Nonostante la decisione di Standard & Poor's di abbassare il rating USA, i bond hanno messo a segno un rally straordinario, arrivando a rendimenti minimi storicamente da record (2% sul decennale proprio ieri giorno in cui l'inflazione ufficiale è salita al 3,6%), a dimostrazione se ce ne fosse ancora bisogno- di quanto irrazionali possano arrivare ad essere i mercati. Ma questa irrazionalità , come sempre , non arriva da sola. Essa va a braccetto con la follia delle autorità, passate da eccessi di deficit clamorosi, a manovre di austerità lacrime e sangue in meno di tre anni, per non parlare dell'ostinato attaccamento a tassi d'interesse azzerati (e promessi tali con anni di anticipo) ed agli sciagurati acquisti di titoli pubblici da parte delle banche centrali e relativi pompaggi monetari. In questo sfacelo intellettuale, tipico di chi si sente onnipotente, emerge l'incredibile anomalìa di prendere decisioni così gravide di conseguenze, basandosi su concetti contabili a dir poco inaffidabili, come il PIL.
La teoria keynesiana degli stimoli fiscali, in base alla quale la spesa pubblica fa crescere l'economia, si basa su un trucco nascosto: la definizione di crescita economica adottata convenzionalmente , il cosiddetto PIL (Prodotto interno lordo). Dove sta il trucco? A differenza del Prodotto Interno Privato (PIP) che è misurato da ciò che i mercati realmente sono disposti a pagare per qualcosa, il prodotto pubblico è misurato puramente sulla base del suo costo di produzione, e quindi non tiene conto del suo valore di mercato. Un esempio, per chiarire con facilità: se un governo decidesse di spendere 1 miliardo per produrre rottami invendibili, senza alcun valore di mercato, il PIL risulterebbe comunque aumentato di 1 miliardo. Si capisce quindi perché con questo modo di fare i conti, la spesa pubblica appaia superficialmente un fattore di crescita dell'economia. Naturalmente sarebbe ingiusto dire che ogni spesa pubblica sia priva di valore. Ma è certamente vero che molte funzioni governative hanno molto meno valore rispetto al loro costo; se così non fosse, sarebbero fornite dal libero mercato senza alcun intervento pubblico. Ed inoltre le manovre pubbliche fatte per sostenere l'economia durante una recessione tendono ad aver ancor meno valore della media, perché se ne avessero avuto sarebbero già state incluse nei budget annuali. Un altro argomento contro la metrica del PIL è che il prodotto pubblico riflette decisioni politiche più che economiche, così che includere la componente pubblica nel calcolo del Prodotto nazionale oscura i veri comportamenti del mercato privato e dà un quadro erroneo della salute dell'economia. La soluzione sarebbe semplice, basterebbe riferirsi al PIP invece che al PIL, togliendo da quest'ultimo tutto ciò che è statale; nonostante le carenze statistiche sempre esistenti, in questo modo si avrebbe una visione migliore del comportamento dell'economia.Vi sono due opposte teorie sull'effetto dell'aumento della spesa pubblica: quella sopraricordata keynesiana, e quella Austriaca (dagli economisti austriaci come von Mises, Singer, etc.) secondo cui la spesa pubblica leva spazio al settore privato, e così facendo peggiora l'efficienza nell'uso delle risorse, e dunque a lungo andare danneggia la crescita. Se si fa la verifica statistica opportuna, usando il PIP, la scuola austriaca appare più plausibile.
Lo stesso discorso si può fare a proposito di uno degli altri "miti" disgraziatamente imperanti: tenere i tassi a zero e pompare moneta, aumenta la crescita. Già lo stesso Keynes aveva capito che ciò non è affatto sempre vero. Quando ci si trova con tassi bassi e liquidità abbondante, ulteriori manovre in tal senso sono non solo inutili, bensì controproducenti. Se il cavallo non vuol bere, è peggio forzarlo. Inoltre l'errore commesso dalla vulgata imperante è guardare solo all'effetto che il basso costo del denaro avrebbe sui debitori, specie le imprese, da cui dovrebbe venire la spinta alla crescita. In realtà se un operazione industriale è fallimentare, non è azzerando il costo del denaro che si può farla diventare fruttuosa. Anzi, proprio il denaro "gratis" può spingere molti a intraprese assolutamente inefficienti, dunque nuocere all'economia nel lungo termine. Ma occorre guardare anche dall'altro lato della medaglia, cioè considerare l'effetto sui creditori, sul risparmio, che è la fonte di ogni crescita. Svilire il valore del denaro, disincentivarne l'accumulazione via tassi azzerati o addirittura negativi, come in questa drammatica fase storica, vuol dire uccidere la gallina dalle uova d'oro. Quasi me ne vergogno a scriverne, tanto mi sembrano ovvietà. Eppure oggi queste semplici considerazioni non hanno diritto di cittadinanza, basti pensare che tutte le autorità monetarie e finanziarie danno per scontato l'opposto.
Le due concezioni erronee sopra citate, inoltre, si legano fra loro. Dovrebbe essere chiaro ormai che ad esempio la massiccia espansione del debito federale sarebbe stata impossibile senza i tassi d'interesse reali negativi imposti dalla FED, e senza i suoi acquisti superiori ai 3 trilioni negli ultimi 3 anni. Se ci fosse stato il gold standard , i massicci deficit richiesti per gli "stimoli" avrebbero causato indigestione sui mercati di titoli di stato già da tanto tempo, forzando a rialzi dei tassi e a riduzioni di rating . Gli USA avrebbero dovuto perdere la tripla A già a inizio 2007 quando divenne chiaro che Bush stava producendo deficit da 400 miliardi annui al top del ciclo creditizio. Per cui oggi è molto più serio il rating di una sola A dato agli USA dall'agenzia cinese Dagong. La FED ha consentito la futile pazzia degli "stimoli", ed ha esacerbato molti dei loro effetti negative con le sue politiche monetarie estremiste. Lo stesso in Europa, dove la BCE aveva inizialmente cercato di essere solo un po' meno estremista, ma ormai si è totalmente "Fedizzata". Le recenti convulsioni dei mercati stanno certamente evidenziando come la FED abbia sbagliato tutto (ed infatti i membri dissidenti aumentano), anche se non lo ammetterà mai. Il fatto che l'abbassamento del rating sia stato seguito da un forte calo del rendimento dei bond, è un segno chiarissimo che ci si trova di fronte ad una bolla, per portata e stupidità intrinseca, analoga a quella famosa del 1637 sui bulbi di tulipano olandesi. La bolla nei "bulbi-bond" nel giro di alcuni mesi, se non addirittura settimane, scoppierà, ed in quel momento nessun ammontare di pompaggio FED, né nessuna promessa di tenere i tassi azzerati fino al 2100 o fino alla fine dell'universo, potrà impedire un Armageddon. A quel punto gli sforzi della commissione congressuale dei 12 deputati che dovrebbero proporre un modesto mix di tagli alle spese e di aumento delle tasse mentre cercheranno di essere rieletti nelle imminenti presidenziali, si dimostrerà inutile. Il mercato non sopporterà ancora a lungo il deficit, ed i creditori smetteranno di tenere in vita il cadavere dello zio Sam (ecco perché strategicamente al 2% nominale ed al -1,6% reale, vendere il decennale USA potrebbe rivelarsi operazione buona e giusta).