniziando a comprare azioni;il 31 la Federal Reserve abbassò i tassi d’interesse dell’1% portandoli dal 6 al 5%. L’indice Dow Jones riprese a scivolare lentamente fino a metà Novembre quando il Presidente Hoover entrò in azione, con discorsi tesi a ispirare fiducia, convocando gli industriali affinchè non effettuassero licenziamenti o riduzioni salariali, chiedendo alle organizzazioni pubbliche e private di portare avanti i loro progetti, ed infine la Fed abbassò i tassi ancora al 4,5%, mentre le banche fornivano fondi per il finanziamento dei margini in abbondanza. Non vi furono significativi fallimenti nelle immediate vicinanze del grande crash, a parte al Banca Industriale del Michigan che dovette chiudere dopo aver scoperto che i suoi dipendenti avevano impegato i fondi liquidi in margini di Borsa ed avevano perso tutto. Le grandi aziende fecero di tutto per mantenere i nervi saldi: molti annunciarono aumenti nei dividendi, oppure garantirono i margini dei propri dipendenti. Il 14 novembre, giorno in cui i tassi furono calati ancora e la General Motors annunciò un extra dividendo, il Dow Jones che nel frattempo era arrivato a 198 salì del 25% nel gioro di pochi giorni. L’ottimismo riapparve velocemente. In quei giorni Churchill fu informato che la crisi finanziaria era finita, ma lui aveva già perso oltre un miliardo di lire dei giorni nostri cosa che lo obbligò a vivere più frugalmente negli anni seguenti. Molti espressero l’idea che ci si trovava di fronte ad una formidabile occasione d’acquisto, e molti ci credettero: i volumi riaumentarono, molte aziende annunciarono previsioni di crescita dei profitti per gli anni a venire, le fusioni continuarono ed anche il boom dell’immobiliare.Le principali banche apparivano ben patrimonializzate, a New York continuò la costruzione dell’Empire State Building, e a marzo del 1930 il Presidente Hoover annunciò che i peggiori effetti del crash sull’occupazione sarebbero passati entro i prossimi due mesi.
Il Dow Jones ad aprile- pasqua 1930- ritornò a 300 (+50%) rispetto ai minimi del crash (198), cioè aveva RECUPERATO QUASI TUTTO.Ma proprio allora,6 mesi dopo il grande crash, il mercato riprese a scendere, senza traumi particolari, lentamente, tra alti e bassi mentre l’economia sprofondava in recessione ed i licenziamenti giunsero ad 1/3 della forza lavoro; questa discesa durò 2 anni fino all’estate del 1932 quando il Dow Jones arrivò a valere appena 42: chi avesse comprato nell’aprile del 1930, convinto che ormai tutto era finito avrebbe visto scendere la propria ricchezza da 300 a 42. Ed avrebbe dovuto aspettare fino al 1954(24 anni) per rivedere i propri soldi.

Aver riletto quello che successe nel 1929, significa insinuare che sta per accadere la stessa cosa? la Storia non si ripete, e troppe sono le diversità strutturali per crederlo? Sentiamo cosa ci racconta ancora il prof. Chancellor *.
Durante gli anni 90 gli USA hanno sperimentato un mercato “Toro” simile a quello degli anni 20: il Dow Jones è passato da un minimo di 2365 nel 1990 a 11800 nel 2000 un guadagno di quasi il 500%. Come negli anni 20, la bolla speculativa dei 90 è stata inizialmente stimolata dai bassi tassi d’interesse applicati dalla FED all’inizio del decennio. La rapida espansione dell ‘informatica ha spinto la crescita economica, come fece l’automobile negli anni 20. I profitti delle aziende analogamente sono stati accelerati dalla non abilità dei sindacati a mantenere i salari reali, ed ancora una volta i lavoratori hanno aumentato i loro consumi grazie al credito. Sebbene la presidenza sia stata Democratica durante gli ani 90 i Repubblicani hanno mantenuto il controllo del Congresso, e le politiche della Casa Bianca hanno somigliato più a quelle di Calvin Coolidge che a quelle di Franklin Roosvelt. La legislazione sull ‘antitrust ha facilitato una serie di di fusioni su una scala ancora più grande di quella sperimentata negli anni 20. A metà degli anni 90 il culto dell’investimento in azioni ricorda quanto successo negli ani 20 quando era diventato centrale nella cultura della società. Oltre 50 milioni di americani detengono azioni e di ciò si discute dappertutto: nei bars, nei corsi di golf, nelle palestre, nei saloni di bellezza, in televisione. I fondi d’investimento guadagnano la copertina di playboy; una primaria scuola in Florida lancia un nuovo corso intitolato “ Benessere materiale e mercato azionario”: in sei mesi il portafoglio virtuale degli scolari sale di un terzo e tutti sognano di divenire brokers da grandi. CNBC il canale specializzato televisivo ottiene l’audience a crescita più veloce. Nel 98 vi erano oltre 37 mila club d’investimento (6 mila all’inizio della decade).
L’esplosione dei fondi d’investimento negli anni 20 è stata nettamente superata da quella avvenuta negli anni 90. Tra il 90 e il 98 i fondi azionari hanno attratto una cifra pari a 2 milioni di miliardi di lire, il numero dei fondi è passato da 1100 a oltre 6 mila. Durante il 96, per citare un dato annuo, mezzo milione di miliardi di lire è stato investito nei fondi comuni ed altrettanti nel 97, anno alla fine del quale l’ammontare totale in gestione era arrivato a 8 milioni di miliardi di lire cioè a una cifra pari all’attivo globale del sistema bancario. Esattamente come negli anni 20, si sosteneva che l’investimento privato in azioni rappresentava un risparmio previdenziale e ciò avrebbe supportato nel lungo termine le quotazioni azionarie. La grande fede nel mercato azionario è stata accompagnata dalla osservazione che le azioni danno un rendimento superiore alle obbligazioni nel lungo periodo, medesima agomentazione usata negli anni 20 quando divenne celebre la frase: “ la differenza tra il casinò e la borsa è che nel primo si guadagna a spese di qualcun altro, mentre nella seconda tutti possono vincere”. L’idea che le azioni producono il maggior rendimento ha spinto gli investitori ad acquistare enza preoccuparsi del livello dei prezzi (il rapporto prezzo/utili ha raggiunto nel 98 il picco storico di oltre 28). Il solo rischio finanziario degli anni 90 era quello di lasciare i soldi in banca mentre le azioni salivano del 20% di anno in anno. Gli investitori degli anni 90 cosa avevano in comune con i loro predecessori degli anni 20? innanzitutto l’uso degli acquisti a debito (i margini di garanzia si sono quintuplicati tra il 90 e il 98), e molti sistemi usati per eludere le restrizioni legali; inoltre l’idea che si comprano azioni per il lungo termine e non per profitti veloci: “compra e tieni” è divenuto un motto più popolare di “ti amo”; in entrambi i periodi ogni discesa delle quotazioni è stata considerata un occasione di acquisto, con il risultato di riassorbire velocemente qualsiasi crisi, fornendo un aura di invincibilità al mercato azionario. Il 27.10.97 il Dow crollò del 7% ma, impiegando le stesse parole di Hoover dopo il crash del 29, il ministro del tesoro assicurò che i fondamentali erano buoni, ed il martedì seguente vi erano file di persone negli uffici dei brokers, per comprare non per vendere!: risultato +5% subito ed in 6 mesi nuovi massimi con una salita del 25% da quel minimo di ottobre 97. Il mercato rialzista degli anni 90 è stato accompagnato dalla medesima credenza diffusa negli anni 20: essere entrati in una nuova era, dominata da un nuovo paradigma, la “Goldilocks economy” (dal famoso porridge delle storie culinarie che non era mai nè troppo caldo nè troppo freddo), punto per punto la ripetizione di quanto diceva Irving Fisher negli anni 20. David Shlman, Abbey Cohen, Ralph Acampora, consulenti azionari delle principali case di brokeraggio, ne sono diventati i paladini più famosi. Anche Clinton si fece influenzare affermando che i cicli economici sono evitabili; o Alan Greenspan, la cui fede nella produttività continuamente crescente è servita ad alimentare il mito dell’invincibilità dell’economia e dunque del mercato azioanrio.Ma la più impressionante similitudine tra gli anni 20 e gli anni 90 la si trova nel rapido declino dei tradizionali sistemi di valutazione delle aziende. In entrambi i periodi, il rapporto prezzo/utili e prezzo/mezzi popri vennero considerati a poco a poco niente altro che un insulto all’intelligenza; trionfa invece il DCF cioè l’idea di prevedere il flusso dei cashflows futuri e basare la valutazione su di essi, producendo targets sempre più alti. Come negli anni 20 si è creato un circolo vizioso per cui quando le quotazioni salgono si giustificano i rialzi con credenze e teorie che spingono a farle salire ancora e così via; fino a quando gli investitori mantengono la loro fede nella nuova epoca ed ignorano le informazioni dissonanti, allora le azioni continuano a salire, rinforzando tale fede negli adepti.Nel breve periodo ciò è utile all’economia: i consumatori spendono i loro guadagni azionari ed ignorano i loro debiti, le aziende emettono nuove azioni finanziandosi a costo zero e acquisendo altre aziende, il governo vede salire gli introiti fiscali sui capital gain: tutti sono contenti.Il mercato azionario viene visto come il più grande creatore di ricchezza mai esistito, una macchina in perpetuo avanzamento (definizione che risale al 1720).
Purtroppo però fino ad oggi è sempre arrivato un momento (come nel 1930) in cui si arriva al limite: i cicli tornano vendicandosi, la macchina in perpetuo movimento inizia ad andare anche nell’altra direzione, la nuova epoca viene consegnata alla Storia e per almeno 20-30 anni non se ne sente più parlare.







31- Fisiologia delle Bolle e Soros

Se si guardano i grafici dei principali mercati azionari a partire dal 1990 si vede chiaramente che vi è stata una Bolla : le quotazioni sono salite lentamente nella fase iniziale del decennio, poi hanno accellerato costantemente e alla fine sono salite quasi in verticale. Questo modello di movimento dei prezzi non è raro nei grafici giornalieri, ma lo è in quelli pluriennali. Esempi di bolle analoghe si sono avuti con le azioni americane negli anni 20, con l’oro negli anni 70 e con le azioni giapponesi negli anni 80. I prezzi dopo essere stati nella fase finale verticale , tendono a scendere un po’ per un certo periodo, ed infine crollano. Almeno il 40-50% di tutto il movimento complessivo, viene corretto in uno spazio di tempo ristretto. Poi gli scenari possono divergere. A volte la correzione del 40-50% è seguita da un’altra salita impulsiva che riporta a massimi più alti. In altre occasioni, dopo il 40-50% di correzione i prezzi continuano a fluttuare tra questi minimi e i vecchi massimi. Ma nella maggior parte dei casi i prezzi cadono molto oltre il 40-50% di correzione iniziale (sebbene possano avere un rally momentaneo dal livello di correzione , prima di proseguire la discesa). Spesso i prezzi collassano completamente fino alla base iniziale della bolla. Questo è successo in tutti e tre i casi citati, ed è anche successo con il Nasdaq recentemente.Dopo che la bolla decennale è finalmente arrivata alla fine (quando cioè il 40-50% di correzione non è seguito da un ritorno a nuovi massimi) e specialmente se i prezzi tornano alla vecchia base di partenza, il mercato in questione resta piatto per molti anni (una decade in media). Sebbene vi siano dei rialzi ogni tanto, a volte anche pronunciati, sono sempre di breve durata e velocemente vengono corretti in pieno.
Quasi sempre la spiegazione per lo sviluppo di una bolla è che i fondamentali del mercato in questione stanno migliorando. In questo senso è perfettamente logico che i prezzi salgano. Ma poiché sono sostenuti, e ogni correzione nel frattempo diviene una buona opportunità di acquisto, sempre più persone vogliono entrare nel mercato. Questo spiega perché i prezzi salgono in modo verticale nella fase finale: non solo più persone vogliono comprare quantità sempre maggiori, ma anche sempre meno persone vogliono vendere.
I mercati finanziari alla fin fine non sono altro che dei meccanismi di sconto. Essi scontano ciò che la gente si aspetta per il futuro. Una bolla significa in realtà che la gente sconta un futuro sempre più roseo. Il che sembra giustificato a prima vista perché, come sopramenzionato, magari i fondamentali sono in miglioramento. Il problema è che però alla fine della bolla i prezzi sono saliti così in alto da scontare non solo i miglioramenti nei fondamentali ma anche un futuro perfetto. Poiché il futuro non sarà mai perfetto nel nostro mondo dinamico, è solo questione di tempo, ma alla fine i prezzi collassano. Alla fine della bolla i fondamentali sono sempre enormemente iperscontati. La tendenza a sopravvalutare il futuro è qualche volta così tenace che anche anni dopo lo scoppio della bolla, gli investitori divengono immediatamente entusiasti quando i prezzi salgono per qualsiasi ragione.
Ad esempio, possiamo ricordare il sentiment nel mercato dell’oro durante gli anni 80. Nella decade precedente il prezzo era salito a sempre più alti livelli, data la forte crescita della moneta circolante, il calo del dollaro e le tensioni politiche (proprio l’invasione sovietica dell’afghanistan in quegli anni accelerò i prezzi dell’oro). Il mercato pensò che le tensioni est-ovest diventavano pericolose. Lo stesso successe quando il dollaro si svalutò e quando l’inflazione si impennò.
Quale insegnamento trarre, per i prezzi delle azioni odierni?
gli investitori tendono ad interpretare ogni salita delle quotazioni come il primo segno di un nuovo trend al rialzo. Questo sentiment è riemerso infatti nel 2003. Ma il Nasdaq è già caduto ben sotto il 40-50% di correzione. La Storia mostra che un rialzo in un trend ribassista è normale che si verifichi, e può anche essere spettacolare ma si fermerà ben sotto i vecchi massimi e finirà anche velocemente: per ora un nuovo trend rialzista non è assolutamente possibile. La situazione è diversa per gli indici della old-economy come il Dow jones, per i quali lo scenario di un’altra bolla a nuovi massimi è teoricamente possibile.
Se c’è qualcosa che non è cambiato è quello che i guru dei mercati finanziari predicono per il futuro. Quasi tutti predicono sempre che le quotazioni saliranno nettamente l’anno successivo. Il che già rende sospettosi, perchè l’esperienza mostra che quando tutti si aspettano un rialzo, raramente questo poi succede per la semplice ragione che vuol dire che hanno già comprato.

SOROS

Tutti conoscono il nome di George Soros, per averlo letto almeno
qualche volta nelle cronache finanziarie. Si sa che è uno dei
maggiori finanzieri del mondo, proprietario del famoso Quantum
Fund, salito alla ribalta delle cronache con il famoso miliardo di
dollari guadagnato nel 92 speculando sul crollo della sterlina. Ma
chi è veramente Soros e perché vale la pena di approfondirne la
conoscenza ? è quello che faremo in estrema sintesi durante questo
Speciale, frutto della lettura di “Alchimia della finanza” scritto
da Soros negli anni 80.

George Soros , di famiglia ebrea, è nato a Budapest nel 1930. Da
giovane ha vissuto sotto l’occupazione tedesca e poi sovietica
dell’Ungheria. Ha studiato filosofia e ha completato la sua
formazione presso la London School of economics a Londra dove ha
iniziato ad occuparsi di arbitraggi finanziari, per poi trasferirsi
a New York. Nel 1969 fondò il Quantum Fund che nel 1987 era
cresciuto di 300 volte. Sposato con tre figli, risposato con altri
due figli, Soros si è dedicato alla costruzione di un network
filantropico per favorire la libertà nei paesi dell’est da cui
proveniva, e poi ha allargato il raggio di azione a tutto il mondo
sottosviluppato, di cui oggi è uno dei principali punti di
riferimento per iniziative che coniughino democrazia ed economia.
Intellettualmente Soros è allievo di Karl Popper , il grande filosofo
autore de La Società Aperta. E’ stato proprio speculando nel senso
filosofico del termine, che è arrivato alla grande speculazione
finanziaria. Pochi lo sanno, ma Soros è autore di una importante
scoperta , la teoria della riflessività , che ha applicato ai
mercati finanziari.
L’opinione comune in economia e finanza è che i mercati hanno sempre
ragione, vale a dire nei prezzi di mercato è scontato il futuro
anche quando gli sviluppi non sono chiari. Soros invece parte dal
principio opposto: i prezzi di mercato sono sempre sbagliati nel
senso che essi risentono di un pregiudizio sul futuro. Non solo gli
operatori hanno un pregiudizio, bensì tale pregiudizio può anche
influenzare realmente il corso degli eventi. Il che può creare
l’impressione che i mercati anticipano il futuro correttamente, ma
in realtà sono gli eventi futuri che vengono condizionati dalle
aspettative presenti. Vi è una connessione nei due sensi tra
convinzioni pregiudiziali degli agenti economici e l’effettivo corso
degli eventi. Soros la chiama “riflessività”, come la proprietà
grammaticale di quei verbi, appunto detti riflessivi, che valgono
allo stesso modo per soggetto ed oggetto nella frase.
Ovviamente questa teoria si contrappone a quella classica dove il
mercato è concepito tendente verso l’equilibrio generale, grazie al
libero scorrere della legge della domanda e dell’offerta in un mondo
di concorrenza perfetta. Ma ancora prima, Soros critica l’assunto
base della scienza economica, che cioè sia possibile avere un
approccio scientifico ai problemi economici. A differenza delle
scienze naturali, dove le idee degli scienziati non possono
influenzare il fenomeno oggetto di studio, in economia le idee
possono influenzare il fenomeno, dunque siamo in presenza di
qualcosa di profondamente diverso. Il pensiero, in economia, gioca
un ruolo duplice. Da un lato cerca di capire la situazione cui
partecipa, dall’altro ciò che comprende serve come base per le
decisioni che a loro volta influenzano la situazione. I due ruoli
interferiscono l’un l’altro.
Nel caso dei mercati finanziari, la distorsione è particolarmente
intensa. Il pregiudizio dei partecipanti è un elemento che determina
i prezzi e nessun importante sviluppo di mercato lascia inalterato
il pregiudizio dei partecipanti. Negli sviluppi macroeconomici,
inoltre, l’analisi dell’equilibrio è totalmente inappropriata,
niente potrebbe essere più lontano dalla realtà che l’assunto
secondo il quale i partecipanti basano le loro decisioni sulla
conoscenza perfetta. Le persone cercano di anticipare il futuro con
l’aiuto di qualsiasi linea guida possano stabilire: il risultato
tende a divergere dalle aspettative, portando a un cambiamento
continuo delle medesime e ad un cambiamento continuo dei risultati,
insomma un processo riflessivo.
Per cui Soros sostituisce all’ipotesi base che i mercati sono sempre
razionali, altre due ipotesi:
1) i mercati sono sempre pregiudiziali in una direzione o
nell’altra;
2) i mercati possono influenzare gli eventi che essi anticipano.
Dopodiché, nel libro citato, Soros presenta un modello
interpretativo dei cicli boom-bust applicato alle azioni, alle
valute ed alla sua operatività effettiva nel Quantum Fund tra il
1985 e il 1986.
Naturalmente tale modello riflessivo non sostituisce l’analisi
fondamentale, bensì fornisce un ingrediente che manca a
quest’ultima. L’analisi fondamentale cerca di stabilire come i
valori sottostanti sono riflessi nei prezzi, la teoria della
riflessività mostra come i prezzi possono influenzare i valori
sottostanti: da una visione statica ad una dinamica.
Mi fermo qui. Molti sono gli spunti che si possono prendere da
Soros, non per guadagnare soldi, ma per guadagnare comprensione dei
meccanismi. Ad esempio, chi opera sui mercati sa che un aumento
della volatilità viene associato alla possibilità di un cambio di
trend. Perché? Soros spiega che ciò avviene perché quando un trend
inizia ad esaurirsi la folla di coloro che operano in tendenza
inizia a disorientarsi, allora i prezzi iniziano ad avere escursioni
più rapide nei due sensi. La convinzione dei più che prima si
rifletteva nel trend (tutti pensano che quel prezzo sale, allora
tutti comprano ad ogni calo) non c’è più, e lo si vede appunto
dalla volatilità che aumenta.
Concludendo, la lezione pratica più immediata che tutti possiamo
trarre dal pensiero di Soros concerne la pericolosità di
sottostimare il modo in cui movimenti di mercato palesemente
sbagliati possono in realtà esprimersi. A fine anni 90 il nasdaq a
3000 era già assurdo, ma mettersi contro questo movimento avrebbe
portato a perdite sicure, visto che in poco tempo è arrivato a 5000;
per contro, avendo coscienza che prezzi crescenti si sarebbero
riflessi in pregiudizi favorevoli crescenti si sarebbe atteso non un
determinato livello (5mila, 6 mila, ma poteva andare anche a 10
mila), bensì il momento in cui si iniziava a formare il
disorientamento dei partecipanti, segnalato dalla prima fase di
volatilità ai massimi. Quello era il momento di vendere il Nasdaq.
Cioè non ad un livello da noi prestabilito, bensì in
qualsiasi momento si vede salire la volatilità e si osservail
primo sbandamento concreto dei trend-followers.








32- Psicoborsa

Qualche anno fa, mi volli togliere lo sfizio di passare una notte al Ritz di Madrid, in missione “sociologica”; alcune immagini mi tornano alla mente e si combinano con novelle letture di cui vi dirò.
Mi ricordo un uomo di mezza età seduto nella sala del tè, vestito da uomo d’affari, poteva essere un manager in pensione della Enron o forse un mafioso russo. Con lui c’era una giovane donna, in jeans, e una camicetta scollata, quando si alzò… la guardai due volte: non sembrava una donna ordinaria, ma una uscita fuori da un video game. Ogni cosa in lei era esagerata, per un attimo non mi sembrò reale!. La coppia uscì dalla sala, lasciando mia moglie Karin e me soli con un trio arabo molto strano, ad un altro tavolo. I due uomini anche loro di mezza età, vestiti con abiti sfavillanti e due magnifici turbanti. Uno anzi aveva la prima parte della veste girigia, e il resto di un arancione brillante. Sembrava come se stesse per prendere fuoco, quasi mi aspettavo di veder entrare il cameriere con l’ acqua per spegnere l’incendio! Con loro c’era una donna di cui il massimo che posso dire è che sarebbe stato difficile trovare un più grande contrasto tra lei e la creatura che avevo appena visto uscire. Per la prima, quella del video game, l’immmaginanzione non serviva, per quest’altra invece l’immaginazione era tutto: vestita dalla testa ai piedi in nero, nessna parte di lei era visibile, anche gli occhi erano coperti da un paio di occhiali, scuri. Karin mi disse “ sono sicura che la tunica nera per lei è il massimo dell’eleganza, ma spero non le chiedano di portarla quando passa i punti di controllo negli aereoporti!”.
Perché la gente veste tuniche nere e sta al Ritz, quando potrebbe avere una stanza altretanto bella all’Hyatt o al Marriott, con gli stessi comforts, pagando 200 euro invece che 500?
Perché la gente sembra interessata a comprare azioni solo quando deve pagare di più per loro?
La psicologia applicata dimostra che anche con piccole somme di denaro e di fronte a una logica semplice, la gente spesso agisce in modi che hanno poco senso.
Immaginate che qualcuno vi offra 100 euro; tutto quello che dovete fare è mettervi d’accordo con qualche altra anonima persona su come dividervi la somma. Negli esperimenti le persone sono state accoppiate a due a due. Gli veniva offerta la somma, ma solo alla condizione che essi fossero capaci di mettersi d’accordo, in una singola transazione, su come dividersela fra loro. Così la cosa più ovvia sarebbe stata che ciscuno proponesse all’altro di dividersela a metà; accettando, tutti e due avrebbero incassato i 50 euro, in caso contrario nulla per enttrambi. Semplice.
Ma uno più avido potrebbe fare ad esempio questa proposta: 90 a me e 10 a te, e ricordati che se non accetti non avrai niente, mentre 10 è sempre meglio di niente, vero?
Che cosa direbbe l’altra persona? Accetterebbe? Ha solo una possibilità, perché non è prevista la negoziazione; così per lui la cosa logica è accettare. E invece molte persone rigettano l’offerta, perché avere 10 euro gratis viene schiacciato dal fatto “relativo” che l’altro invece ne intasca 90.
E grazie a Dio! Che mondo scialbo sarebbe quello in cui gli uomini si comportassero effettivamente come pensano gli economisti! E che tipo di storia il mondo avrebbe se le persone agissero razionalmente come la teoria economica ipotizza?
Il fascino dell’uomo è proprio nella sua infinita complessità, se non fosse così scrittori e romanzieri non avrebbero lavoro.
Perché uno dovrebbe rigettare l’offerta di 10 gratis?
Perchè non siamo interessati solo al ns. proprio incasso assoluto, bensì a paragonare noi stessi con gli altri e chiediamo una soluzione equa solo così infatti ci sentiamo meglio. Perché ci sentiamo meglio? Una volta che abbiamo un tetto sulle ns. teste, e sufficienti calorie per riscaldare e nutrire i ns. corpi, cos’altro ci serve? Solo il desiderio di “sentirci meglio” distinguendoci da quelli intorno a noi. Perciò proviamo a saperne di più, a fare più soldi, a vestirci meglio, ad apparire meglio, a lavorare di più (o di meno), e così via. Sulle strade gli ambulanti vendono le borse di Vuitton per 10 euro; io non so la differenza tra le imitazioni e gli orginali nella loro utilità effettiva. Perché spendere 10 volte di più per averne una firmata originale? La stessa domanda si può fare per le azioni? Un investitore storce il naso se vede l’azione scesa a 10, ma poi la comprerebbe se la vede salire a 100. Perché? Perché così si sente meglio. In realtà lui non compra l’azione o la borsa di Vuitton per divenire più ricco, ma solo per sentirsi meglio con sé stesso. Entrambe le cose sono elementi di distinzione che gli costano soldi, non gliene fanno fare, ma non è la moneta che conta, è lo stato pisichico in cui si viene a trovare dopo quella spesa.
Una stanza al Ritz non è praticamente migliore di quella all ‘Emperatriz dove siamo stati la notte successiva. Ma lo stile era diverso. Emperatriz: sofisticato, ma in un immobile moderno, più adatto a uomini d’affari. Di gusto, ma pratico. Un uomo come Warren Buffet potrebbe stare là, godendosi la convenienza e i prezzi, circa 120 euro per notte, e sentirsi bene lo stesso, anzi sentendosi superiore a chi sta al Ritz che nella sua mente è un stravaganza, ed uno spreco di soldi.
Infatti il Ritz è, sotto ogni punto di vista, uno spreco di moneta. Hotel old- fashion, ha una decadenza da 19° secolo, la nostra stanza era così riccamente decorata, da apparire una scena teatrale: ci si poteva aspettare da un momento all’altro di veder apparire Greta Garbo seguita da una mezza dozzina di valletti con i bagagli.
Perché spendere soldi al Ritz? Solo per ottenere un diverso sentire se stessi, cioè il feeling della superiorità rispetto ai “poveracci” che vanno all’Emperatriz!
Il desiderio di sentirsi superiori agli altri è così grande che la gente si inventa le ragioni per cui ha senso stare al Ritz o comprare un azione Cisco. La logica li aiuta a mantenere la loro dignità e confonde gli economisti. Ma essa, semplicemente, nasconde l’arrendevolezza senza condizioni alla moda e all’invidia. Perché la gente non spende soldi solo per ottenere il diretto beneficio, ma anche perché così si distingue dal suo ambiente di riferimento.
le persone pagherebbero per ridurre il reddito degli altri?
Si, perché l’uomo è un animale sociale, più preoccupato con la propria posizione ed il prorio status relativo che per il proprio beenssere assoluto.
Perché la gente aspetta a comprare le azioni fino a quando anche gli altri lo fanno? Perché essi temono la sottoperformance relativa più delle perdite assolute. Se le azioni salgono quando tutti gli altri le possiedono, il terrore è di restare indietro rispetto agli altri. Invece, se le comprano e le azioni scendono, si consolano con l’idea che anche gli altri stanno perdendo soldi.
Così va il mondo, e dobbiamo tenerne conto!
Alla domanda se le borse saranno più alte da qui a fine anno, la mia risposta veloce è che tutto può accadere. Di certo abbiamo delle valutazioni simili a quelle viste durante l’ultima bolla. Ci dicono che questa volta è diverso perché l’economia sta migliorando , ma anche nel 1999 e 2000 l’economia stava migliorando e il rapporto prezzo utili dell’indice più rappresentativo lo S&P500 a marzo del 2000 era a 29,41. Oggi la stessa fonte ufficiale cioè il sito dello S&P ci dice che siamo a 29,46 e ci si riferisce oggi come allora agli utili non corretti , altrimenti si va rapidamente a 35 o a 40 a seconda delle correzioni introdotte.
Non c’è dubbio però che valutazioni irrazionali non impediscono ai mercati di andare ancora più in alto. Come padre di 3 figli ho qualche esperienza con i giovani ed ho imparato a non sottostimare il loro potenziale ad agire irrazionalmente. Il solo fatto che abbiano agito irrazionalmente ieri e che sembra abbiano imparato l’errore non significa che non lo possano ripetere domani. Naturalmente vi sono diversi modi di di definire l’irrazionalità a sua volta di vari tipi. Come genitori ognuno ha le sue proprie definizioni. I figli poi ci informano che i ns. standard sono spesso troppo conservatori specialmente quando paragonati a “quelli degli altri”.
La stessa cosa come investitori. C’è un ampia gama di definizioni, e possiamo leggere sui media in continuazione analisti che definiscono i prezzi attuali “convenienti” o “giustamente valutati” o “sopravvalutati”. La Storia però ci insegna che nel lungo periodo le valutazioni tendono a tornare verso la media, e poiché non c’è mai stato nella Storia dello S&P un periodo in cui il rapporto prezzo-utili è stato ai livelli attuali , se non appunto all’apice di qualche bolla come nel 2000, io resto convinto che chi compra oggi per tenere nei prossimi 5-10 anni, perderà soldi così come a tutt’oggi sono in perdita di circa il 50% mediamente coloro che comprarono nel 2000. Ciò nonostante la massa compra credendo che questa volta sarà diverso.
In questo capitolo, un po’ lungo per la verità, a prescindere dalle ragioni di carattere macroeconomico e politico più volte analizzate, identifico il perché di questo comportamento della folla, sempre incline a cadere nelle trappole, che non ha le sue radici nella matematica o nell’economia, bensì nella psicologia.
Ho già citato nel capitolo su Soros la teoria dell’efficienza dei mercati che sostiene come i prezzi siano sempre giusti perché riflettono tutte le informazioni ed aspettative. Pertanto non si può sovraperfomare in modo significativo il mercato a causa della natura causale in cui le informazioni arrivano e del modo con cui i prezzi si aggiustano reagendo correttamente quasi subito alle ultime informazioni. Il risultato è che non si può mai parlare per definizione di sopra o sotto valutazione, almeno per un periodo di tempo lungo. Quindi il solo modo di investire profittevolmente è comprare e tenere dei panieri diversificati di azioni. La teoria sostiene che poiché i prezzi riflettono ogni informazione disponibile, e poiché le informazioni arrivano in modo causale, c’è poco da guadagnare con ogni tipo di analisi, sia fondamentale che tecnica. Essa postula che ogni singolo pezzo di informazione venga analizzata da migliaia di investitori e poi riflessa nel prezzo di mercato. Lo studio dei dati storici, sia fondamentali che tecnici, è inutile perché il passato non ha effetti sul futuro.Sono stati dati dei premi Nobel in economia a chi ha sviluppato questa teoria, intere carriere sono state costruite su di essa, interi libri di matematica sono stati scritti per giustificarla. Il problema però sono gli assunti di partenza, come per ogni teoria, a mio avviso totalmente sbagliati.
Perché tutto questo deve interessarvi? Perché i venditori di azioni la usano per convincervi che dovete investire in un certo modo, cioè comprare azioni e fondi di investimento e tenerli per il lungo periodo.
Nel frattempo sta invece crescendo un campo di analisi chiamato finanza comportamentale che dimostra esattamente il contrario, e nel 2002 il premio Nobel è andato a uno di questi specialisti, Daniel Kahneman. Qui i ricercatori cercano di determinare perché noi facciamo quello che facciamo quando ci sono in ballo i soldi. Kahnema ha fatto ,tra gli altri, questo esperimento. Un ricercatore prende un mazzo di 52 carte e ne tiene una scoperta. Gli osservatori pagano un dollaro a fronte della possibilità di vincerne 100 se la carta viene presa dal mazzo una volta rimescolate le carte. A queste condizioni, che manderebbero in fallimento las vegas, il punto di pareggio del costo di una singola carta rispetto all’incasso atteso è di 1,92 (1/52*100). Allora viene chiesto ai partecipanti se gradirebbero vendere questa loro carta, e circa l’80% accetta a fronte di un prezzo di 1,86. In effetti in tal caso sarebbe razionale vendere, e anche comprare: acquistando tutte le 52 carte ci sarebbe ancora un guadagno sicuro del 3,18%. Ma il bello viene ora. La volta successiva alle persone viene concesso di scegliere la carta dal mazzo da comprare e gli viene offerta la stessa chance come sopra: si scopre che ora ha un attaccamento personale alla carta perché l’ha toccata lui, e solo il 60% è disposto a vendere per giunta volendo un prezzo medio di oltre 6, assolutamente irrazionale dal punto di vista dell’ipotetico compratore. E quando questo stesso esperimento è stato fatto con allievi del master in Business administration il prezzo medio richiesto è stato oltre 9. “conosco questa carta, l’ho studiata, ho un rapporto personale con lei pertanto essa vale di più per me” questo pensa il partecipante medio. In realtà non vale affatto di più che nel primo caso (quando non era lui ad averla scelta) , ma la psicologia del l’attaccamento alla propria scelta fa sì che egli la ritenga così.
Questa scoperta si lega con alcuni studi apparsi nella recente edizione speciale del Journal of psychology and financial markets. Chi conosce l’inglese farebbe bene a leggerlo e a consultare il sito wwww.psychologyandmarkets.org
Nel primo appare un analisi intitolata “pregiudizio domestico nelle aspettative di rendimento sui mercati azionari internazionali” . Si confrontano gli investitori tedeschi e quelli americani. Ogni gruppo si sente più competente sul proprio mercato di casa, e valuta maggiori le probabilità di guadagno in quello. Semplicemente perché si è più familiari con un azione si pensa che sia più probabile che salga rispetto ad un azione con cui si ha meno familiarità. Razionalmente non è possibile fare questa affermazione, proprio perché non si conosce abbastanza dell’altra, non si hanno basi per fare il confronto, ma il fatto che non si sappia niente dell’azione “altra” non impedisce agli intervistati di dare un giudizio. Ora si potrebbe pensare che ciò succede solo ai piccoli e non professionali. Lo studio invece mostra un pregiudizio analogo quando l’intervista viene fatta ad investitori istituzionali. Per entrambe le tipologie testate le azioni più familiari sono giudicate più ottimisticamente che le altre. Vi sono altri studi che supportano questa conclusione, studi in cui si dimostra che la gente in media preferisce scommettere sul proprio giudizio, su una chance ugualmente probabile di evento, quando considera se stessa competente circa l’evento che viene giudicato. Questo è il motivo per cui nelle corse dei cavalli, i cavalli locali ricevono generalmente quote migliori dagli scommettitori locali di quanto non ottengano quando gli stessi cavalli vanno a correre altrove. Stessa cosa vale per la schedina. I ns. scommettitori non giocherebbero sul campionato inglese, come su quello italiano, perché ritengono – leggendo i giornali locali, parlando, etc. –di saperne di più; e poiché ne sanno di più giudicano che è più probabile vincere. Per le azioni questo fenomeno non concerne solo Germania ed USA. Un altro studio del 1996 mostra la stessa risposta da parte di investiori istituzionali nel confronto tra Giappone ed USA. Il concetto in definitiva è: più si conosce o si crede di conoscere su un azione, più probabile è che siamo ottimisti sulla stessa. La familiarità in altre parole si trasforma in fiducia. Peggio ancora, dopo un po’ di tempo si trasforma in fiducia irragionevole. “Chi si loda s’imbroda” recita un detto di antica saggezza. In questo caso, sembra che la troppa fiducia si trasformi in perdite .
la mia convinzione è che noi ci troviamo in un decennio di mercato Orso, perché di norma ci vogliono anni affinchè le valutazioni azionarie tornino a livelli da dove poi possa ragionevolmente partire un mercato Toro. Perché ci vuole così tanto tempo? Perché non avviene un ritorno quasi immediato alle valutazioni giuste una volta che il processo è iniziato?
Perché gli investiori sopravvalutano le buone notizie e sottovalutano quelle negative sulle azioni che prediligono, mentre fanno l’opposto con quelle che non considerano. Le percezioni passate sembra indichino le performance future, e ci vuole tempo per cambiare quelle percezioni.
Questo risalta da un altro studio intitolato : “La sovrareazione degli investitori: dimostrazione che la sua base è psicologica ”. Si tratta di un analisi ben scritta del comportamento degli investitori che illustra come le percezioni siano più importanti dei fondamentali. Vediamone i dettagli.
In ogni anno vi sono azioni più alla moda, come mostrato dalle valutazioni superiori e dai prezzi in rialzo, e vi sono anche azioni fuori moda che sono esattamente all’opposto (pensate ad esempio a quelle cosiddette “growth” e a quelle “value”). In questo studio Dreman e Lufkin analizzano un database di 4721 aziende dal 1973 al 1998. Il database è diviso, per ogni anno, in cinque parti basate sopra le valutazioni di mercato, separatamente il rapporto prezzo-mezzi propri, quello prezzo-cash flow, ed il tradizionale prezzo-utili. Il che crea tre modi separati di analizzare le azioni per ogni anno in modo da rimuovere il pregiudizio che potrebbe intervenire nelll’usare una sola di queste misure. Il primo ed il quinto quintile diventano l’investimento di portafoglio per tutte e tre le misurazioni, come se fosse un fondo comune creato per comprare solo queste azioni. Dopodichè analizzano i dieci anni precedenti e i cinque successivi per questi portafogli (vi sono abbastanza dati per creare 85 di questi portafogli o fondi) osservandone la performance di questi portafogli rispetto a quella degli indici generali di mercato, poi analizzandole in termini di 5 criteri fondamentali: crescita del cash flow, delle vendite, degli utili, roe, e margini di profitto. Fanno quest’ultimo test per vedere se si può discernere una ragione fondamentale che spieghi il comportamento del prezzo dell’azione. Cosa risulta? innanzitutto che sia le sovra performance che le sotto performance di queste azioni avvengono nei dieci anni che portano alla formazione del portafoglio; quasi immediatamente dopo averlo creato le performance di prezzo cambiano nettamente: le azioni “in” sottoperformano i successivi 5 anni e le altre sovraperformano. L’effettiva esperienza di molti investitori è simile, più di quanto si pensi. Ciò succede perché si temnde a inseguire la performance. In realtà, più è alto il prezzo e più rapido è il movimento, maggiori sono i nuovi investitori che salgono sul treno, e la stessa cosa avviene con i fondi d’investimento. La parola chiave, sono le aspettative. Molti studi documentano che la gente tende a comprare l’ultima azione “calda” evitando invece quelle in “ritardo”, e dunque formando un portafoglio del quintile dei più performanti si ottiene uno specchio di ciò che avviene nella relatà.
Ma perché c’è questa caccia alla azione calda? Perché si diventa ultra fiduciosi che il trend dei fondamentali si ripeterà. Gli investitori cioè tendono a ritenere che il futuro non sarà molto diverso dal recente passato, e quindi continui miglioramenti per chi sale e continui peggioramenti per chi scende. L’estrapolazione del passato risulta la cosa più semplice da fare e l’alta fiducia nelle previsioni è uno degli errori più comuni in finanza.
Se ora ci rammentiamo di quanto scoperto negli esperimenti citati all’inizio, e cioè che più ne sappiamo di un azione più pensiamo di essere competenti ad analizzarla e quindi più siamo convinti di essere nel giusto, capiamo altre cose. Qui non posso riprodurre i grafici, ve li descrivo (quelli di Dreman e lufkin). I fondamentali migliorano piuttosto costantemente nei primi dieci anni per le azioni favorite in rapporto alla media generale. Ma le performance di prezzo salgono con molta maggior rapidità, soprattutto nelgi ultimi anni. Sembra dunque che più a lungo un azione fa bene, più gli investitori diventano fiduciosi e la premiano accettando multipli valutativi sempre più alti. L’esatto opposto avviene con le azioni non favorite, ed anche quando i loro fondamentali in realtà migliorano, esse si trovano in ritardo rispetto al mercato in generale, vengono cioè punite con prezzi relativi molto più bassi.
A cinque anni dalla formazione del portafoglio, i trends di ogni gruppo sono già evidenti, ed i successivi 5 anni sevono solo a rinforzarli, il che rinforza le percezioni su queste azioni ed aumenta il livello di fiducia nel futuro. Insomma, la percezione passata (accumulata e rinforzata nel tempo) crea l’azione futura del prezzo.
Non importa che una Dell non possa mai crescere nella realtà del 50% all’anno all’infinito, o che la General Electric contabilizzi utili fittizi al 15% per sempre. Quando lo si dirà, gli investitori continueranno ad ignorarlo.
Ma torniamo allo studio in oggetto. Di quanto è stata migliore la performance delle azioni “in” rispetto alle “out” nei dieci anni precedenti la creazione del portafoglio? L’azione con il più alto prezzo-valore di libro ha sovraperformato del 187%, quella con il più basso ha sottoperformato del 79% per un differenziale tra le due di 266%; se si guarda il criterio del cashflow questo differenziale scende un po’ al 172% ma resta elevatissimo. Nei successivi 5 anni le azioni calde hanno sottoperformato del –26% sulla base del valore di libro e – 30% su quella del cash flow, mentre viceversa quelle out hanno fatto meglio rispettivamente del 33 e del 22%. Insomma un enorme inversione di trend. Cosa è successo? Quelle che prima erano azioni scarse hanno finalmente ottenuto fonadmentali migliori ? la riposta curiosamente è NO.
In alcuni casi anzi si vede che i fondamentali delle azioni scarse sono divenuti ancora peggiori. Per cui mentre vi è stata una modifica nell’andamento dei prezzi azionari con le azioni scarse che superano quelle calde, questo non si verifica nei rispettivi fondamentali. I dati e i grafici mostrano chiaramente che i fondamentali per le azioni calde continuano a battere quelli delle azioni scarse perfino nei 5 anni dopo la formazione del portafoglio, e ciò nonostante vi è stato un inversione nel trend dei prezzi. Perché? Si scopre che anche una piccola sorpresa negli utili precedentemente scontati può iniziare un inversione che dura molti anni. Allora dov’è la reazione eccessiva? Negli anni precedenti alla sorpresa che hanno prodotto prezzi molto alti o bassi (relativamente ai fondamentali) o nell’immediata realzione alla sorpresa?
Dreman e Lufkin giungono a questa conclusione: per loro, la sovra reazione o il suo contrario, sono parte dello stesso processo. La sovra reazione inizia negli anni precedenti al raggiungimento dei picchi nei prezzi. Come scriveva Minsky, la stabilità porta all’instabilità. Più una certa tendenza divene confortevole, più a lungo persisterà e poi quando si inverte, la correzione sarà più violenta. La causa dell’inversione non è di origine fondamentale. Non è il rischio, bensì è psicologica , è nel comportamento iper reattivo degli investitori. Ciò non subito, anzi in genere si tende a non reagire di fronte alla prima correzione. Mentre non piacciono le sorprese, si tende a pensare come a un accadimento occasionale, per cui si crede che le cose torneranno subito alla norma. Non si aggiustano subito le aspettative, almeno non pienamente; così dopo un certo periodo ci vorranno altre sorprese per generare più reazione, e ci vogliono anni affinchè tutto il processo si completi. Le correzioni iniziali possono anche essere improvvise e violente, ma non riescono mai ad aggiustare pienamente i prezzi a livelli realistici.
Insomma gli studi citati mostrano che ci vuol tempo prima che i portafogli sopravvalutati tornino alla realtà. Perché dunque ciò non dovrebbe valere per i mercati nel loro insieme? Perché questo non dovrebbe spiegare come ci voglia tanto tempo perché un mercato orso esaurisca la sua funzione? Non è sufficiente una sopresa sugli utili per qualche azione , bensì ci vuole una serie di eventi e recessioni che lentamente cambiano la percezione della maggioranza degli investitori.
Da qui la mia convinzione che siamo ancora nella fase iniziale del mercato orso. Sono cicli che prendono molto tempo, dagli 8 ai 17 anni storicamente e noi siamo appena all’anno n.3 e a livelli di valutazione massimi. La prossima sorpresa o delusione verrà sicuramente fuori da qualche parte. Quando viene seguita dalla prossima recessione, le azioni cadaranno di un altro gradino nel loro lungo viaggio verso valutazioni molto più basse delle attuali. Dato il livello di grande fiducia degli investitori nel mercato, e data la lunghezza del precedente mercato toro, ci vorrà più di una recessione e vari anni prima di trovare il fondo. Nel frattempo, chi è in borsa farebbe bene a esaminare le proprie percezioni circa il futuro, sia quelle positive che quelle negative. E vedere se può
schiarirsi le idee circa le strategie da adottare. Va ricordato infatti che solo perché le azioni sono in un orso secolare non significa che non vi siano opportunità in altri mercati e strategie adatte. Così come nella vita c’è altro oltre al lavoro e ai soldi, così negli investimenti c’è altro oltre alle azioni.






33- L’ Orso
Un mercato Orso è un lungo movimento ribassista, interrotto da rialzi anche importanti. Esso è causato da vari squilibri economici e non finisce fino a quando le quotazioni hanno interamente scontato il peggio che può succedere.
Vi sono 3 fasi nell’Orso:
1) L’inizio, quando si abbandonano le speranze su cui si erano comprate le azioni a prezzi inflazionati.
2) Il centro, quando le vendite rappresentano il ridursi dei fatturati e degli utili.
3) La fine quando le vendite sono forzate dal bisogno di realizzare liquidità , indipendentemente dalle valutazioni sottostanti .
Due decadi di ricerca mostrano che per gli investitori conta di più la decisione di asset allocation effettuata, che la selezione delle singole azioni. Se un investitore fosse stato pieno di azioni attraverso gli anni 80 e 90 la sua ricchezza sarebbe fortemente cresciuta; se invece avesse seguito il consiglio che all’epoca andava di moda di investire in oro per l’intero periodo adesso avrebbe perso i ¾ della medesima.
La tecnologia, la FED, le tasse, possono influenzare il mercato di volta in volta, aumentando temporaneamente l’offerta di credito e inondando la Borsa di liquidità. In questo modo una fase può essere espansa o ritardata oltre i suoi naturali limiti. Ma prima o poi le grandi onde dell’avidità e della paura riemergono in tutta la loro potenza.
L’arte del “market timing” cioè di individuare i tempi giusti per entrare o uscire dal mercato, è stata oscurata dalla precedente fase Toro che a ben guardare è durata dal 1982 al 2000. Le persone si sono convinte che conveniva comprare e tenere per il lungo termine: le azioni possono scendere nel breve termine, ma nel lungo risalgono sempre, non ci sono rischi. Da quando però è esplosa la bolla del Nasdaq e correlati con tante azioni che da 100 sono scese a 1, il dubbio è riemerso, e vi è un nuovo interesse a sapere che cosa farà il mercato prossimamente.
Tutti domandano quando è il momento di rientrare nel mercato.
Ora è evidente che la palla di cristallo non ce l’ha nessuno; ma una cosa è certa:
il segreto per investire bene - imparato con grande dispendio di energie da William Gann - non consiste tanto nella previsione del futuro, bensì nell’attenersi sempre ad alcune regole di base da seguire con disciplina ferrea:
1) mai prendere perdite grandi; non appena in dubbio, uscire fuori (stoploss); è molto difficile riprendersi dalle grandi perdite sia finanziariamente che psicologicamente. Ricordarsi che quando si guadagna e tutto va bene si fa sempre in tempo a perdere, mentre quando si è perso il proprio capitale è impossibile recuperare, per definizione. Dunque è una partita squilibrata, a ns. sfavore, e l’unica soluzione è questa.
2) Capire la potenza dell’interesse composto; l’obiettivo deve essere guadagnare un pò alla volta , regolarmente nel tempo senza cercare i colpacci che quando vanno male si trasformano in grandi perdite.
3) Imparare la Storia, imparare a riconoscere le azioni sopravvalutate, imparare le leggi dei mercati rialzisti e ribassisti .
4) Ignorare quello che dicono i guru di Wall Street: loro fanno i propri interessi e del vs. denaro non gliene può importare di meno.
5) Cercare sempre il valore; diffidare di chi dice “questa volta è diverso”.
Gli studi mostrano una relazione tra i rapporti Prezzo /utili e i dividendi e le probabili performances future delle azioni . Con i P/U di oggi e con i dividendi mediamente sotto al 2% le azioni sono care.
Può darsi che siamo entrati in un periodo tipo il 1966-74 con una serie di salite e discese limitate, e che gli indici non vadano da nessuna parte per anni; e che poi arrivi il collasso della terza fase del mercato Orso, che non è ancora arrivata, e potrebbe non arrivare per molto tempo. Negli altri punti di fine dei mercati orso nella storia, le azioni hanno teso ad avere P/U di circa 10 e dividendi del 6% (ad esempio nel 1932), ma si è fatto anche di peggio: nel 49, nel 74 e nell’82 i P/U erano di 6. Per ottenere un dividendo medio del 6% il Dow Jones dovrebbe quotare intorno a 4 mila; ma non vi è nessuna garanzia che gli attuali dividendi continuino a mantenersi.
In quel caso, con dividendi medi del 6%, sarà il momento di comprare azioni, ma non perchè pensiamo che sia il fondo e che possano solo salire, bensì perchè a quel punto saranno a buon mercato e daranno un rendimento comunque interessante. Il resto poi verrà da sè....
…. aspettando Godot
“Cosa stiamo aspettando?”. Lunga pausa. “Stiamo aspettando Godot”. Lunga pausa. “Oh…”. Lunga pausa.

Gli investitori, aspettando il Messiah della resurrezione del mercato toro, a volte sono perplessi. Alcuni si stanno preoccupando, altri sono usciti, ma la maggioranza si è rassegnata ad aspettare. “Nel Lungo periodo” pensano “le cose andranno meglio, come sempre è stato”. I più analitici ci spiegano che le azioni consentono ai singoli di possedere i mezzi di produzione, macchine ed organizzazioni che hanno prodotto questo fantastico trend verso il benessere. Gli investitori saranno ricompensati dalla tecnologia e dallo spirito imprenditoriale. “Nel lungo termine può esservi solo un guadagno, si diventa più ricchi non più poveri”.
Invece è meglio analizzare il passato ed il presente, aspettando il futuro. E quando guardiamo, qui ed ora, non vediamo la gente arricchirsi, bensì impoverirsi. I mercati non danno niente senza prendersi qualcosa in cambio, e la redenzione negli investimenti – come in ogni cosa della vita – viene solo dopo la sofferenza, così come non si diventa più saggi senza di essa.
Iniziamo dal principio. Una nazione che è ricca è una che ha il capitale, cioè le risorse con cui si creano beni e servizi. David Ricardo, il già citato grande economista dell’800, diceva semplicemente che il Capitale è quella parte di una nazione impiegata nella produzione, e che per divenire più ricchi occorre aumentare il capitale.
Un uomo che spende mille lire per fumarsi un buon sigaro non diviene più ricco, bensì più povero di mille lire, che se ne vanno in fumo.Vi è un solo modo per divenire più ricchi: mettere da parte risorse utilizzabili per la creazione di ricchezza futura. Adam Smith, nel 1700, diceva che la Parsimonia , non l’industria, era l’immediata causa di aumento del capitale, vale a dire il risparmio. Uno può sedersi nel suo ufficio e scrivere un nuovo programma di software che potrebbe essere valutato miliardi; ma egli non sarà più ricco fino a quando non incasserà effettivamente i soldi e, se li spende tutti piuttosto che risparmiarli, non sarà più ricco alla fine della sua vita di quanto lo fosse all’inizio. La ricchezza è la somma dei risparmi accumulati, né più né meno.
Ora se guardiamo agli ultimi 5 anni, vediamo che molti americani(e non solo loro) si sono “fumati” i propri soldi. Prima, la bolla azionaria li ha convinti che sarebbero diventati sempre più ricchi, e così hanno smesso di risparmiare. Ora, le loro case stanno salendo di prezzo, così si indebitano sulle case come se vi fosse un extra- guadagno e continuano a spendere il ricavato. Negli ultimi 10 anni i mutui ipotecari accesi su proprietà già esistenti sono aumentati enormemente. Tenete presente che nel 1945 gli americani possedevano l’86% delle loro case (cioè solo il 14% era finanziato da mutui): questa percentuale è scesa al 55%!
Sia il mercato Azionario che la proprietà immobiliare sono sembrati essere i sostituiti dei risparmi. Adesso il primo si è già visto essere un sostituto molto precario. Il secondo, probabilmente sarà anche peggio non appena scoppierà la bolla immobiliare, perché quando le azioni scendono almeno non si continuano a pagare le rate mensili. Il consumatore, mentre fuma i suoi soldi, è ancora fiducioso: come l’investitore, ha ancora mille lire da spendere e aspetta che le cose vadano meglio. L’azzeramento del tasso di risparmio è il più grosso problema macroeconomico degli USA, nonostante tanti si affannino a modificare le misure convenzionali del risparmio; ho sempre contestato l’assurda affermazione che il bilancio dei consumatori è florido perché azioni ed immobili sono saliti di prezzo più velocemente dei debiti : proprio queste attività di carta sono il problema, ed è stata la bolla creatasi su di esse che ha spinto i consumatori a indebitarsi sempre più, spendendo sempre più. E mentre solo una parte della bolla, quella sul Nasdaq, è scoppiata, la gran parte è ancora in piena (altre azioni e case), ed è destinata a seguire con l’effetto finale di costringere gli americani a ricostruirsi un tasso di risparmio ragionevole.
Ma spendere oltre le proprie possibilità è un abitudine difficile da cambiare. Keynes diceva che gli uomini come i cani sono solo troppo facilmente condizionati (effetto Pavlov) e sempre si aspettano, quando suona la campana, la stessa esperienza provata l’ultima volta. Ci vorrà del tempo prima che cambino associazione mentale(o riflesso condizionato). Prepariamoci per un prolungato e doloroso processo di aggiustamento. Quanto lungo e quanto doloroso? Giusto per dare un idea di quanto siamo lontani sul mercato azionario dalla base storica, considerate che nel lungo termine le azioni salgono di circa il 4% all’anno con immense deviazioni intorno alla media. Se i profitti crescessero del 4% all’anno , ci vorrebbero circa 14 anni prima che il Dow ritorni al rapporto prezzo-utili normale…o, se la vogliamo vedere da un altro lato, il Dow dovrebbe dimezzarsi oggi per avvicinarsi al comportamento storico del medesimo rapporto.
Chi crede in una ripresa automatica nel tempo, sappia che può dover attendere molto a lungo; e la ripresa non è né automatica né garantita dal solo passare del tempo: ci si dovrà redimere, nel frattempo.

Nei mercati orso assumono un importanza cruciale le vendite allo scoperto, e più in generale la figura del ribassista. Forze potenti sono alleate contro il ribassista: gli speculatori al rialzo, i cui capitali sono superiori in misura di cento a uno; l’opinione pubblica che percepisce la vendita allo scoperto come un attività oltraggiosa;ed i politici che sono sempre pronti a incolpare i ribassisti dei problemi economici.
Inoltre, il ribassista si mette contro le forze del progresso economico, che negli ultimi due secoli è stato accompagnato da enormi incrementi nelle quotazioni azionarie, così che 100 dollari investiti nel 1802 si calcola valgano 700 oggi.
I mercati speculativi sono stati da sempre testimoni della lotta tra ribassisti e rialzisti. I ribassisti sono sempre stati impopolari
Nel 2° sec. A.C., il drammaturgo Plauto identificò due gruppi tra quelli che erano impegnati a scambiarsi azioni nel Foro Romano; chiamò il primo gruppo con un termine che oggi potremmo tradurre “ acquirenti”, ed il secondo gruppo “i venditori” lo descrisse come formato da gente impudente, che parlava molto, pronta a calunniarsi reciprocamente.
In Inghilterra il termine Orso per simboleggiare una speculazione al ribasso, deriva dalla storia di un cacciatore che vendette la pelle dell’orso prima di averlo catturato, ed apparve questo termine all’inizio del 18° secolo prima dell’equivalente contrario Toro.
Nel 1609 un mercante fiammingo di nome Isaac LeMaire, organizzò una speculazione al ribasso sul titolo della Compagnia olandese dell’Est India, anche se ne era uno dei membri fondatori. La Borsa di Amsterdam (a proposito il nome Borsa deriva dall’Hotel De Bourse dove si svolsero le prime contrattazioni ufficialmente organizzate) pur sostenendo che il calo del titolo dipendeva dalle condizioni negative degli affari, nel 1610 vietò le vendite allo scoperto. Ma come tutte le leggi tese a ridurre le libertà del mercato, non ebbe praticamente effetto. Ci riprovarono nel 1621, a vietarle, ma ancora senza successo. Anche quando in Inghilterra e Francia iniziarono ad esistere le Borse ufficiali all’inizio del 18° secolo, altre trappole legislative furono architettate per rendere diffcilile la vita ai ribassisti: quando scoppiò la bolla speculativa sulle azioni Missisipi, nel 1720, i ribassisti che ne avevano approfittato furono multati e le vendite allo scoperto furono vietate.Nella stessa epoca vi fù la bolla sulla Compagnia dei mari del sud le cui azioni salirono da 100 a 1000 nei primi sei mesi del 1720 per poi tornare indietro a 100 già nell’autunno dello stesso anno. 13 anni dopo Sir John Barnard portò in Parlamento una proposta di legge in cui diceva:“ lo scopo è prevenire la pratica perniciosa della speculazione al ribasso sulle azioni che finiscono per danneggiare l’onesta industria e commercio”. Con questa legge si vietarono i futures, le opzioni e le vendite allo scoperto (che per un errore di trascrizione risultò limitata solo alle azioni inglesi) e rimase nello statuto fino al 1860. Ma anche in questo caso tali leggi restarono lettera morta: gli operatori continuarono a trattare allo scoperto, sulla base della parola data (il motto era: “la mia parola è il mio titolo”). Questi esempi dimostrano una tematica diffusa nella storia dei ribassisti. Le Bolle si sviluppano quando i rialzisti portano i prezzi delle azioni molto sopra il loro valore intrinseco; il loro collasso è spesso accompagnato da crisi economiche.
A chi viene data la colpa? Non ai rialzisti, che in realtà l’hanno creata guadagnandoci sopra, bensì ai ribassisti che infatti diventano sempre l’obiettivo delle leggi specifiche.Invece durante la bolla, sono solo i ribassisti che portano argomenti razionali avvisando del rischio esistente a investire in titoli sopravvalutati. Sin dallo scoppio di quella del Missisipi, i francesi sono rimasti molto più inclini all’avversione contro la speculazione, rispetto agli inglesi. Napoleone odiava i ribassisti e riteneva le vendite allo scoperto un gesto antipatriottico; nel 1802 emanò un editto in cui i venditori allo scoperto erano punibili con anno di prigione.Il pregiudizio francese contro il cosiddetto capitalismo anglo-sassone resta anche ai giorni nostri: quando Soros ed altri fecero scoppiare la bolla sulla sterlina, provocandone l’uscita dallo SME nel 1992, il ministro delle finanze Sapin commentò :”durante la rivoluzione questa gente sarebbe stata considerata passibile di punizione”.Appena dopo la caduta dei mercati post 11 settembre, il ministro belga ha dichiarato di avere forti sospetti che i mercati inglesi erano stati usati per specularci sopra!
I ribassisti hanno operato sempre più liberamente negli USA che in Europa. A dispetto di una legge loro contraria che risale al 1812, il venditore allo scoperto è una figura familiare già dal 19° secolo.Alcuni sono divenuti celebri. Jacob Little, nella prima metà del secolo veniva chiamato”il grande orso” o “il vecchio orso” o il “Napoleone di Wall Street”. Little operava anche al rialzo e perfezionò la tecnica di forzare i venditori a ricoprirsi, che divenne poi un elemento costitutivo del mercato.Little finì distrutto nel crash del 1857.Il suo posto fu preso da Daniel Drew soprannominato “Ursa major”, e descritto dai contemporanei come un individuo illiterato e senza scrupoli, un strana combinazione di superstizione e mancanza di fiducia, di gentilezza e timidezza, qualche volta generoso; fu il grande rivale di Cornelius Vanderblit e partner occasionale di Jay Gould. Le operazioni al ribasso di Drew a volte coinvolgevano le Ferrovie Eire di cui era un dirigente; Drew manipolava al rialzo le azioni, poi quando vedeva che prendevano slancio iniziava a venderle allo scoperto, diluendone il valore tramite l’emissione di altre azioni non autorizzate.
Il secolo ventesimo appartiene ovviamente ai rialzisti, fino al 1929 quando i ribassisti riemersero sullo scoppio della bolla: Jesse Livemore celebre speculatore, che già da ragazzo fece soldi vendendo allo scoperto le azioni della Union pacific (ferrovia) durante il terremoto di S. Francisco del 1906, si arricchì enormemente durante il crack di Ottobre. Le azioni dopo un rimbalzo momentaneo ripresero a scendere toccando il loro minimo nel 1932 (Dow a 42, circa il 90% in meno dai massimi del 1929).In quell’anno il Pil si era contratto del 60% ed un terzo della forza lavoro non agricola era disoccupata.Il Presidente Hoover che nel 1929 dichiarava la povertà sconfitta per sempre, dovette affrontare un compito improbo nelle successive elezioni.L’america aveva bisogno di una scappatoia. Circolavano voci di guadagni eccezionali fatti dai ribassisti, e di cospirazioni politiche provenienti dall’estero, ai danni degli USA.Nel 1932, il governatore della Filadelfia dichiarava che i capitalisti europei avevano finanziato il più grosso raid ribassista della storia. Hoover si convinse che la speculazione al ribasso aveva come obiettivo quello di fargli perdere le elezioni; nell’aprile di quell’anno un giornalista specializzato in azioni, francese, venne arrestato dalla polizia e la sua editrice fu accusata di essere al soldo di russi e tedeschi che volevano gettare nel panico il mercato americano. Disperato Hoover ordinò l’apertura d un inchiesta sugli affari di Wall Street. In realtà non emerse alcuna evidenza di un complotto ribassista organizzato. Per far luce sul mito che si era creato, un economista del NYSE, Edward Meeker, scrisse un libro sulle vendite allo scoperto, dimostrando che il crash non era stato provocato dai ribassisti: le statistiche parlavano chiaro, nel Novembre del 1929 solo l’1% delle azioni vendute erano allo scoperto; un altro studio del 1931 quantificava in meno del 2% lo stesso valore.Meeker fece una difesa dell’operatività allo scoperto, spiegando che servivano a creare liquidità nel mercato, calmierandolo quando saliva troppo, e difendendolo quando crollava perché i venditori allo scoperto poi si ricoprono, cioè ricomprano le azioni per poter incassare l’utile, e dunque lo sostengono.La vendita allo scoperto è in realtà l’espressione di un opinione, soggetta a rischi come l’acquisto; non ha effetti sulle capacità operative delle aziende, ma rappresenta solo una stima di quello che potrà essere il valore futuro delle azioni.
I politici comunque non si fecero convincere da Meeker, e proseguirono nelle indagini, ma a parte la produzione di un elenco di 350 ribassisti, non ottenero altro.Allora rivolsero finalmente l’attenzione ai rialzisti a quelli cioè che avevano provocato la bolla, e qui trovarono molto più materiale.Dalla deposizione di Fernand Pecora si scoprì che banche e broker primari avevano manipolato deliberatamente il valore delle azioni al rialzo, avevano piazzato titoli privi di fondamentali ai loro clienti,
avevano distribuito in modo preferenziale le azioni buone solo agli “amici”, e così via. In altre parole comportamenti analoghi a quelli che abbiamo visto ai giorni nostri. Nel 1934 fu emanata una legislazione che portò alla costituzione della SEC (la ns. Consob) e alla separazione tra banche commerciali e broker finanziari. I ribassisti degli anni 30 ebbero un destino misto. Joseph Kennedy, padre del futuro presidente, fu nominato capo della SEC, appena dopo aver partecipato ad un operazione ribassista sulle azioni della Libby Owens Ford. Roosvelt aveva infatti deciso di mettere un volpone a guardia del mercato.Jesse Livermore perse una fortuna cercando di anticipare un rialzo del mercato che invece non arrivò e nel 1934 fu dichiarato insolvente; si sparò in una stanza di albergo nel 1940 lasciando scritto: la mia vita è stata un fallimento.
Il susseguirsi di rialzi e ribassi è stato il leit motiv del mercato anche negli anni dopo la seconda guerra mondiale.Inevitabilmente i ribassisti sono stati oggetto di pubblico spregio in ogni fase di calo. Anche i Giapponesi si riferirono a un misterioso complotto estero durante lo scoppio della loro clamorosa bolla negli anni 90 (nel 1998 hanno imposto restrizioni alle vendite allo scoperto).
In ogni situazione in cui i ribassisti sono stati incolpati, troviamo invece che le cause del crollo dipendono da una precedente bolla, che era stata accompagnata da una cattiva allocazione delle risorse e da un insostenibile accumulazione di debito, cause alla radice dello scoppio della bolla.
Oggi non è diverso. All’inizio del 2001 quando il mercato accelerò la caduta, si erano sentite lamentele contro le vendite allo scoperto.Dopo l’11 settembre si sono raggiunti toni isterici, si è parlato di antipatriottismo.Gli avvocati hanno chiesto alla SEC di produrre divieti a queste operazioni.In base ai loro rapporti, la UBS e la Bear Stern hanno vietato ai propri clienti di vendere allo scoperto.
Si dice che il progresso in finanza avviene ciclicamente, non linearmente. Mi sembra però che per quanto concerne le vendite al ribasso, i progressi nei secoli non ci siano stati.La più eloquente dimostrazione della loro funzione è stata fatta da Bernard Baruch che fu convocato a Washington dopo una crisi di mercato nel 1916 per giustificare le sue vendite allo scoperto del titolo Broklyn Rapid transport Company; a quel tempo il Congresso cercava appunto di vietare le vendite allo scoperto.Baruch spiegò che i ribassisti possono guadagnare solo se i rialzisti prima hanno portato le azioni a livelli di sopravvalutazione. In particolare disse che i rialzisti sono così popolari perché l’ottimismo è una forte eredità della ns. nazione; ma l’eccesso di ottimismo può fare danni ben superiori al pessimismo, perché tende ad azzerare ogni forma di cautela.Per beneficiare del libero mercato occorre che ci siano compratori e venditori, rialzisti e ribassisti; un mercato senza ribassisti sarebbe come una nazione senza libera stampa: non vi sarebbe nessuno a criticare e a contenere l’eccesso di ottimismo che sempre porta a disastri.







Parte sesta: considerazioni geopolitiche


All’inizio del 20° secolo c’era già molta preoccupazione in Europa per il declino dell’Occidente. Molti pensavano che la leadership europea nel mondo manifatturiero del 19° secolo si sarebbe rivelata un vantaggio temporaneo, che l’Europa stava soffrendo di una decadenza sociale di lungo periodo, e che l’Asia sarebbe divenuta il continente dominante se non altro per il peso dei suoi numeri demografici (sembra attuale eppure sono passati cento anni).
Questo timore era particolarmente elevato in Germania, dove non era solo riferito alle grandi popolazioni indiana e cinese, ma anche alla Russia. Alcuni dei consiglieri del Kaiser all’inizio della prima guerra mondiale pensavano di combattere una gerra preventiva (ricorda qualcosa?): se non potevano distruggere la Russia mentre ancora potevano, la Russia sarebbe diventata troppo forte per loro. Molti europei avevano opinioni razziste sulle popolazioni asiaitche, ma c’era mescolato un timore evidente nelle pretese di superiorità razziale. Nel 1914, tutti temevano le popolazioni che si trovavano ad est rispetto a loro. I Russi temevano le orde mongole ed i giapponesi, che avevano sconfitto i russi nella guerra del 1905 (la prima guerra in cui una potenza asiatica si era dimostrata tecnologicamente superiore ad una nazione europea). I tedeschi e l’impero austro-ungarico temevano gli slavi dei balcani; questa paura portò gli austriaci a voler prendere la scusa per attaccare la Serbia nel 1914. I francesi e gli inglesi temevano i tedeschi. Solo gli americani erano troppo lontani al di là dell’atlantico per temere qualcuno in particolare.
Come sappiamo l’Asia non è arrivata a dominare il mondo nel ventesimo secolo. C’è stato un declino dell’Europa, perché ha fatto due guerre mondiali di cui è stata la principale vittima. Ma il potere non è passato agli asiatici bensì agli americani che sono diventati incontrastata potenza mondiale durante la seconda guerra mondiale, sostituendo l’impero britannico; e già da prima avevano raggiunto la leadership tecnologica con l’avvento dei giganti gemelli: elettricità ed automobile. Inoltre vi è stata una pressocchè continua leadership della lingua inglese, che probabilmente risale alla guerra dei sette anni quando la Francia perse il Canada e l’India, fallendo nella guerra contro la potenza emergente russa di Federico il grande. Il periodo britannico è durato dal 1759 al 1914 (il “lungo 800”) , nonostante la separazione dalle colonie americane avvenuto nel 1776. Il bastone del comando è passato tra il 1914 e il 1945, agli USA. Il periodo totale di egemonia della lingua inglese è stato quindi di 250 anni. Nella prima metà del 20° secolo, l’Asia non è riuscita ad avvantaggiarsi del declino europeo, manifestatosi chiaramente tra il 1900 e il 1945. Da allora fino ad oggi, l’Europa ha recuperato in qualche cosa, ma rimane assolutamente lontana dalla posizione relativa che aveva nel 1900. L’Unione Europea resta una grande economia ma ha costi elevati, una capacità tecnologica di medio livello (la maggioranza delle esportazioni europee sono di prodotti inventati prima del 1900), ed una capacità militare molto limitata: come l’Asia, si è finora sviluppata sotto l’ombrello difensivo americano.
La Russia ha provato il modello comunista scoprendo che, sebbene utile per combattere la seconda guerra mondiale, non era sufficientemente competitivo per essere economicamente vivibile in tempi di pace. La Cina ha fatto anche lei lo stesso errore: l’invasione giapponese le è costata una generazione di mancato sviluppo, e la vittoria di Mao glie ne è costata un'altra. La Cina è 50 anni indietro rispetto a dove sarebbe potuta già essere se il suo sviluppo non fosse stato interrotto.
Il grande errore del Giappone è stato Pearl harbor, che ha arrestato lo sviluppo nipponico di una generazione. Per queste ragioni, le principali potenze asiatiche, così come l’India che ha adottato una forma relativamente benigna di social democrazia inglese, non sono state in grado di avvantaggiarsi dell’opportunità loro data dagli atti autodistruttivi dell’ Europa.

Oggi comunque, demografia e aritmetica restano saldamente a favore dell’Asia, come sempre. La popolazione ammonta a circa la metà del mondo. Invece quella dell’Unione europea e degli USA, anche sommando Canada e Messico non è neanche un sesto. Inoltre la loro popolazione è relativamente più anziana, e i tassi di natalità più bassi.
Questi sono fattori di declino. Invece nei prossimi anni, le principali nazioni asiatiche avranno costi molto più bassi, anche se poi a un certo punto saliranno come è successo in Giappone, ed un tasso di risparmio molto elevato che consentirà loro l’accumulazione di capitale e dunque lo sviluppo.
Gli standards educativi degli studenti asiatici migliori sono molto alti. La Cina ha sempre creduto nell’utilità di educare un elite –la classe dei mandarini nella vecchia cina – e ha proseguito in questa politica. Questi studenti cinesi sono privilegiati, ben seguiti, fortemente motivati. Il primo 10% degli studenti cinesi nelle scuole superiori è probabilmente di gran lunga superiore al primo 10% americano ed europeo. Lo stesso vale per per altre nazioni asiatiche, come ad esempio Singapore. Stanno sviluppando una classe media che sta crescendo in numero e che, come nell’Occidente, i governi cercano di soddisfare. Solo la Cina resta una società diretta in modo autoritario, ma il partito comunista resterà al potere solo nella misura in cui sarà in grado di soddisfare le aspirazioni dei cittadini ormai lanciate verso il modello occidentale.
La Cina ha il maggior potenziale di crescita, seguita dall’ India. I prossimi decenni dovrebbero dunque essere quelli in cui si concretizzerà la previsione degli europei di cento anni fa.
A meno che… lo sviluppo asiatico non venga interrotto da divisioni politiche, guerre ed altri disastri,come durante il 20° secolo.
Dal punto di vista dell’attualità geopolitica la chiave è che gli americani sono preoccupati da futuri attacchi terroristici, il che li forza a rivedere le loro relazioni con molte nazioni musulmane, dotate di popolazioni ampie e grandi riserve petrolifere. Tra le più importanti implicazioni che ciò ha nella sfera economica c’è la riconsiderazione delle politiche sulle scorte, che erano basate sulle consegne all’ultimo minuto. Dopo l’11 settembre le aziende hanno capito quanto vulnerabili fossero i trasporti navali, terrestri ed aerei, agli attacchi terroristi. E questo mentre, come risultato della globablizzazione, le unità produttive sono state disseminate in vari posti del mondo; nell’ultima decade le aziende infatti hanno cercato di spostare le fabbriche nei paesi con bassi salari, il che comporta però un maggior bisogno di trasporti e logistica.Washington è cosciente che ulteriori attacchi terroristici potrebbero colpire duramente il modello di sviluppo attuale. Se le aziende non possono più contare sui canali di trasporto e consegna, l’economia sarà duramente colpita, il che è riflesso in particolare nel rialzo dei premi assicurativi.
Europei ed Americani hanno un approccio fondamentalmente diverso rispetto al pericolo derivante dal mondo musulmano. Gli USA preferiscono la soluzione militare. Gli europei sono preoccupati circa l’aumento di odio che questa soluzione produrrà contro l’Occidente, per cui sono più inclini verso soluzioni diplomatiche, ma non possono dimostrare in modo conivincente che ciò sortirà effetti migliori. Mentre ai tempi della guerra fredda, Europa ed USA furono forzati a cooperare strettamente, oggi gli USA vogliono fare da soli(anche perché l’odio musulmano è concentrato più verso gli USA che verso l’Europa). E dunque gli americani stanno dando meno attenzione agli europei , e stanno cercando migliori relazioni con il vecchio nemico, la Russia ( ha le maggiori riserve di gas naturale che diventerà probabilmente la più importante fonte energetica quando la maggior parte delle riserve petrolifere sarà usata tra circa 20 anni). Gli USA però non potranno più agire come locomotiva del mondo, economicamente. Importando molto di più di quanto abbiano esportato gli USA hanno svolto questo ruolo negli ultimi dieci anni, il che è stato molto importante per l’Asia e l’Europa, perché queste aree non sono capaci di generare crescita autonoma. Nel frattempo il deficit estero USA ha raggiunto livelli tali che per finanziarlo ha dovuto attrarre i risparmi mondiali. A parte il fatto che non è sano per l’economia che la nazione più ricca risucchi una grande parte dei risparmi mondiali (che dovrebbero invece essere usati per investimenti nelle aree più promettenti), questa situazione non può durare molto a lungo. Un deficit pari al 5% del Pil che si avvia prossimamente al 6% lascia poco risparmio disponibile al resto del mondo. La situazione si correggerà da sola prima o poi , perché non è vero che le migliori opportunità di investimento siano tutte negli USA, anzi. Infatti il rendimento degli investimenti europei è salito recentemente ai livelli americani, e soprattutto, quello USA sta scendendo a causa dell’eccesso di capacità produttiva. Europei ed asiatici dovranno improvvisamente contare molto più su stessi, cioè dovranno prendere misure per promuovere la crescita interna se vogliono evitare una crisi profonda. Per il Giappone significa riformare il sistema economico e ristrutturare le banche; per l’Europa significa rendere più flessibili l’economia e il mercato del lavoro. Questi cambiamenti, ovviamente, altereranno significativamente la composizione dell’economia mondiale.
Nel 2001, ben prima del famoso settembre, la CIA elaborò un rapporto di 100 pagine intitolato:
“Trends demografici di lungo termine: rimodellare il contesto geopolitico” .
Dopo aver sottolineato che la popolazione delle nazioni sviluppate calerà rapidamente nei prossimi 50 anni, mentre quella dei sottosviluppati – specialmente le nazioni islamiche – salirà drammaticamente, il rapporto fornisce le proiezioni come ad esempio:
lo yemen passerà da 18 milioni a 80 milioni, la Russia scenderà da 145 milioni a 100, l’Iran salirà da 66 a 105, il Giappone crollerà a 109 milioni, l’Iraq da 27 a 110 milioni, e anche l’Arabia saudita è prevista salire oltre i 110 milioni, l’Italia scenderà da 57 a 45 milioni, l’Afghanistan salirà da 21 a 70 e così via. Commento testuale:
“da sempre drammatici declini nella popolazione hanno creato vuoti di potere riempiti da nuovi gruppi etnici. I differenziali nei tassi di crescita della popolazione tra vicini hanno storicamente alterato l’equilibrio convenzionale del potere……I nostri alleati nel mondo industrializzato affronteranno una sfida senza precedenti dovuta all’invecchiamento. Sia l’Europa che il Giappone perderanno influenza e potere nel mondo…..il fallimento nell’integrare adeguatamente le ampie popolazioni di giovani nel Medio oriente e nell’Africa sub-sahariana è probabile perpetui il ciclo di instabilità politica, guerre etniche, rivoluzioni e attività contro i regimi che già caratterizzano molte di questi paesi. La gioventù disoccupata fornirà un eccezionale substrato ai movimenti radicali e alle organizzazioni terroristiche, soprattutto nel Medio-oriente.”

Inoltre il rapporto esamina temi a noi noti:
- la declinante domanda aggregata delle nazioni sviluppate;
- la mancanza futura di forza lavoro nei paesi industrializzati e quindi la necessità di un immigrazione crescente;
- il continuo trasferimento della produzione manifatturiera in Asia;
- la leadership futura della Cina, presto la prima potenza economica mondiale, cui seguirà analogo primato militare;
- la crisi dei sistemi pensionistici e sanitari nel mondo occidentale non più sostenibili in futuro;
- la crisi dell’Europa (il rapporto ritiene che sarà impossibile mantenere il patto di stabilità, e dunque la moneta unica).
Poi analizza anche le implicazioni dell’aumento nell’urbanizzazione in un elevato numero di nazioni instabili, il diffondersi globale delle malattie infettive, e le conseguenze avverse sull’ecosistema della rapida crescita della popolazione nel mondo in via di sviluppo.


Un anno dopo questo rapporto, nel 2002 è salito alla ribalta (citato tra i più influenti pensatori americani, esponente di punta dei neo-conservatori) Robert Kagan, autore del best-seller “Paradiso e Potere: America ed Europa nel nuovo ordine mondiale” . Vediamo di capire allora il Kagan pensiero.
Parte dall’identificazione delle due forze storicamente radicate che insieme hanno concorso a creare un divario straordinario tra USA ed Europa, secondo lui le uniche due rivali per il potere globale. La prima è strutturale, ed è l’enorme disparità militare ; la seconda è ideologica, e riflette le diverse concezioni del potere: l’America ha optato per una visione del potere supportata dalla forza, mentre l’Europa ha preferito puntare sulle leggi negoziate e sulle convenzioni per integrazioni transanazionali. Poiché è stata a lungo teatro di guerre, succedutesi una dopo l’altra, adesso l’Europa rigetta l’idea di basarsi sul complesso militar-tecnologico. Per Robert Kagan , l’Europa quindi rappresenta in teoria il paradiso, cioè una concezione che rifiuta la forza e si basa solo sui negoziati civili.Così stando le cose, però , l’egemonia americana non potrà che aumentare in futuro. Non solo per la scelta europea di abdicare dal potere convenzionale(militare), ma anche per l’effetto del crollo dell’Unione Sovietica. L’assenza di una seconda super-potenza nel mondo del dopo guerra fredda, ha lasciato gli USA senza un contrappeso. Ad esempio, per Kagan, la guerra all’Iraq è stata un punto di svolta, nel nuovo ordine mondiale: comporterà ancora più espansionismo americano. La storia dello sviluppo militare a stelle e striscie punta in questa direzione. Kagan però non è turbato da queste previsioni, anzi ritiene positivo un simile scenario perchè crede fortemente che la democrazia americana contenga in sé gli anticorpi naturali all’esercizio del potere politico e militare, sia per considerazioni economiche che soprattutto per quella che lui definisce “la coscienza morale” dell’americano.

La “vecchia”Europa non ci sta? Che importa, dopo essere stata superata durante la prima metà del novecento (anche qui grazie a un paio di guerre mondiali – ricordo che nel 1913 alla vigilia della prima l’Europa aveva il 45% del PIL mondiale, mentre gli USA appena il 19%, ma nel 1950 vi era già stato il sorpasso) e poi surclassata nella seconda metà per quanto concerne scienza e tecnologia e potere militare e influenza politica, con le prospettive che la CIA prevede diviene irrilevante per gli interessi nazionali: per questi ultimi fondamentale è la terra a Oriente.

In forma ultra-sintetica e semplificata, questa l’essenza del Kagan pensiero. Che ci facciamo?
Dal punto di vista dietrologico, una simile concezione quadra con l’idea che dunque l’11 settembre, ad esempio, sia stato fomentato ad arte per avere la scusa ed avanzare sulla strada dipinta da Kagan, potenziando il complesso militare-industriale (l’unico che ha giovato senza dubbi di tali eventi , primo candidato al “cui prodest?” di romana memoria).
A questo proposito sono da leggere le inchieste di Thierry Meyssan , in cui si mostra la gran quantità di bugìe e contraddizioni esistenti nelle versioni ufficiali dell’11 settembre(ed anche interessanti rivelazioni su chi guadagnò comprando opzioni il giorno prima degli attentati). E a chi si chiede perché chi comanda negli USA avrebbe fatto tutto ciò, Kagan dunque in sostanza fornisce una risposta.
La visione geopolitica di Kagan quadra anche con l’analisi di un mondo economico USA centrico e squilibrato. In sintesi, dipinge una situazione di profonde asimmetrie in questo mondo unipolare, il che ci porta all’economia e ai mercati finanziari. I grandi aggiustamenti nei prezzi degli assets sono quasi sempre provocati dalla risoluzione delle asimmetrie, tra le quali giganteggia quella dello squilibrio americano nell’economia globale. La Storia ci insegna che asimmetrie simili non sono sostenibili nel tempo, e che la soluzione degli squilibri passa sempre da un riallineamento dei prezzi relativi, in questo caso tra i prezzi in dollari e i prezzi non in dollari. Finora, lo scoppio della bolla americana aveva avuto poche conseguenze in tal senso: cioè gli assets USA hanno tenuto bene se non meglio rispetto al resto del mondo, e il più importante prezzo relativo, il dollaro, era rimasto intoccato. Adesso il processo è iniziato, ma siamo appena all’inizio delle tensioni, come ci manda a dire inequivocabilmente la situazione del sempre crescente deficit commerciale americano, che è anche la risposta all’ipotesi di Kagan di un dominio geopolitico USA crescente nel futuro.
I mercati finanziari si incaricheranno di pilotare un riequilibrio puramente economico: innanzitutto con una grande svalutazione del dollaro, la forza singola più importante; poi con tassi d’interesse reali più alti, che dovranno per forza ridurre il tenore di vita americano se gli USA vogliono ricreare un tasso di risparmio nazionale “normale” in termini storici. Certo Europa e Giappone subiranno delle conseguenze, con il costo del rafforzamento delle proprie valute, ed infatti il riequilibrio globale si avrà solo se la loro risposta sarà a base di riforme strutturali in grado di aumentare il potenziale delle rispettive domande interne. E la strada non è quella di militarizzarsi, perchè anche per loro si porrebbe un problema finanziario insolubile a lungo andare. Un pianeta di fortezze militari, non è la strada maestra, così come non lo è il tentativo di resistere al calo del dollaro innescando svalutazioni competitive, o protezionismo e cambi artificiali.
A questo proposito, concludendo, ci dedichiamo al falso mito del capitalismo bisognoso di guerre per poter funzionare, che certamente alberga nel retroterra mentale dei neoconservatori americani.
Nel periodo attuale è tornato di moda, ma non è affatto nuovo. Già nel 19° secolo Hobson ad esempio sosteneva che il capitalismo concentra troppa ricchezza in poche mani; i capitalisti impiegano il minor numero possibile di lavoratori per tenere bassi i salari; tutto ciò porta a un eccesso di risparmi che trovano sfogo nll’espansione imperialista aggressiva.
Karl Marx coniò l’espressione “esercito di riserva” per indicare appunto I lavoratori disponibili mantenuti disoccupati dal capitalismo per avere a livello minimale i salari. Seguaci di Marx come Lenin e Bukharin ritenevano che i profitti del capitale non potessero essere investiti all’interno e che i capitalisti cospirassero sempre per fare guerre al fine di impiegare ed ottenere profitti dalla produzione di armi.
J.M. Keynes ridiede rispettabilità alla idea che il capitalismo tende a non utilizzare il pieno impiego dei lavoratori disponibili; la sua teoria della domanda effettiva ha avuto un grande successo così, ad esempio, Paul Krugman, ns. contemporaneo, ritiene che la seconda guerra mondiale ha avuto effetti positivi: ha salvato il mondo dalla grande depressione rimovendo le inibizioni pregiudiziali verso la spesa pubblica. Krugman ha scritto che l’11 settembre potrebbe paradossalmente migliorare la situazione se si traduce in un aumento degli investimenti. In parole povere, sembra credere nella distruzione creativa: la prosperità emerge dalla devastazione.
I fautori del mito in genere si rifanno agli esempi storici che secondo loro dimostrano chiaramente come il capitalismo sia imperialistico e guerrafondaio: ha bisogno di una spinta di tanto in tanto che arriva dalla spesa militare.
Ma la Storia è piena di esempi imperialistici ben prima del capitalismo. I romani, Alessandro, e molti altri nel mondo antico. L’impero dell’antica Cina e financo gli Inca. L’imperialismo anzi precede il moderno capitalismo industriale di molti secoli. E l’eccesso di risparmio capitalistico non c’entra nulla con i sopra ricordati esempi di grande imperialismo storico. Naturalmente si può sostenere anche, che il moderno capitalismo abbia le proprie tendenze imperialistiche.
Ciò avviene perché ne è intrinsecamente e inevitabilmente portatore, o perché viene così indirizzato da oligopoli specifici?
D’altronde la vera difficoltà che il capitalismo incontra, non è l’eccesso di risparmi (basti pensare alla situazione opposta generatasi nel paese leader, gli USA) bensì la non comprensione fino in fondo di come funzionino i bisogni e i desideri reali. Ma anche le previsioni di famosi oppositori del capitalismo sono sempre fallite. Oggi i consumatori consumano a livelli che pochi avrebbero previsto anche solo qualche anno fa ed è molto probabile che si continueranno a ricercare livelli di consumo sempre superiori.
La catena reale, che va dalla distruzione(durante la guerra) alla ricostruzione esercita ovvi effetti redistributivi, contabilmente genera una crescita del PIL, esattamente come un terremoto che butti giù un palazzo, immediatamente ricostruito.
La catena finanziaria che va dal deficit pre-bellico a quello post-bellico, e che solo in tempi molto lunghi può vedere (se tutto va bene) il ripagamento dei debiti creati dall’atto bellico , esercita anche lei una forte ridistribuzione di reddito dai pagatori di tasse agli incassatori dei tassi d’interesse. Ma tutto ciò non ha nulla di peculiare al capitalismo, essendo sempre esistito anche in pieno feudalesimo.
Piuttosto, il problema del capitalismo è che ha bisogno di sviluppo continuo, di crescita infinita; il che prima o poi lo porta a generare contraddizioni insanabili, ivi incluse quelle ecologiche. Occorrerebbe inventare un capitalismo stazionario, capace di funzionare in modo efficiente ed efficace, anche in presenza di mantenimento dei livelli acquisiti ed in assenza di sviuppo ulteriore. Utopia?










Epilogo

Lo strano momento storico che stiamo attraversando rende l’uomo
insicuro, in quanto percepisce che il futuro è molto incerto e di
conseguenza tende a chiudersi nel proprio microcosmo, dandosi e
cercando sicurezze in regole e sistemi che ritiene di poter scegliere
e che invece sono generalmente il frutto di messaggi traslati dai
media.
Il fatto che una persona lavori una vita per crearsi una vecchiaia
tranquilla, viene considerato uno degli elementi fondamentali per
trascorrere il presente con la minor ansia possibile: questo stato
d’animo generalizzato fa sì che qualsiasi tentativo per cercare di
comprendere il perché dell’andamento del mondo cozzi contro la
repulsione di quanti non vogliono mettere in discussione equilibri
interiori precari, mentre il tipo di vita dell’uomo d’oggi lo porta
altresì a porre i propri interessi al centro degli affanni, senza
riuscire a partecipare agli eventi con quel distacco che, solo,
permette di rivitalizzare il tutto. Così facendo, finisce per perdere
la visione d’insieme della situazione e timori ed iperattività gli
impediscono inoltre di pensare.
Grazie a questo comportamento di moltitudini, il vuoto decisionale
che deriva dalla mancanza di analisi e sintesi viene così fatalmente
occupato da gruppi di potere che finiscono per stabilire le regole
del gioco che sono racchiuse nel termine di “politically correct”.
Il vuoto di valori e la mancanza di meditazione finiscono inoltre per
portare le persone ad aggrapparsi a maghi, indovini, chiromanti ed
oroscopi, mentre in campo economico ci si affida alle profezie di
quei guru che tranquillizzano circa il divenire delle cose. Per
l’uomo della strada l’importante è avere delle risposte ai vari
perché che quotidianamente sorgono davanti alla volatilità dei
movimenti nei mercati mobiliari. Poco importa se poi dopo poco tempo
le motivazioni cambiano o si contraddicono: l’essenziale è che ad
ogni variazione significativa ci sia qualche interpretazione.
In sostanza l’uomo, racchiuso nel proprio egocentrico castello di
sicurezze artificialmente create, tende a rifiutare quella dialettica
con la quale potrebbe trovare la verità nascosta degli accadimenti, a
patto di mettere tutto e tutti in discussione. Per esempio, se uno
avesse voglia di rileggersi gli articoli dei principali quotidiani
economici internazionali degli ultimi anni, si renderebbe conto di
come le sicurezze sulle quali ha basato il proprio fragile equilibrio
altro non erano che parole al vento, in quanto generalmente smentite
dagli eventi successivi.
Del resto la facilità con la quale l’opinione dominante di un dato
periodo viene in genere accettata, dipende anche dal fatto che la
nostra ragione – che esprime la capacità di maneggiare i dati che si
hanno a disposizione – ci porta a determinate conclusioni partendo da
determinati presupposti che, se non corretti, portano a conclusioni
tranquillizzanti ma errate. Non volendo turbare i propri sonni e
certezze, l’uomo tende così ad escludere la propria qualità
intellettuale superiore, che è l’intelligenza, considerata come
capacità di percepire con una intuizione immediata, cioè senza
conferma del ragionamento – la giustezza delle verità fondamentali.
In considerazione di quanto sopra non sorprende pertanto che sia
difficile per i più stabilire se il Re abbia i vestiti che altri dicono di vedere, oppure se sia Nudo ; se il sistema economico-finanziario sia
sano, oppure galleggi su un magma incandescente pronto ad esplodere:
il comportamento delle Borse, per esempio, lascia aperte tutte le
soluzioni. Infatti pochi hanno compreso la tragicità del trend ed
hanno già agito di conseguenza. Gli altri aspettano, come sempre, di
venire travolti dal panico del caos.
“Cosa conta veramente?” ho chiesto al giardinere. Il sig. Fausto passa la gran parte del suo tempo lavorando nei giardini. Non ha computer, né televisioni che lo condizionino nei suoi pensieri. Ha solo se stesso e la forza della natura: le nuvole sopra la testa, il terreno, le piante. Fausto ha tempo per pensare e il suo cervello non è occupato da molto altro che non siano i suoi pensieri. Mi ha ispirato alcune riflessioni filosofiche.

Limitazioni del pensiero razionale. Noi crediamo di considerare ogni cosa razionalmente, e di prendere decisioni basate sulla ragione e sull’informazione disponibile. Ma in verità, è il cuore non la testa che comanda. Il cuore distorce la logica e l’informazione ai suoi propri fini. In breve, noi crediamo ciò che vogliamo credere.
Incapacità di guardare nel futuro. Quando uno si punta una pistola sulla tempia e preme il grilletto, il risultato dell’azione – se la pistola è carica – è facilmente prevedibile. Ma in sistemi complessi – come l’economia, il mercato azionario, o la vita di un individuo, il futuro non è così prevedibile. John Maynard Keynes scriveva nella Teoria Generale dell’Occupazione, Interesse e Moneta (1936): “ Il fatto evidente è l’estrema precarietà delle basi di conoscenza su cui poggiano le nostre stime di rendimento. La conoscenza dei fattori che governeranno il rendimento di un investimento per alcuni anni a venire, è di norma molto sottile e spesso trascurabile. Se parliamo francamente, dobbiamo ammettere che le nostre basi di conoscenza per stimare il rendimento a 10 anni di una ferrovia, di una miniera di rame, una fabbrica tessile…. ammonta a poco e qualche volta a niente….”
Perfino il presente ed il passato sono largamente non conoscibili. Il mondo è inondato da “informazioni” così tanto che è impossibile padroneggiarle tutte. In realtà la gente coglie e sceglie alcuni pezzi di informazione, di norma quelli che servono ai suoi fini immediati e diretti. La nuova Era dell’informazione” non cambia questo stato delle cose, ma solo aumenta i costi per l’ottenimento delle informazioni anche non volute.
La perversità dei mercati. Non solo non si può sapere cosa il futuro ci riserva, ma il tentativo di immaginarlo in pratica distorce il futuro! La gente che cerca un Grande Minimo nei mercati azionari, ad esempio, è improbabile che lo trovi. Perché ? perché il Grande Minimo arriva solo quando la gente è così stufa delle azioni che smette di cercarlo.
La natura sorprendente e paradossale della vita stessa: gli investitori non ottengono ciò che si aspettano, ma solo ciò che si meritano. Questo è vero nella vita in genere. Pazienza, modestia, duro lavoro, cupidigia, paura e altre virtù e vizi ripagano della stessa moneta. La gente di norma avrà ciò che ha seminato. Perfino l’amore non arriva a coloro che lo cercano, ordiscono e tramano per lui, ma a coloro che lo danno via liberamente. La vita è piena di sorprese.
Molte filosofie sono fondate su una teoria della conoscenza; forse sarebbe meglio partire da una teoria dell’ignoranza che è dovunque ed in ogni cosa.
Non sappiamo come andranno né le ns. azioni né il ns. matrimonio. La gran parte di ciò che sentiamo è privo di senso, di ciò che leggiamo è sciocco, e la maggioranza delle persone che incontriamo è truffaldina. Più importante: le persone che incontriamo pensano di noi esattamente la stessa cosa. Ed entrambi abbiamo ragione! Siamo tutti completamente ignoranti delle cose che contano di più.
Il signor Fausto mi ha detto che la chiave è essere sincronizzati con le fasi della luna; questo è l’essenziale. Se ignoriamo la luna quando piantiamo nel giardino, non otterremo un buon raccolto. E se mettiamo innesti negli alberi da frutto quando c’è la luna nuova, otterremo una crescita rapida, ma con pochi frutti.
Insomma avete afferrato il concetto: qualsiasi cosa si faccia, cercare i principi , le regole, l’essenzialità, e perseverare in essi.



fine