La politica del deficit
spending è praticata e auspicata con gran leggerezza, non solo da
politicanti e giornalisti bensì anche da qualche professore
d'economia(sigh!), eppure essa è insostenibile, specie per i paesi
ad alto indebitamento, così come i modi d'essere nella vita adottati
con spensierata leggerezza si rivelano pesanti e insostenibili nel
celebre romanzo di Milos Kundera.
Prima di passare alla
dimostrazione, un veloce riassunto delle puntate precedenti.
John Maynard Keynes
inventò questa politica economica negli anni 30 del secolo scorso,
quando l'economia mondiale si trovava in una Grande Depressione,
originata da varie concause tra le quali spiccava un eccesso di
produzione rispetto ai consumi; inoltre si era in epoca di equilibrio
nei bilanci statali e i debiti pubblici, per lo più conseguenza di
fatti straordinari come la Grande Guerra, erano di entità contenuta.
In tale contesto, l'idea
del noto economista: un “temporaneo” ricorso al deficit di
bilancio, finalizzato ad aumentare la domanda di beni e servizi
(famoso il paradosso delle buche da far scavare e poi ricoprire, per
esemplificare la finalità principale del suo deficit spending),
facilmente finanziabile sui mercati creditizi senza conseguenze
nefaste sui tassi d'interesse e sulle spese di indebitamento.
Fu la “mammella”
del secolo, cui tutte le classi dirigenti si attaccarono
immediatamente con entusiasmo puerile ben comprensibile: poter
spendere senza vincoli di bilancio è il massimo, specie per i
politici adusi a considerare i voti elettorali una merce in vendita
al miglior offerente.
Così il deficit spending
è rimasto imperituro anche se si sono succedute fasi economiche in
cui vi era forte crescita (anni sessanta) e la domanda eccedeva
l'offerta generando inflazione (anni settanta), per cui qualche
importante nazione (anni ottanta e novanta) provò a perseguire il
surplus di bilancio e l'abbattimento dei debiti pubblici. Ma poi è
arrivata la globalizzazione e a ogni fase di rallentamento
congiunturale si è tornati a incrementare i deficit con il risultato
di gonfiare i debiti pubblici e di portare alle stelle i tassi
d'interesse e le difficoltà di finanziamento. A quel punto, altro
che crescita da deficit, si prospettava la recessione da deficit.
Motivo per cui, in
mancanza di nuovi Keynes, le banche centrali -contravvenendo ai loro
mandati originari- si sono messe a finanziare i debiti pubblici,
direttamente o indirettamente, schiacciando i tassi d'interesse fino
a farli divenire negativi in alcuni casi, e ciò anche in presenza di
crescita robusta perchè -divenendo il nuovo criterio discriminante
la paura della deflazione- si postulava una magica soglia obiettivo
del 2% di aumento dei prezzi al consumo: solo superandola -e siamo ai
giorni nostri-dovrebbero interrompersi le loro “facilitazioni
quantitative” (elegante eufemismo inventato per indicare la
creazione di mezzi monetari) da cui l'attuale debito mondiale record,
pubblico e privato.
Nel frattempo il deficit
spending, da manovra eccezionale per stimolare la domanda aggregata
in situazione di depressione, è divenuto una costante della politica
economica, e l'immaginario collettivo ne è ormai dipendente (a furia
di ripeterla acriticamente anche una bugìa diviene vera) e dunque
resta inossidabile l'idea che se si riduce la crescita- nonostante il
deficit presente e passato- ci vuole altro deficit per farla
aumentare. Vi fischiano le orecchie?
Purtroppo però, come
anche il Lord Keynes della General Theory (1936)
condividerebbe, non esistono pasti gratis a questo mondo. Ne
consegue come già adesso, per paesi con alto indebitamento, la
politica del deficit spending sia controproducente ai fini della
crescita economica, perchè il danno sui tassi d'interesse e sulla
capacità di finanziarsi deprime qualsiasi sano sviluppo del prodotto
interno lordo.
Infine, c'è la questione
della sostenibilità, comprensibile con una elementare metafora che
illustra come manovre “eccezionali” -per definizione- non possono
divenire permanenti. A esempio, se si vuole dimagrire si può non
mangiare. Non c'è dubbio che in breve tempo si dimagrisce, ma poi
che succede? Se si continua a non mangiare si muore, magri quanto si
vuole, ma si muore, dunque nessuno può promuoverla a politica
permanente; piuttosto occorre perseguire un regime nutrizionale
sostenibile capace -dopo la fase “una tantum” di dimagrimento- di
mantenere stabile il normopeso ottenuto.
Analogamente il sistema
economico deve perseguire un ritmo di sviluppo sostenibile nel tempo,
senza divenire dipendente da droghe letali (tipo il deficit
spending).
Anche perchè, ammesso e
non concesso, (specie in Italia, specie se in spesa corrente invece
che in investimenti infrastrutturali) il deficit provochi un aumento
del PIL in un dato anno, per la medesima logica, azzerando il
deficit o anche solo riducendolo rispetto al precedente si provocherà
poi un decremento del PIL. Allora c'è una contraddizione palese nel
programmare simile diminuzione di deficit negli anni successivi,
pretendendo che non siano controproducenti per la crescita.
Insomma se la teoria che
ci vuole più deficit per avere più crescita è vera, allora è vero
anche il suo contrario. Oppure non è vera, specie quando diviene
permanente, e allora è masochismo puro mettersi nelle mani dei
creditori. Tertium non datur.
La triste realtà quindi è
che affidandosi a questa ricetta obsoleta i politici manterranno
sempre il deficit, con l'inevitabile accumulo dello stock di debito
dato dalla sommatoria dei disavanzi annuali. Un macigno
insostenibile, a lungo andare, a meno di non ricorrere alla più
iniqua ed occulta delle tassazioni: l'iperinflazione di una moneta in
svalutazione continua, come storicamente avvenuto numerose volte. Ed
è sempre finita male per il popolo.